XXI
Un
anno circa avanti che la sventura colpisse cosí duramente la duchessa
Sanseverina, ella aveva fatto una singolare conoscenza: un giorno che aveva la luna, come dicono a Parma, era andata
all'improvviso, verso sera, alla sua villa di Sacca poco al di là di Colorno,
sulla collina che domina il Po. Si dilettava di abbellire questa sua campagna:
le piaceva la grande foresta che corona la collina e giunge fin quasi alla
villa: e ci faceva tracciar pittoreschi sentieri.
— Vi farete rapir dai
briganti, mia bella duchessa: — le disse una volta il principe — non è
possibile che un bosco, dove si sa che voi andate passeggiando, resti deserto.
— E diede un'occhiata al conte, del quale sperava stuzzicare la gelosia.
— Non ho timori, Altezza
Serenissima, — rispose la duchessa con aria ingenua. — Anche quando vado a
spasso pei boschi, sto sempre tranquilla, confortata da questo pensiero: non ho
mai fatto male a nessuno: chi potrebbe odiarmi? — Parvero parole audaci:
ricordavano le ingiurie dette da' liberali del paese, gente insolentissima.
Il giorno della
passeggiata che diciamo, lo scherzo del principe le tornò in mente, nel vedere
un uomo assai mal in arnese che la seguiva da lontano nel bosco. A una svoltata
a secco, questo sconosciuto le si trovò cosí vicino ch'ella ebbe paura.
Istintivamente chiamò il guardacaccia, ch'era rimasto un migliaio di passi
addietro nel giardino della villa. Lo sconosciuto ebbe tempo d'avvicinarsele
ancora, e le si gettò ai piedi. Era giovine, bell'uomo, ma sordido nelle vesti
e stracciato: il suo vestito era a brandelli, ma ne' suoi occhi si riflettevano
intimi ardori.
—
Son condannato a morte; sono il medico Ferrante Palla, e muoio di fame io e i
miei cinque figliuoli.
La duchessa aveva
osservato ch'egli era orribilmente magro; ma i suoi occhi eran cosí belli e
cosí pieni di esaltazione che le tolsero ogni sospetto di avere innanzi a sé un
malfattore. «Palagi — pensò — avrebbe dovuto far degli occhi simili al San
Giovanni nel deserto che ha dipinto per la cattedrale.» Questa idea di San
Giovanni le fu suggerita dalla straordinaria magrezza di Ferrante. Gli diede
tre zecchini che aveva nella borsetta, scusandosi di offrir cosí poco, perché
allora appunto aveva pagato un conto al giardiniere. Ferrante la ringraziò
fervorosamente. — Ah! in altri tempi, anch'io abitai le città, e frequentai
donne eleganti: dopo che, per compiere il mio dovere di cittadino, mi son fatto
condannare a morte, vivo nel bosco, e la ho seguita non per chieder l'elemosina
o per derubarla, ma come un selvaggio affascinato da una bellezza divina. E
tanto tempo è che non ho visto due belle mani!
Era rimasto in ginocchio:
— Alzatevi — la duchessa gli disse.
—
Mi lasci restare cosi: questa posizione mi prova che ora non rubo e mi riposa
l'anima. Perché le diranno che io, per vivere dacché mi han tolto l'esercizio
della mia professione, debbo rubare. Ma in questo momento io non sono che un
misero mortale che adora la sublime bellezza.
La duchessa capí ch'era un
po' pazzo: ma non ebbe paura: vedeva negli occhi di quell'uomo un'anima ardente
e buona; e le fisionomie straordinarie non le dispiacevano.
— Sono medico, dunque.
Corteggiavo la moglie del farmacista Sarasine di Parma; un giorno, quegli ci
sorprese: cacciò lei e i tre figliuoli che a ragione sospettava fossero miei e
non suoi. Altri due ne ho avuti dopo: la madre e cinque bambini vivono in
estrema miseria in una capanna che io stesso ho fabbricato con le mie mani, qui
nel bosco. Perché io debbo guardarmi dai gendarmi, e la poveretta non vuole
separarsi da me. Fui condannato a morte; e giustamente: cospiravo! Io detesto
il principe che è un tiranno. Non fuggii per mancanza di denari. Ma le mie
sventure sono anche piú gravi, e mille volte avrei dovuto uccidermi: non amo
piú la donna che m'ha dato cinque figli e che s'é perduta per me: ne amo
un'altra, Ma, se mi uccido, i cinque bambini e la madre moriranno letteralmente
di fame.
Si sentiva ch'era sincero.
— Ma come vivete? —
domandò la duchessa commossa.
— La madre fila; e la
figlia maggiore è in una masseria di liberali a guardar le pecore: io... io
rubo sulla strada da Piacenza a Genova.
— E come mettete d'accordo
il furto coi vostri principii liberali?
— Prendo nota delle
persone derubate; e se un giorno mi riuscirà d'aver qualche cosa, le
rimborserò. Io credo che un tribuno del popolo, come sono io, faccia un lavoro
che in ragione del rischio valga le sue cento lire al mese: e non rubo piú di
milleduecento lire all'anno. No, ho sbagliato, qualche volta prendo qualche
piccola somma in piú, per provvedere alle spese di stampa della mia opera.
— Quale opera?
— La... avrà mai una Camera e
un bilancio?
— Come? — disse la
duchessa sbigottita — lei è il famoso Ferrante Palla, uno dei piú noti poeti
del secolo?
— Famoso forse,
disgraziatissimo di certo.
— E un uomo col suo
ingegno è costretto a rubare per vivere?
— Forse proprio per questo
io ho un po' di ingegno. Finora tutti gli scrittori che ebbero qualche
celebrità furono persone pagate dal governo o da quella confessione religiosa
che volevano scalzare. Io prima di tutto rischio la vita; poi pensi, signora,
ai sentimenti che m'agitano quando sto per rubare! Sono nel vero? mi domando:
il mio posto di tribuno rende veramente servizi che valgano cento lire mensili?
Io ho due camicie, questo vestito che lei vede; poche armi di poco valore, e
son sicuro di finir sulla forca: oso credere d'esser disinteressato. E sarei
felice se non fosse questo fatale amore che mi fa aspramente tormentoso il
vivere con la madre de' miei figliuoli. La miseria mi pesa perché è brutta: mi
piacciono i bel vestimenti, le belle mani bianche...
Guardava quelle della
duchessa in tal modo che le tornò la paura.
—
Addio, signore, — gli disse. — Posso esserle utile in qualche cosa a Parma?
— Pensi qualche volta a
questa quistione: ufficio mio è tener desti i cuori, impedire che s'addormano
nella falsa prosperità materiale che danno le monarchie. Questo servizio ch'io
rendo a' miei concittadini vale cento lire al mese?... La mia sventura è
d'amare; — aggiunse dolcemente — da due anni il mio cuore è pieno di lei; ma
finora, io la avevo potuta veder da lontano, senza farle paura. — E fuggí con
una velocità che sorprese la duchessa e la rassicurò. «I gendarmi avrebbero da
fare una bella fatica ad acchiapparlo — pensò. — Insomma è matto.»
— È matto, sicuro — le
dissero i familiari quando tornò alla villa. — Che è innamorato di lei, lo
sappiamo da un pezzo; quando la signora duchessa è qui, lo vediamo gironzolar
nelle parti piú elevate del bosco, e quando se n'é andata non tralascia mai di
venire a sedersi nei luoghi dove l'ha vista fermarsi, raccoglie i fiori che
posson esserle caduti di mano e li conserva lungamente attaccati al suo lurido
cappello.
— E non mi avete mai detto
nulla di queste pazzie! — esclamò la duchessa quasi con tono di rimprovero.
— Temevamo che la signora
ne parlasse al signor conte Mosca. Il povero Ferrante è cosí buon figliuolo!
Non ha mai fatto male a nessuno, ed è stato condannato a morte perché vuol bene
al nostro Napoleone.
La duchessa non parlò
affatto al conte Mosca di questo incontro; e siccome da quattro anni era quella
la prima volta ch'ella gli teneva un segreto, le capitò molto spesso di dover
troncare una frase a mezzo. Tornò a Sacca portando seco dell'oro: ma Ferrante
non si fece vedere; tornò quindici giorni dopo, e Ferrante dopo averla seguita
un pezzo pel bosco, a cento passi di distanza, la raggiunse a un tratto con la
rapidità dello sparviero e come la prima volta le si precipitò alle ginocchia.
— Dove eravate quindici
giorni fa?
— Sulla montagna, di là da
Novi, per aggredir certi carrettieri che tornavan da Milano, dove avevan
venduto dell'olio.
— Prendete questa borsa.
Ferrante aprí la borsa, ne tolse uno zecchino che baciò e si ripose in seno,
poi gliela rese.
— Come? Voi rubate, e mi
rendete questa borsa?
—
Sicuro! Io non debbo aver mai piú di cento lire; questo è il mio principio:
ora, la madre dei miei figliuoli ne ha ottanta, e io venticinque. Sono dunque
già in colpa di cinque lire; e se m'impiccassero in questo momento, morrei con
un rimorso. Ho preso questo zecchino, perché mi viene da lei, dalla donna che
adoro.
Profferí queste parole con
cosí schietta semplicità che la duchessa pensò: «Ama davvero».
Quel giorno Ferrante
pareva addirittura sbalestrato: raccontò che c'erano a Parma persone che gli
dovevano seicento lire; e che se gli avessero resa quella somma avrebbe potuto
rassettar la capanna, dove i suoi bambini tremavan di freddo.
— Ma ve le anticiperò io
queste seicento lire — disse la duchessa commossa.
— Ma io sono un uomo
pubblico: se consento, il partito avverso non coglierà l'occasione per
calunniarmi e affermare che mi son venduto?
La duchessa, inteneritasi,
gli offrí un nascondiglio a Parma, purché le giurasse che, pel momento almeno,
avrebbe rinunciato all'esercizio del tuo tribunato: e che soprattutto non
avrebbe dato corso a nessuna delle sentenze di morte, che, com'egli diceva,
aveva «in petto».
— E se per questa mia
imprudenza mi impiccano, — rispose gravemente Ferrante — tutti quei birbaccioni
che sono la rovina del popolo avranno chi sa quanti anni! E di chi la colpa? E
che mi dirà mio padre quando mi rivedrà lassú?
La duchessa gli parlò a
lungo de' suoi bambini, ai quali l'umidità avrebbe potuto esser causa di
malanni mortali, e riuscí a persuaderlo d'accettare a Parma un nascondiglio.
Il
duca Sanseverina, in quella sola mezza giornata che passò a Parma dopo il suo
matrimonio, le aveva mostrato un nascondiglio assai singolare, nell'angolo
meridionale del palazzo. Il muro medievale della facciata che ha otto piedi di
spessore fu vuotato all'interno per modo da scavarvi un nascondiglio alto una
ventina di piedi ma largo appena due. Lí presso è quel serbatoio d'acqua
ricordato da tutti i viaggiatori, citato in tutte le guide, opera famosa del secolo
dodicesimo, costruito ai tempi dell'assedio di Parma per ordine dell'imperatore
Sigismondo, e che piú tardi fu compreso nel recinto del palazzo Sanseverina.
In questo nascondiglio
s'entra facendo girare un enorme pietrone intorno a un asse di ferro. La
duchessa era cosí profondamente commossa della pazzia di Ferrante e della sorte
disgraziata de' suoi figliuoli, pei quali egli s'ostinava a rifiutare ogni dono
di qualche valore, che gli lasciò usare gran tempo questo sicuro rifugio.
Lo rivide circa un mese
dopo, sempre nel bosco di Sacca, e un po' piú calmo: tanto che le recitò uno
de' suoi sonetti: pari o superiore, secondo che ella poteva giudicare, a quanto
di meglio da due secoli avevano fatto in Italia.
In seguito, Ferrante la
rivide piú volte: ma si era cosí acceso e infatuato in quei sentimenti da
divenire importuno, e la duchessa s'accorse che quella passione seguiva le
leggi di tutti gli amori ai quali si lascia balenare un lampo di speranza; e
rimandò Ferrante al bosco, inibendogli di dirigerle la parola. Egli docilmente
obbedí.
Le cose erano a questo
punto, quando Fabrizio fu arrestato. Tre giorni dopo, sul far della notte, un
cappuccino si presentò al portone del palazzo Sanseverina, e disse d'aver un
segreto importante da comunicare alla signora. Ella si sentiva tanto
disgraziata che lo fece entrare. Era Ferrante.
— C'é una nuova iniquità,
di cui il tribuno del popolo deve occuparsi — disse costui folle di passione. —
D'altra parte, come semplice privato, — aggiunse — io non posso offrire alla
duchessa Sanseverina che la mia vita, e gliel'offro.
Questa devozione cosí
schietta di un ladro e d'un pazzo, commosse la duchessa, che si trattenne
lungamente a parlar con quell'uomo che aveva fama d'esser il maggior poeta
dell'Italia settentrionale, e pianse molto. «Ecco uno che mi comprende» pensò.
Il giorno seguente,
all'Ave Maria, Ferrante tornò in livrea, travestito da servitore.
— Non sono uscito da
Parma; e ho udito cose orribili che non istarò a ridire; ma son qui. Pensi,
signora, a quanto ella rifiuta! L'uomo che le si offre non è un fantoccio di
Corte, è un uomo! — Era in ginocchio; e pronunziò queste parole con un tono che
dava loro particolare valore. — Ieri mi son detto: ella ha pianto davanti a me:
dunque è un po' meno infelice.
— Ma pensate dunque ai
pericoli cui v'esponete! V'arresteranno.
— Il tribuno vi dirà:
«Signora, che conta la vita, quando parla il dovere?» L'infelice che ha la
sventura di non sentir piú nemmeno l'amore per la virtú, dacché arde d'una
fiamma fatale, dirà: «Signora duchessa, Fabrizio, che è un uomo di cuore, forse
morrà: non respinga un altro uomo di cuore che le si offre!» Io ho un corpo di
ferro e un'anima che non teme altro che di dispiacerle.
— Se vi provate ancora a
parlarmi di questi vostri sentimenti, la porta della mia casa vi sarà chiusa
per sempre.
Ebbe quella sera l'idea di
annunziargli che avrebbe assegnato una piccola pensione a' suoi figliuoli, ma
temé che egli, rassicurato da questa notizia, fuggisse per andare ad
ammazzarsi.
Appena Ferrante fu uscito,
la duchessa, attristata da funesti presentimenti, si disse: «E anch'io posso
morire e piacesse a Dio che sia cosí e presto, quando abbia trovato un uomo,
che sia davvero un uomo, cui affidare la sorte del mio povero Fabrizio».
Le venne un'idea: mise
assieme le poche frasi notarili che sapeva e scrisse di aver «ricevuto dal
signor Ferrante Palla la somma di lire venticinquemila, a condizione di pagare
annualmente una rendita vitalizia di lire millecinquecento alla signora
Sarasine e a' suoi cinque figli». Aggiunse: «Lego inoltre una rendita vitalizia
di lire trecento a ciascuno di questi figli, a condizione che il detto signor
Ferrante Palla dia l'opera sua di medico a mio nipote Fabrizio Del Dongo e sia
per lui come un fratello. Questa è la mia preghiera». Firmò, antidatò di un
anno il documento e lo rinchiuse.
Due giorni dopo, Ferrante
tornò. Era il momento in cui tutta la città era in subbuglio per la notizia
dell'imminente esecuzione di Fabrizio. Dove la faranno? In fortezza o sotto gli
alberi della pubblica passeggiata? Molti popolani andarono quella sera verso la
porta della cittadella, per veder se si alzava il patibolo: curiosità morbosa
che aveva sconvolto Ferrante. Trovò la duchessa che singhiozzava e non in grado
di profferire parola; con un cenno lo salutò e gli indicò una sedia. Travestito
da cappuccino, era magnifico: invece di sedersi, si gittò in ginocchio e
sommessamente pregò: un momento che la duchessa gli parve un po' meno agitata,
interruppe le orazioni per dire queste parole: «Ancora egli offre la propria
vita».
— Pensate a quel che dite!
— gridò la duchessa, con un lampeggiamento degli occhi che annunciava come,
cessati i singhiozzi, l'ira pigliava il sopravvento.
— Offre la vita, per
attraversar le sorti di Fabrizio o per vendicarlo.
— Vi sono casi in cui
potrei accettare il sacrificio della vostra vita.
Lo guardava attenta e
severa. Un lampo di gioia balenò negli occhi di lui: si alzò tendendo le
braccia verso il cielo. La duchessa andò a prendere un foglio nascosto in un
armadio di noce, e: — Leggete — gli disse: era l'atto di donazione in favore
de' suoi figliuoli, del quale abbiamo parlato.
Il pianto impedí a
Ferrante di legger fino in fondo. Ricadde ginocchioni.
— Rendetemi quel foglio — disse
la duchessa; e riavutolo, lo bruciò a una candela. — Voi rischiate la testa:
dato il caso che siate preso e ghigliottinato il mio nome non deve apparire.
— La mia felicità è di
morire facendo tutto il male che posso al tiranno: una felicità ben maggiore è
quella di morire per lei. Sia dunque buona e voglia non parlar piú di queste
miserie di denaro; mi fan pensare a dubbi che mi offendono.
— Se siete compromesso,
posso esser compromessa anch'io, — continuò la duchessa — e Fabrizio dopo di
me: per questo, e non perch'io dubiti del vostro coraggio, voglio che l'uomo
che mi strazia l'anima sia avvelenato e non ucciso altrimenti. E per la stessa
ragione v'impongo di far di tutto per uscirne salvo.
— Eseguirò fedelmente
puntualmente prudentemente. Mi par d'intuire che la vendetta mia sia tutt'una
con la sua: ma quand'anche non fosse, obbedirei fedelmente puntualmente
prudentemente. Posso non riuscire, ma ci metterò tutte le mie forze.
—
Si tratta d'avvelenare l'assassino di Fabrizio.
— L'avevo indovinato; e,
da ventisette mesi ch'io meno questa vita vagabonda e abominevole, tante volte
ci ho pensato per conto mio.
— Se io sono scoperta e
condannata come complice, — continuò la duchessa con una certa fierezza
nell'atteggiamento e nella voce — non voglio che possano imputarmi d'avervi
sedotto. Vi ordino dunque di non cercar mai piú di vedermi prima che sia
compiuta la nostra vendetta. Non deve essere ucciso prima ch'io ve n'abbia dato
l'ordine. In questo momento, per esempio, la sua morte, piuttosto che utile, mi
sarebbe funesta: probabilmente non dovrà accadere che tra qualche mese; ma
accadrà! E voglio che muoia di veleno: preferirei lasciarlo vivere al saperlo
colpito da un'arma da fuoco. E, per mie ragioni che non voglio dirvi, esigo che
la vostra vita sia salva.
Ferrante era estasiato per
quel tono d'autorità ch'ella usava con lui: la gioia gli sfavillava negli
occhi. Come abbiam detto, era orribilmente magro: ma si vedeva ancora che nella
sua prima gioventú era stato bellissimo; e credeva d'essere ancora quel ch'era
stato. «Son proprio pazzo? — pensò — o la duchessa vorrà un giorno, quando le
avrò data questa prova di devozione suprema, farmi il piú felice degli uomini?
E perché no? Non valgo io forse quanto quel fantoccio del conte Mosca, che per
lei non ha saputo concluder nulla, neppure far evadere monsignor Fabrizio?»
—
Potrei volere la sua morte domani — continuò la duchessa, sempre con lo stesso
tono di autorità. — Voi sapete di quell'immenso serbatoio d'acqua, in un angolo
del palazzo, vicino al nascondiglio nel quale vi siete rifugiato qualche volta.
C'é un ordigno segreto mediante il quale si può dar la via a quell'acqua e
allargarne le strade: questo sarà il segnale della mia vendetta. Se sarete a
Parma, lo vedrete; se sarete nel bosco, sentirete dire che il gran serbatoio
del palazzo Sanseverina ha fatto crepa. Allora, agite subito, ma col veleno, e
badate di esporre la vostra vita il meno possibile. E che nessuno sappia mai
che io ho avuto mano in questa faccenda.
—
Non occorrono altre parole; — rispose Ferrante con un entusiasmo che non
riusciva a frenare — ho già stabiliti i mezzi di cui mi varrò. La vita di
quest'uomo m'é diventata piú odiosa anche di quanto già fosse, perché fin
ch'egli viva non oserò tornare a vederla. Aspetto il segnale della rottura del
serbatoio. — Salutò bruscamente e uscí: la duchessa lo guardava; e quand'egli
fu nell'altra stanza lo richiamò.
— Ferrante, — sclamò —
uomo sublime!
Egli rientrò come
impaziente d'esser trattenuto: era stupendo a vedersi.
— E i vostri figliuoli?
— Oh, signora, saranno piú
ricchi di me: lei provvederà con qualche piccolo assegno....
— Prendete, — disse la
duchessa, dandogli un grosso astuccio in legno d'olivo — sono tutti i diamanti
che mi rimangono: posson valere cinquantamila lire.
— Ah, signora, che
umiliazione!... — sclamò Ferrante con una specie d'orrore.
— Non vi vedrò piú prima
dell'azione: prendeteli: voglio cosi! — aggiunse imperiosamente.
Ferrante si mise in tasca
l'astuccio e uscí.
Aveva chiuso, uscendo, la
porta dietro a sé: lo richiamò ancora ed egli tornò un po' torvo nell'aspetto.
La duchessa era in piedi in mezzo alla stanza; gli si gittò fra le braccia.
Trascorsi pochi secondi, Ferrante, al colmo della commozione, poco mancò non
svenisse: la duchessa si strappò da' suoi amplessi e gli indicò la porta.
«Ecco
il solo uomo che m'abbia compresa: — disse — cosí si sarebbe comportato
Fabrizio, se avesse potuto capirmi!»
Due segni rilevanti aveva
il carattere della duchessa: ella voleva sempre quel che una volta aveva
voluto, e non rimetteva mai in discussione ciò che era stato deciso. Citava a
questo proposito le parole del suo primo marito, il general Pietranera: «Come
mi farei torto! — diceva — perché dovrei credermi oggi piú intelligente di
quando mi risolsi per questo partito?»
Da quel momento ella tornò
quasi allegra: prima della risoluzione fatale, qualsiasi nuovo pensiero le
venisse, qualunque cosa nuova volesse, la pungeva il senso della sua
inferiorità di fronte al principe, della sua debolezza, della sua bonarietà,
sentiva che egli l'aveva ladramente ingannata, e il conte Mosca, grazie al suo
istinto cortigianesco, aveva ingenuamente secondato il sovrano. Decisa la
vendetta, sentí la propria forza; piú ci pensava e piú seco stessa si
compiaceva. Noi saremmo quasi portati a creder che la gioia immorale che
gl'Italiani provano nel vendicarsi proviene dalla loro potenza d'immaginazione:
negli altri paesi la gente non si può dir che perdoni, ma dimentica.
La duchessa non rivide il
Palla che verso gli ultimi tempi della prigionia di Fabrizio. Come forse i
lettori hanno indovinato, fu lui a dar l'idea dell'evasione. C'era nel bosco, a
due leghe da Sacca, una torre medievale mezzo rovinata, alta piú di cento
piedi: prima di tornare a parlarle di fuga, Ferrante pregò la duchessa di
mandar Lodovico con gente fidata a disporre alcune scale attorno a questa
torre; e in presenza della duchessa vi salí portando quelle scale seco, e ne
discese valendosi di una corda in piú punti annodata. Tre volte ripeté
l'esperimento, poi tornò ad esporre il suo piano. Otto giorni dopo anche
Lodovico volle provarsi a scender per la corda; e allora la duchessa comunicò a
Fabrizio il progetto.
Nei giorni che precederono
il tentativo, — il quale in piú modi poteva costar la vita al prigioniero — la
duchessa non poteva trovar requie se non avendo Ferrante vicino: il coraggio di
quest'uomo eccitava il suo; ma s'intende che doveva nascondere al conte quella
singolare dimestichezza. Temeva non già ch'egli si ribellasse, ma d'essere
sconcertata da obiezioni che avrebbero accresciute le sue proprie inquietudini.
Come! pigliar per consigliere intimo un pazzo, riconosciuto per tale e
condannato a morte? E, aggiungeva ancora parlando a se stessa, capace di far di
cosí strane cose? Ferrante era nel salotto della duchessa, quando il conte
venne a riferirle il colloquio del principe col Rassi; e, quand'egli se ne fu
andato, la duchessa dové fare sforzi erculei per trattenere il Palla che voleva
subito precipitarsi a mettere ad effetto terribili proponimenti.
— Ora son forte! — gridava
il pazzo — non ho piú il menomo dubbio sulla legittimità dell'azione!
— Ma a questa succederanno
giorni di ire furibonde e feroci durante le quali Fabrizio sarà ucciso!
— Gli si risparmierebbe
cosí il pericolo di quella discesa, che è possibile, anzi è facile; ma questo
giovanotto è senza esperienza.
Alle nozze della
marchesina Crescenzi, la duchessa incontrò Clelia e poté parlarle senza dare
sospetto agli osservatori della buona società.
E, nel giardino dov'erano scese
un momento a prendere una boccata d'aria, le consegnò essa stessa il pacco
delle corde: le quali, fatte con gran cura di seta e di canapa, e annodate,
eran sottili e pieghevolissime. Lodovico ne aveva sperimentato la resistenza:
reggevano, senza rompersi, un peso d'otto quintali: le avevano compresse in
modo da farne piú pacchi della forma di un volume in quarto. Clelia se ne
impadroní e promise alla duchessa che avrebbe fatto quanto era umanamente
possibile per far giungere quei pacchi alla torre Farnese.
— Io temo la vostra
timidezza: d'altra parte, che interesse può inspirarvi uno sconosciuto?
—
Il signor Del Dongo è un infelice; e vi prometto che sarò io quella che lo
salverà.
Ma la duchessa, contando
mediocremente sulla presenza di spirito di una ragazza di vent'anni, aveva
preso altre precauzioni, di cui peraltro si guardò bene dal metterla a parte.
Com'era naturale supporre, il governatore era alla festa data in occasione
delle nozze Crescenzi: la duchessa pensò che, se gli avesse fatto dare un buon
narcotico, la gente, sul primo momento, s'indurrebbe a credere si trattasse
d'un attacco apoplettico; e allora, invece di riportarlo alla cittadella con la
sua carrozza, si sarebbe con un po' d'accortezza potuto far prevalere il
partito di riportarvelo in una lettiga trovata a caso nella corte del palazzo
Crescenzi; dove, sempre a caso, anche si troverebbero uomini intelligenti,
vestiti da operai, che in quel trambusto si offrirebbero cortesemente per il
trasporto del malato fino al suo cosí alto palazzo. Quegli uomini, comandati da
Lodovico, portavano una gran quantità di funi abilmente nascoste sotto le
vesti. Si vede che la duchessa, dacché pensava alla fuga di Fabrizio, aveva la
testa sconvolta: il pericolo del giovine amatissimo era troppo angoscioso e
durava da troppo tempo. A forza di precauzioni, poco mancò ch'ella non facesse
fallire l'impresa, come vedremo. Le cose andarono com'ella aveva stabilito: con
questo solo divario, che il narcotico produsse un effetto troppo energico, di
guisa che tutti, anche i medici, crederono che il generale fosse colpito da
apoplessia.
Fortunatamente Clelia,
nella sua disperazione, non ebbe il menomo sospetto del colpevole tentativo
della duchessa. Il disordine fu tale che, insieme con la lettiga in cui stava
il generale mezzo morto, potevano entrar nella cittadella Lodovico e i suoi
senza difficoltà: solo pro forma
furon frugati sul «ponte dello schiavo». Trasportato il generale fino al letto,
furon condotti in cucina dov'ebbero largo trattamento dai domestici; ma dopo la
pappata, che non finí se non verso l'alba, si sentiron dire che, secondo i
regolamenti, dovevano restar chiusi a chiave nel salone terreno sino a giorno
fatto: sarebbero stati allora messi in libertà dal luogotenente del
governatore.
Lodovico aveva potuto
farsi consegnar le corde portate da' suoi uomini; ma stentò ad ottenere da
Clelia un momento d'attenzione. Alla fine, mentr'ella traversava un salotto del
primo piano, le si fece vedere che deponeva quei pacchi in un angolo oscuro
della stanza stessa. Clelia, sbalordita dal fatto per lei inesplicabile,
concepí subito atroci sospetti.
—
Chi siete? — domandò a Lodovico. E poich'egli rispondeva in modo ambiguo,
soggiunse:
— Io dovrei farvi
arrestare, voi e i vostri uomini: voi avete avvelenato mio padre! Dite subito
che veleno é, perché il medico possa dargli quello che fa al caso: ditelo
subito, o né voi né nessuno dei vostri uscirà mai piú dalla fortezza.
— Signorina, non si
allarmi: — rispose Lodovico con squisita cortesia — non si tratta affatto di veleno:
si è commessa l'imprudenza di somministrare al signor generale una dose di
laudano e pare che il cameriere cui fu dato quest'incarico ne abbia lasciato
andare qualche goccia di troppo. Ne avremo un rimorso eterno; ma creda,
signorina, che grazie al cielo non c'é ombra di pericolo. La cura dev'essere
quella di chi per isbaglio ha preso una dose di laudano un po' troppo forte. Ma
stia pur sicura: il cameriere che ha commesso questa colpa non si è servito di
veleni, come fece il Barbone quando volle mandare all'altro mondo monsignor Del
Dongo. Non si è voluto affatto vendicarsi di quel tentativo: le giuro,
signorina, che la fiala data a quello zotico di cameriere non conteneva che
laudano. S'intende che, se mi interrogheranno ufficialmente, io negherò tutto.
D'altra parte, se lei, signorina, parla a chicchessia di laudano, di veleno,
fosse pure all'ottimo don Cesare, lei uccide con le sue mani monsignor
Fabrizio; rende impossibile per sempre la sua fuga, e lei sa meglio di me che a
lui non somministreranno del laudano. Lei sa anche che c'é chi ha dato un mese
di tempo per questo assassinio; e che una settimana è già passata. Lei vede
dunque che, se mi fa arrestare o se anche si lascia sfuggire una parola con don
Cesare o con altri, ella indugia di ben piú che un mese ogni impresa nostra ed
io ho ragione di dire che uccide monsignore con le sue stesse mani.
Clelia era sbalordita
della grande tranquillità di quell'uomo.
«Pensare
— disse fra sé — ch'io son qui a conversare con un uomo che ha avvelenato mio
padre e che si serve delle frasi piú cortesi per venirmelo a dire; a questa
specie di delitti m'ha condotto l'amore!»
Il rimorso le toglieva
quasi la forza di parlare; disse:
— Io vi chiudo qui dentro:
corro a dire al medico che si tratta di laudano. Poi torno a liberarvi. Ma
santo Dio! come farò a dirgli che l'ho saputo? — Ma giunta alla porta tornò
indietro e soggiunse: — Fabrizio sapeva del laudano?
—
Oh, no, signorina: non avrebbe consentito mai! Eppoi a che far confidenze
inutili? Noi ci regoliamo con la massima prudenza. Si tratta di salvar la vita
a monsignore, che sarà avvelenato entro tre settimane: l'ordine fu impartito da
persona che di solito non conosce ostacoli alla sua volontà; e, perché lei,
signorina, sappia tutto, aggiungerò che si vuole cotesto incarico sia stato
dato al terribile Rassi.
Clelia fuggí spaventata:
aveva cosí piena fiducia in don Cesare che s'arrischiò, con certe cautele, a
dirgli che al generale era stato dato del laudano e non altro. Senza rispondere
e senza domandare, Don Cesare corse dal medico.
Clelia tornò nel salotto
dove aveva chiuso Lodovico, per avere intorno a quell'affare del laudano piú
precise notizie; ma non ce lo trovò: era riuscito a svignarsela. Sopra una
tavola, vide una borsa piena di zecchini, e una scatoletta con varie specie di
veleni.
Ebbe un brivido: «Chi
m'assicura — pensò — che veramente non si tratti d'altro che di laudano? e che
la duchessa non ha voluto vendicarsi del tentativo di Barbone? Mio Dio! sono in
relazione con gli avvelenatori di mio padre, e me li lascio anche scappare!
Forse quest'uomo messo alla tortura, avrebbe confessato che non si tratta
solamente di laudano».
Cadde in ginocchio
piangendo e pregò la Vergine con grande fervore.
Intanto il medico della
cittadella, meravigliato assai dell'avviso di don Cesare, diede i rimedi
convenienti, che infatti fecero quasi subito sparire i sintomi che piú tenevano
in apprensione. Verso l'alba, il generale riprese conoscenza: e il primo segno
che ne diede fu una scarica d'ingiurie contro il colonnello comandante in
seconda, il quale s'era fatto lecito di dare alcuni ordini senza importanza,
mentre il governatore era fuor de' sensi.
Poi andò sulle furie
contro una ragazza di cucina, che, portandogli un brodo, si lasciò sfuggir la
parola apoplessia.
— Ma sono forse in età da
avere apoplessia? Soltanto i miei piú accaniti nemici possono compiacersi a
spargere di queste voci! Han forse creduto levarmi sangue, perché i
calunniatori osino parlar di apoplessia?
Intento ai preparativi
della fuga, Fabrizio non sapeva rendersi conto degli strani rumori che empivano
la cittadella quando vi riportavano semivivo il generale: la prima idea che gli
balenò fu che, mutata la sentenza, venissero a prenderlo, per metterlo a morte;
ma vedendo in seguito che nessuno si faceva vivo, pensò che Clelia fosse stata
tradita; che al tornare in fortezza le avessero tolte le corde che
probabilmente portava seco, e che ormai tutti i progetti di fuga diventassero
ineffettuabili. La mattina dopo, all'alba, vide entrare nella camera uno sconosciuto,
che, senza far parola, vi depose un paniere di frutta. Sotto le frutta era
nascosta questa lettera.
«Col cuore angosciato dai
piú vivi rimorsi per quanto fu osato, non, grazie a Dio, col mio consenso, ma
in seguito a un'idea che mi passò per la mente, ho fatto voto alla Santissima
Vergine che se, per la sua divina intercessione, mio padre si salva, io non
opporrò d'ora in poi alcun rifiuto a' suoi ordini: sposerò il marchese
Crescenzi appena me lo imporrà, e non vi vedrò piú mai. Pure credo oramai dover
mio condurre a termine ciò che fu cominciato. Domenica, al tornar della messa,
dove ho pregato che v'accompagnino (pensate a riconciliarvi con Dio, perché
potreste lasciar la vita in questa terribile prova), al tornar dalla messa,
dunque, indugiate quanto piú vi sia possibile a entrare in camera vostra: ci
troverete quanto è necessario all'impresa. Se doveste morirci, ne avrei il
cuore spezzato! Potreste voi accusarmi d'aver contribuito alla vostra morte? La
duchessa non m'ha detto piú volte che il partito Raversi sta per avere il
sopravvento? Vogliono compromettere il principe con un atto di crudeltà che lo
stacchi per sempre dal conte Mosca. La duchessa, piangendo, mi ha giurato che
non rimane altro scampo. Voi morite di certo se non lo tentate. Io non posso
piú vedervi: ne ho fatto voto; ma se domenica, verso sera, mi vedete vestita di
nero alla finestra consueta, questo sarà segno che nella notte tutto sarà
disposto, per quanto è nelle mie scarse possibilità. Dopo le undici, forse a
mezzanotte o a un'ora, una piccola lampada apparirà alla finestra: sarà quello
il momento decisivo. Raccomandatevi al vostro santo patrono, prendete in fretta
gli abiti da prete che avete, e via.
«Addio, Fabrizio: io starò
pregando e piangendo le mie lagrime piú amare, mentre voi correte il rischio
terribile. Se ci lasciate la vita io non sopravviverò! Che dico, mio Dio? ma,
se riuscite, non vi vedrò mai piú. Domenica, dopo la messa, troverete in camera
vostra i denari, i veleni, le corde mandate da quella donna terribile che vi
ama appassionatamente: m'ha ripetuto ben tre volte che era necessario attenersi
a questo partito.
«Dio e la Vergine Santissima vi proteggano!»
Fabio Conti era uno
sciagurato carceriere; sempre sospettoso, sognava i suoi prigionieri in fuga:
nella cittadella, tutti lo esecravano. Eppure la sventura tanto può sui cuori
degli uomini, che tutti i carcerati, anche quelli incatenati in segrete alte e
larghe tre piedi e lunghe otto, dove non potevano star né in piedi né seduti,
tutti ebbero l'idea di far cantare a loro spese un Te Deum quando seppero ch'egli era fuor di
pericolo. Due o tre di questi infelici giunsero a far dei sonetti in suo onore.
Chi osa biasimarli possa esser condannato a passare un anno in una di queste
segrete, con otto once di pane al giorno, e digiunando i venerdí!
Clelia, che non lasciava
la camera di suo padre se non per andar a pregare in cappella, disse che il
governatore aveva determinato che i festeggiamenti avrebbero luogo la domenica.
E la domenica Fabrizio assisté alla messa e al Te Deum: la sera ci furon fuochi artificiali, e a
pian terreno del castello fu distribuita ai soldati una quantità di vino
quadrupla di quella concessa dal governatore: un ignoto aveva mandato perfino
alcuni caratelli d'acquavite che i soldati sfondarono. La generosità dei
soldati che si ubriacavano non permise che i cinque di servizio in sentinella
attorno al palazzo avessero a soffrire di questa lor condizione: via via che
arrivavano alle loro garitte, un servitore fidato dava loro del vino; e quelli
che montaron la guardia a mezzanotte e dopo, ebbero, non si sa da chi, anche un
bicchierino di acquavite. Dal processo fatto piú tardi risultò che
l'elargizione non si limitò al bicchierino: mesciutolo, si dimenticò di portar
via la bottiglia.
La
confusione durò piú di quanto Clelia non avesse immaginato: e solo verso il
tocco Fabrizio, che già da qualche giorno aveva segate due sbarre della sua
finestra, quella che non dava sull'uccelliera, poté cominciare a smontar la
tramoggia: lavorava quasi sopra la testa delle sentinelle di guardia al
palazzo: esse non s'accorsero di nulla.
Aveva fatti alcuni altri
nodi sulla interminabile corda necessaria a scender quei terribili centottanta
piedi, e se l'era messa a bandoliera: quell'enorme volume gli dava gran noia,
perché i nodi le impedivano di far massa e di aderire al corpo. «Questo è un
impiccio serio» pensò.
Accomodata alla meglio
questa, prese l'altra corda con la quale faceva conto di scendere sulla
spianata in cui era il palazzo del governatore. Ma poiché, per ubriachi che
fossero i soldati, egli non poteva scendere per l'appunto sulle loro teste,
cosí uscí dall'altra finestra, che dava sul tetto di una specie di vasto corpo
di guardia. Per una stranezza da malato, Fabio Conti, appena fu in grado di aprir
bocca, aveva fatto collocar ducento soldati in quel camerone abbandonato da piú
di un secolo. Diceva che, dopo aver tentato di avvelenarlo, volevano
assassinarlo nel suo letto; e questi ducento uomini dovevano vigilare sulla sua
vita. è facile indovinare che effetto fece quest'ordine imprevisto sul cuore di
Clelia: quella pia figliuola si rendeva conto del tradimento che ordiva contro
suo padre, contro un padre che per poco non era stato avvelenato nell'interesse
del prigioniero che essa amava! E l'arrivo di quei ducento uomini le parve
decretato dalla Provvidenza che le vietava di andar oltre, le inibiva di
rendere a Fabrizio la libertà.
Ma a Parma tutti parlavan
della morte imminente di lui: anche alla festa pel matrimonio della marchesina
Crescenzi ne avevan parlato. Dappoiché per una sciocchezza, per un maledetto
colpo di spada dato a un istrione, un uomo della nascita e del grado di
Fabrizio Del Dongo, dopo nove mesi di carcere, non era posto in libertà non
ostante la protezione del primo ministro, era chiaro che in questa faccenda
entrava la politica. E allora, si bisbigliava, è inutile occuparsene piú: se al
governo non conveniva di farlo morir su una piazza, e in pubblico, sarebbe
finito presto in malattia. Un fabbroferraio, chiamato in fortezza dal generale,
aveva parlato di Fabrizio come di persona spedita da un pezzo, ma di cui, per
ragioni politiche, si teneva nascosta la morte.
Queste parole dell'operaio
dettero l'ultimo impulso alle risoluzioni di Clelia.
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