XXII
Nella
giornata, Fabrizio fu costretto a riflettere sui casi suoi e dalle sue
riflessioni nulla uscí di confortevole: ma via via ch'egli udiva sonar l'ora
che lo avvicinava al gran momento, riacquistava la sua serenità e si sentiva
allegro e gagliardo. La duchessa gli aveva scritto che, uscendo dalla prigione,
il contatto dell'aria lo avrebbe stordito e lí per lí gli sarebbe stato
impossibile il camminare; e, in questo caso, meglio era rischiar d'essere
riacchiappato che precipitar già da un'altezza di centottanta piedi. «Se questo
guaio m'avesse a capitare, — pensava — mi stenderò contro il parapetto e dopo
un'ora di pisolino ricomincerò. Poiché l'ho giurato a Clelia, preferisco cascar
giú da un bastione, per alto che sia, al dover sempre meditare sul sapore del
pane che mangio. Che strazi si debbono provare prima di finirla, quando si
muore avvelenati! E Fabio Conti non farà complimenti; mi farà dar l'arsenico
che gli serve per ammazzare i topi della sua cittadella.»
Verso mezzanotte, un di
quei nebbioni densi e biancastri che si levan talora sul Po, si stese prima
sulla città, poi salí ai bastioni e avvolse la gran torre. A Fabrizio parve che
non si scorgessero piú le piccole acacie intorno ai giardinetti fatti dai
soldati a pie dell'alta torre. «Questo è proprio ciò che ci voleva» pensò.
Poco dopo la mezzanotte e
mezzo, la piccola lampada apparve alla finestra dell'uccelliera: Fabrizio era
pronto: si fece il segno della croce, legò al suo letto la corda che gli doveva
servire a scendere i trentacinque piedi che lo separavano dalla piattaforma; e
giunse senza difficoltà sul tetto del corpo di guardia, occupato dai ducento
uomini di rinforzo giuntivi la sera innanzi.
Disgraziatamente, a
mezzanotte e tre quarti i soldati non s'erano addormentati ancora; e mentr'egli
camminava con grande cautela sugli embrici, Fabrizio li sentiva dire che sul
tetto c'era il diavolo e bisognava cercar d'ammazzarlo con una fucilata: altri
rispondevano che questo era un discorso empio, e qualcuno anche osservò che se
si fosse sparato un colpo di fucile senza ammazzar qualcosa, il governatore li
avrebbe di certo cacciati in prigione per punirli di aver posta inutilmente in
allarme la guarnigione. Questo interessante dibattito ebbe per effetto di
condurre Fabrizio ad affrettarsi quanto piú fosse possibile facendo cosi,
naturalmente, fracasso maggiore. Certo è che quando, sospeso alla corda, passò
davanti alle finestre, per fortuna a qualche piede di distanza per la sporgenza
del tetto, le vide irte di baionette. Ci fu chi disse che, sempre un po' matto,
egli ebbe l'idea di far da diavolo davvero e che gettasse una manciata di
zecchini ai soldati: fatto sta che degli zecchini ne furon trovati e
sull'impiantito del corpo di guardia e sulla piattaforma, sparpagliati durante
il suo tragitto dalla torre Farnese al parapetto, probabilmente per distrarre i
soldati se mai avessero pensato a inseguirlo.
Giunto finalmente alla
piattaforma, dove le sentinelle, ogni quarto d'ora, al grido «all'erta»
rispondevano regolarmente «qui tutto in regola», si volse deciso verso il
parapetto occidentale in cerca della «pietra nuova».
Pare
incredibile — e infatti nessuno lo crederebbe se il fatto non avesse avuto a
testimone una città intera — pare incredibile che le sentinelle non lo
vedessero e non l'arrestassero. C'era sí il nebbione solito, secondo Fabrizio
disse piú tardi, fin verso la metà della torre Farnese, ma non cosí fitto
ch'egli non vedesse le sentinelle che camminavano avanti e indietro sullo
spazio loro assegnato. Spinto quasi da una forza soprannaturale, come poi ebbe
a raccontare, passò tra due di quelle sentinelle l'una poco distante
dall'altra. Si disviluppò dalla grande corda che teneva a tracolla, e che per
due volte gli si aggrovigliò e gli ci volle tempo a sbrogliarla e stenderla sul
parapetto. Di qua e di là sentiva parlare i soldati, deciso a freddar con una
pugnalata il primo che gli si accostasse. — Ero — disse in seguito —
perfettamente tranquillo: mi pareva di compiere una cerimonia.
Fissò la corda a una
scanalatura, fatta nel parapetto per lo scolo delle acque; pregò con fervore e,
come un eroe dei tempi cavaliereschi, pensò per un momento a Clelia. «Quanto
son diverso da quel Fabrizio leggero e libertino che entrò qui or fan nove
mesi!» Finalmente cominciò da quella spaventevole altezza la discesa. Agiva
macchinalmente, come avrebbe fatto di giorno, calandosi in presenza di amici
per vincere una scommessa. A mezza via, a un tratto, sentí venirgli meno nelle
braccia la forza: e credé, poi, ricordar d'avere un istante lasciata la corda:
ma di averla immediatamente ripresa. Forse s'era tenuto alle prunaie su cui
scivolava, facendosi qualche escoriazione. Di tanto in tanto un dolore
acutissimo tra le spalle gli toglieva il respiro: e molestissima gli era
l'oscillazione onde egli altalenava fra la corda e le prunaie. Di quando in
quando lo sfioravan con l'ali grossi uccelli destati al suo passaggio e che gli
si gittavan contro fuggendo. La prima volta credé d'esser raggiunto da qualcuno
che lo inseguisse per la sua stessa via, e s'apparecchiò a difendersi:
finalmente giunse in fondo alla gran torre senz'altri guai che le mani
sanguinanti. Raccontò anche che dalla metà della torre in giú, la scarpata gli
fu utilissima: scendeva radendo il muro, e le piante cresciute tra le pietre lo
aiutarono assai a sorreggersi. Nel giungere al basso ne' giardini dei soldati
cascò sopra un'acacia che vista dall'alto gli era parsa alta quattro o cinque
piedi ed era invece d'una ventina. Un ubriaco addormentato che si trovava là
sotto lo credé un ladro. Nel cadere dall'acacia, si slogò quasi il braccio
sinistro. Volle correr verso il bastione: ma le gambe tentennavano e cedevano
come se fossero di cotone: non ne poteva piú. A malgrado del pericolo, si sedé
e bevve un sorso dell'acquavite che gli rimaneva. S'addormentò qualche minuto,
cosí profondamente da non saper piú dove fosse: al riaprir gli occhi, non capí
come mai ci fossero alberi in camera sua. Poi, finalmente, la terribile realtà
gli riapparve qual era: si diresse al bastione, vi salí per una grande scala. La
sentinella russava nella garitta; un cannone giaceva tra l'erba: ci fissò la
terza corda: ma era un po' corta, ed egli cadde in un fossato fangoso in cui
poteva essere un piede d'acqua. Intanto che, rialzandosi, cercava di
raccapezzarsi, si sentí preso da due uomini ed ebbe un momento di paura; ma
sentí mormorarsi all'orecchio: — Ah, monsignore, monsignore! — Intuí ch'era
gente della duchessa, e svenne. Poco dopo si sentí portato a braccia da uomini
che camminavano rapidamente in silenzio: poi si fermarono ed egli se ne
sgomentò; ma non ebbe forza di parlare né d'aprir gli occhi: sentí una stretta,
e riconobbe il profumo dei vestiti della duchessa, che bastò a rianimarlo. Aprí
gli occhi, poté mormorare: — Amica mia... — e svenne ancora.
Il fido Bruno, con una
squadra di poliziotti devoti al conte Mosca, stava in riserva a ducento passi:
il conte in persona era nascosto in una casetta presso il luogo dove la
duchessa aspettava. Se fosse stato necessario, non avrebbe esitato, con alcuni
ufficiali suoi amici, in posizione ausiliaria, a intervenire armata mano; si
considerava in obbligo di salvar Fabrizio che gli pareva in rischio gravissimo,
e che avrebbe avuta la grazia firmata dal principe s'egli non avesse fatto la
sciocchezza di voler risparmiata una sciocchezza al proprio sovrano.
Dalla mezzanotte la
duchessa, scortata da uomini armati fino ai denti, errava in silenzio sotto il
bastione della cittadella; non poteva star ferma, pensando che avrebbe dovuto
combattere per rapir Fabrizio a coloro che lo inseguirebbero. E la sua
immaginazione aveva ricorso a ogni sorta di precauzioni che sarebbe lungo
esporre, ma che costituivano un bell'insieme di ragguardevoli imprudenze. Piú
di ottanta agenti vegliarono quella notte, nell'attesa di dar battaglia.
Fortunatamente Ferrante e Lodovico dirigevan tutto, e il ministro della polizia
non era ostile. Ma il conte stesso avvertí che nessuno aveva tradito la
duchessa e che, come ministro, egli non aveva avuto il menomo sentore
dell'impresa.
La duchessa, al veder
Fabrizio, perde addirittura la testa; lo strinse fra le braccia convulsa, poi
si disperò al vedersi tutta insanguinata: era il sangue delle mani, ma ella
immaginò pericolose ferite. Con l'aiuto di uno de' suoi lo spogliava per
medicarlo, quando, fortunatamente, Lodovico intervenne e senza far chiacchiere
cacciò la duchessa e Fabrizio in una delle piccole carrozze nascoste in un
giardino vicino alla porta della città e li fece partir di carriera, per andare
a passare il Po, presso Sacca. Ferrante con venti armati formava la
retroguardia, impegnatosi a costo della vita a trattener gl'inseguitori. Il
conte, solo, a piedi, lasciò i dintorni della cittadella due ore dopo, quando
fu ben certo che nessuno si moveva. «Eccomi in colpa di alto tradimento»
commentò poi tra sé, allegrissimo.
Lodovico ebbe anche
l'ottima idea di mettere in una delle carrozze un giovine medico, addetto alla
casa della duchessa, e che somigliava un po' a Fabrizio.
— Fugga verso Bologna, —
gli disse — ma cerchi d'essere impacciato piú che può e cerchi di farsi
arrestare: e una volta arrestato faccia finta di imbrogliarsi nelle risposte; e
infine confessi d'esser monsignor Fabrizio Del Dongo. Soprattutto cerchi di
guadagnar tempo. Metta tutto il suo accorgimento a esser malaccorto: se la
caverà con un mese di prigione, e la signora duchessa le darà cinquanta
zecchini.
— Quando si rende servizio
alla signora, non si pensa a denari.
E partí: e fu infatti
arrestato alcune ore dopo; il che diede una sollazzevole gioia al general Conti
e al Rassi, il quale, insieme col pericolo di Fabrizio, vedeva andare in fumo
la baronia.
L'evasione non fu scoperta
nella cittadella che verso le sei, e soltanto alle dieci osarono darne notizia
al sovrano. La duchessa era servita cosí bene che, nonostante il profondo sonno
di Fabrizio scambiato per uno svenimento mortale, e che tre volte le fece
fermar la carrozza, alle quattro traversava il Po in una barca. C'eran,
disposti sulla riva sinistra, cavalli di ricambio, e altre due leghe furon
percorse con grande rapidità; poi bisognò fermarsi un'oretta per la verifica
dei passaporti. Ella ne aveva di tutte le specie per sé e per Fabrizio; ma quel
giorno era fuori di sé; figurarsi che le venne in mente di dar dieci napoleoni
all'impiegato della polizia austriaca, e a stringergli la mano piangendo.
L'impiegato, spaventato, ricominciò a esaminare i passaporti. Ripresero la
posta: la duchessa pagava in modo cosí pazzesco che destava sospetti
dappertutto, in un paese dove ogni forestiero è sospetto. Anche una volta le
venne in aiuto Lodovico: disse che la signora era pazza di dolore per la
malattia del giovine figlio del conte Mosca, prima ministro di Parma, ch'ella
accompagnava a consultare i medici di Pavia.
Soltanto a dieci leghe di
là dal Po, il prigioniero fu sveglio veramente e bene; aveva una spalla lussata
e molte escoriazioni. La duchessa aveva ancora dei modi di comportarsi cosí
inconsueti, che un albergatore d'un villaggio, dove si fermarono a desinare, la
credé una principessa di sangue imperiale e s'apprestava a renderle le onoranze
dovute, quando Lodovico lo ammoni che, se faceva sonar le campane, la
principessa dava ordine di cacciarlo immediatamente in prigione.
Verso le sei di sera,
giunsero infine, come Dio volle, in territorio piemontese, dove Fabrizio si
poteva considerar veramente al sicuro. Lo portarono in un villaggio lontano
dalla strada maestra, gli medicaron le mani, e lo lasciaron dormire ancora.
In questo villaggio la
duchessa si lasciò andare a un'azione non pur moralmente deplorevole, ma che
doveva anche esser funesta per la quiete di tutta la restante sua vita. Alcune
settimane prima dell'evasione di Fabrizio, un giorno che tutta Parma era
accorsa avanti alla cittadella per vedere il patibolo che dicevano si sarebbe
montato per lui, ella aveva mostrato a Lodovico, divenuto oramai il suo
factotum, il segreto congegno mediante il quale si faceva uscire da una
nascosta incorniciatura di ferro una pietra formante il fondo del gran
serbatoio d'acqua costrutto sin dal secolo decimoterzo nel palazzo Sanseverina,
e del quale s'é parlato altre volte. Fabrizio dormiva nel piccolo albergo,
quand'ella chiamò Lodovico: egli la credé diventata veramente pazza, tale era
la strana espressione delle occhiate che gli lanciava.
— Voi v'aspettate — gli
disse — ch'io vi regali qualche migliaio di lire; ma no, vi conosco: voi siete
un poeta e in quattro e quattr'otto ve li mangereste. Io vi do invece la
piccola tenuta della «Ricciarda» vicino a Casalmaggore.
Pazzo di gioia, Lodovico
le si gettò in ginocchio, protestando che se aveva fatto quanto poteva per
aiutarla a salvare monsignor Fabrizio non lo aveva fatto per guadagnar denaro.
Gli s'era affezionato fin da quando, essendo anni addietro terzo cocchiere
della signora duchessa, ebbe l'onore di condurlo in carrozza.
Quando il brav'uomo, che
era veramente sincero, credé di avere anche troppo trattenuto parlando di sé
una gran signora, chiese permesso di andarsene: ma la duchessa, i cui occhi
sfavillavano, gli comandò:
—
Restate.
Passeggiava senza dir
parola in quella stanzetta d'osteria, guardandolo con espressione incredibile.
Alla fine, vedendo che quella curiosa passeggiata non finiva mai, Lodovico
s'arrischiò a parlar nuovamente alla sua padrona.
— La signora duchessa m'ha
fatto un dono cosí esagerato, cosí superiore a tutto ciò che un pover'uomo come
me poteva immaginare e ai modesti servizi che ho avuto l'onore di prestare, che
in coscienza non posso accettare la «Ricciarda». Io ho l'onore di restituire
quella tenuta alla signora duchessa, pregandola di assegnarmi una pensione di
quattrocento lire.
— Quante volte nella
vostra vita — gli domandò ella cupamente altezzosa — quante volte avete sentito
dire che io, fatto un progetto, lo abbia poi abbandonato?
E, dette queste parole,
riprese ancora per qualche minuto a passeggiare: poi, fermandosi
all'improvviso, sclamò:
—
Ma Fabrizio è salvo per caso, e perché ha saputo piacere a quella ragazza. Se
non fosse cosí simpatico e non si fosse mostrato amabile, sarebbe morto!
Potreste negarmelo? — E andava contro Lodovico con gli occhi accesi di furore:
egli diede un passo addietro e la suppose impazzita: ipotesi che gli diede
qualche inquietudine circa la proprietà della «Ricciarda».
— Or bene, — riprese la
duchessa fattasi di subito dolce e gaia — io voglio che i miei buoni abitanti
di Sacca abbiano una bella giornata di allegria, di cui si ricorderanno poi per
un pezzo! Voi tornerete a Sacca.... Avreste qualche cosa in contrario? Credete
di correr qualche pericolo?
— Oh, no, signora
duchessa! nessuno di Sacca dirà mai ch'io ero con monsignor Fabrizio. Eppoi, me
lo lasci dire, io sono impaziente di veder la mia tenuta: mi par cosí curioso d'esser diventato «proprietario»!
— Son contenta di vedervi
cosí allegro! Il fittaiuolo della «Ricciarda» mi deve, credo, tre o quattro
anni di fitto: gliene regalo la metà, e l'altra metà la do a voi a queste
condizioni: andrete a Sacca; direte che doman l'altro è la festa di una delle
mie Sante protettrici, e farete illuminare splendidamente la villa. Non badate
né a fatiche né a spese. Pensate che si tratta della piú grande gioia della mia
vita. è un pezzo che preparo questa illuminazione : da piú di tre mesi c'é
nelle cantine tutto quel che può occorrere: il giardiniere ha avuto quel che
bisogna per un bel fuoco d'artifizio: fatelo accendere sulla terrazza verso il
Po. Ci sono in cantina ottantanove botti di vino: fate mettere delle fontane di
vino nel parco: se avanza una bottiglia sola, crederò che non vogliate bene a
Fabrizio. E quando avrete visto che fontane e luminaria e fuochi, tutto insomma,
va bene, scappate, perché può darsi, anzi lo spero, che a Parma tutte queste
belle cose paiano altrettante insolenze.
— Non dica può darsi,
perché è certo! Come è anche certo che l'avvocato fiscale Rassi, che ha
elaborata la sentenza di monsignore, creperà di rabbia. Anzi, signora duchessa,
se volesse fare al suo servitore un regalo piú grande degli arretrati della
«Ricciarda» dovrebbe permettermi di fare uno scherzo a questo Rassi....
— Siete un brav'uomo, —
disse la duchessa — ma vi proibisco assolutamente di far nulla al Rassi: io ho
il progetto di farlo impiccare in piazza, a suo tempo. E badate di non farvi
arrestare a Sacca: se m'aveste a mancare, sarebbe un guaio grosso.
— Io? La signora duchessa
può star certa che quando avrò detto che io faccio la festa per una delle Sante
sue protettrici, se la polizia manda trenta gendarmi a disturbarla, prima che
arrivino alla croce rossa in mezzo al villaggio, non ce n'é piú uno a cavallo.
Ne han pochi degli spiccioli a Sacca: tutti contrabbandieri provetti e tutti la
adorano.
— Eppoi, — continuò la
duchessa con la maggior disinvoltura — se do del vino a' miei amici di Sacca,
voglio inondare i Parmigiani. Quando avrete visto l'illuminazione e i fuochi,
pigliate un cavallo, correte a Parma e aprite il serbatoio.
— Ah, che bell'idea! —
fece Lodovico ridendo — del vino ai galantuomini di Sacca, e dell'acqua ai
borghesi di Parma, cosí sicuri, quei manigoldi, che monsignore sarebbe stato
avvelenato come il povero L....
L'allegria di Lodovico
pareva non finir piú; la duchessa si compiaceva di quelle risate fra le quali
egli andava ripetendo: — Vino a quelli di Sacca, acqua a quelli di Parma! La
signora sa di certo meglio di me che, quando, una ventina di anni fa, per
un'imprudenza, fu vuotato il serbatoio, ci fu piú d'un piede d'acqua in alcune
strade di Parma.
— Eh già! acqua a quelli
di Parma! — rispose la duchessa ridendo a sua volta. — Il passeggio davanti
alla cittadella sarebbe stato gremito di gente, se avessero tagliato la testa a
Fabrizio.... Lo chiamano «il gran delinquente».... Ma state attento: e che
nessuno al mondo sappia che l'inondazione è opera vostra e ordinata da me.
Anche Fabrizio, anche il conte debbono ignorar questo scherzo.... Ma io mi
scordavo i poveri di Sacca! Andate a scrivere una lettera al mio intendente, io
poi la firmerò. Ditegli che per la festa della mia Santa distribuisca cento
zecchini ai poveri, e che vi obbedisca in tutto, pei fuochi, per
l'illuminazione, pel vino: che nelle cantine non vi deve restare una bottiglia
sola.
— L'intendente avrà una
sola difficoltà: da cinque anni che la signora duchessa possiede la villa, non
ci son rimasti dieci poveri a Sacca.
—
E acqua per quelli di Parma! — ripigliò la duchessa canticchiando. — Come
farete per mandar a effetto lo scherzo?
— Il mio piano è bell'e
fatto: parto da Sacca verso le nove: alle dieci e mezzo il mio cavallo è nello
stallaggio delle «Tre ganasce, sulla strada di Casalmaggiore e della mia tenuta
della «Ricciarda»: alle undici sono in camera mia al palazzo: alle undici e un
quarto acqua ai Parmigiani, e piú di quanta ne vorranno... per bere alla salute
del «gran delinquente». Dieci minuti dopo esco di città per la via di Bologna:
una bella riverenza, passando, alla cittadella, che il coraggio di monsignore e
il genio della signora duchessa hanno screditato cosí solennemente: poi piglio
un sentiero che conosco benissimo e faccio il mio ingresso alla «Ricciarda».
A
questo punto, levò gli occhi sulla duchessa e fu atterrito. Ella guardava fisso
il muro nudo, e i suoi occhi avevan qualcosa di spaventevole. «Povera mia
tenuta! — pensò Lodovico — è proprio matta.» Ella indovinò il suo pensiero.
—
Ah! ah! caro signor Lodovico, caro signor poeta, voi volete una donazione in
iscritto: andate a trovarmi un foglio. — Quegli non se lo fece ridire; e la
duchessa scrisse di tutto suo pugno un'obbligazione, datata da un anno avanti,
in cui dichiarava d'aver ricevuto dal signor Lodovico Sammicheli la somma di
ottantamila lire, dandogli in pegno la terra della «Ricciarda». Se entro dodici
mesi non fosse stata rimborsata la detta somma, la terra della «Ricciarda»
diventava proprietà del Sammicheli.
«È
bello — pensava intanto — dare a un servo fedele il terzo o quasi di quel che
mi rimane!» E, rivolta a Lodovico:
— Dopo lo scherzo del
serbatoio, vi lascio due giorni per riposarvi a Casalmaggiore. Perché la
cessione sia valida, dite che l'affare è di piú d'un anno addietro. Poi venite
subito a Belgirate. Può essere che Fabrizio debba andare in Inghilterra, e voi
l'accompagnerete.
Il giorno dopo, di mattina
presto, la duchessa e Fabrizio furono a Belgirate.
Si
stabilirono in quel villaggio incantevole: ma sulle rive di quel meraviglioso
lago Maggiore un gran dolore si preparava per la duchessa. Fabrizio non era piú
quel di prima: fin dal primo ridestarsi da quel sonno quasi letargico, ella si
era accorta che in lui accadeva qualche cosa di straordinario. Il sentimento
profondo ch'egli celava con ogni studio era veramente singolare: non sapeva
darsi pace d'esser fuori dalla prigione, e si asteneva dal confessare questo
rammarico, perché avrebbe dato occasione a domande cui non voleva rispondere.
— Ma come! — domandava la
duchessa sbigottita — quando la fame t'obbligava a mangiar qualcuna delle
abbominevoli vivande preparate nella cucina della prigione, non sentivi
l'orrore di domandarti ogni volta: c'é qualche sapore strano? mi avveleno in
questo momento?
— Io pensavo alla morte, —
rispose Fabrizio — come suppongo che ci pensino i soldati: una cosa possibile
che speravo aver l'accortezza di evitare.
Quali inquietudini, quante
angustie per la povera duchessa! Quel Fabrizio adorato, cosí originale e
vivace, era ormai accanto a lei assorto in fantasticherie; giunto a preferir la
solitudine al piacere di parlare di tutto a cuor aperto, con lei la miglior amica
che avesse al mondo! Era sempre buono, pieno di sollecitudini e di gratitudine:
avrebbe, come un tempo, rischiata cento volte la vita per lei; ma il suo cuore
era altrove. Spesso si percorrevano quattro o cinque leghe su quel lago
magnifico, senza aprir bocca. La conversazione, o meglio quello scambio di
pensieri su argomenti privi d'intimità che solo era ormai possibile fra loro,
sarebbe stato ad ogni altro gradevole; ma essi ricordavano, massime la
duchessa, quali discorsi erano i loro prima che quel funesto duello col Giletti
li separasse. Egli avrebbe dovuto raccontare alla duchessa la storia dei nove
lunghi mesi di un'orribile prigionia, e per l'appunto a quell'orribile
soggiorno non accennava che vagamente, non diceva che brevi parole.
«Prima o poi questo doveva
accadere! — pensava la duchessa con amara tristezza. — I dolori mi hanno
invecchiata; egli ama davvero e io non ho che il secondo posto nel suo cuore.»
Avvilita, prostrata da un tale pensiero, fonte del piú grande dei dolori
possibili, la duchessa si diceva anche: «Ah! se Ferrante fosse diventato
addirittura pazzo, o gli venisse meno il coraggio, mi par che sarei meno
infelice». E questo quasi rimorso venne a turbar la stima ch'ella aveva del
proprio carattere. «Dunque, — pensava amaramente — son giunta a pentirmi d'una
decisione presa? Non son piú una Del Dongo. Dio l'ha voluto! Fabrizio è
innamorato! E con che diritto potrei pretendere che non lo fosse? Quando mai
c'é stata tra noi una sola parola d'amore?»
Questa idea cosí savia le
tolse il sonno: la vecchiezza e la prostrazione dell'anima la coglievano,
presso al compimento d'una insigne vendetta; e a Belgirate si sentiva assai piú
infelice che a Parma. Quanto alla causa di quelle fantasticaggini di Fabrizío,
non era possibile aver dubbi: Clelia Conti, quella fanciulla cosí pia, aveva
tradito suo padre, poiché aveva acconsentíto ad ubriacare la guarnigione. E
Fabrizio non la nominava mai! «Sí; ma — soggiungeva la duchessa picchiandosi
disperatamente il petto — se i soldati non fossero stati ubriacati, tutte le
mie trovate, tutto il mio lavoro, tutto era inutile: cosi, è proprio lei che
l'ha salvato!»
Solo a stento riusciva ad
avere da Fabrizio particolari su quella notte, che in altri tempi avrebbe dato
argomento a discorsi cento volte ripetuti. «In quei tempi fortunatissimi un
giorno intero mi avrebbe parlato, e con quel brio, con quella serena gioia
inesauribili, sul menomo incidente intorno a cui mi fosse venuto fatto
d'interrogarlo.»
Nella necessità di tutto
prevedere, la duchessa aveva fatto stabilir Fabrizio a Locarno, città svizzera
sull'estrema punta del lago Maggiore: e tutti i giorni andava a prenderlo per
lunghe gite in barca. Una volta ch'ella gli salí in casa, trovò la sua camera
tappezzata di vedute di Parma, città che avrebbe dovuto esecrare. Il suo
salottino, trasformato in istudio, aveva tutti gli arnesi di un pittore
d'acquarelli; ed ella lo trovò che stava appunto acquarellando una terza veduta
della torre Farnese e del palazzo del governatore.
— Non ti manca piú — gli
disse un po' piccata — che fare a memoria il ritratto di quel caro governatore,
che non ti voleva far altro male che avvelenarti! Anzi, già che mi ci fai
pensare, tu dovresti scrivergli una bella lettera, per domandargli perdono
d'esserti presa la libertà di scappare, gettando qualche po' di ridicolo sulla
sua cittadella!
La povera donna non
s'immaginava d'avere indovinato! Appena al sicuro, la prima cura di Fabrizio fu
di scrivere al general Fabio Conti una lettera correttissima, ma in un certo
senso alquanto grottesca. Gli chiedeva infatti perdono d'essere scappato,
adducendo per iscusa che aveva avuto qualche ragione di credere che un agente
subalterno della cittadella fosse incaricato di avvelenarlo.
Ciò che andava scrivendo
gli premeva pochissimo: sperava che anche Clelia potesse veder quella lettera,
e a tale pensiero gli s'empivan gli occhi di lagrime. La chiusa era un tantino
comica. Osava dire che ora, in libertà, gli accadeva di rimpiangere la sua
gabbia nella torre Farnese! Il pensiero dominante dell'epistola era tutto lí:
Clelia lo avrebbe compreso. E nella sua mania di scrivere, sempre con la
speranza che altri leggerebbe, mandò ringraziamenti a don Cesare, il buon
elemosiniere che gli aveva prestati dei libri di teologia. Qualche giorno dopo,
sollecitò il libraio di Locarno a fare una corsa a Milano, dove quegli, amico
dell'illustre bibliomane Reina, comprò le piú pregiate edizioni dei libri
prestati da don Cesare. Il buon elemosiniere ricevé il libri e una bella
lettera, in cui era detto che in momenti d'impazienza, non senza scusa forse
per un povero prigioniero, i margini de' suoi volumi erano stati riempiti di
appunti insensati; don Cesare era dunque pregato di sostituire i volumi
sciupati con questi nuovi, offerti dalla piú viva riconoscenza.
Fabrizio non si curava
troppo della proprietà della lingua quando dava nome di appunti alle «zampe di
gallina» di cui aveva ricoperti i margini dell'in folio delle opere di San Girolamo. Nella
speranza di rimandare il libro a don Cesare, in cambio di qualche altro, aveva
giorno per giorno scritto sui margini una specie di diario di tutto quel che
gli accadeva in prigione. Gli avvenimenti registrati si riducevano a estasi di
amor divino (l'espressione ne indicava un altro ch'egli non s'arrischiava a
scrivere). E ora questo amor divino lo traeva a profonde disperazioni, ora voci
gli giungevano dall'empireo a rinverdire le speranze e a cagionargli commosse
letizie. Tutto ciò, per fortuna, scritto con un inchiostro di prigione, fatto
di vino, di cioccolata e di fuliggine. Don Cesare rimettendo il suo San
Girolamo nello scaffale gli aveva dato appena un'occhiata. Se avesse letto ne'
margini, avrebbe visto che un giorno il prigioniero, credendosi avvelenato, si
felicitava di morir a quaranta passi di distanza da ciò che aveva piú amato al
mondo. Ma altri occhi che quelli del buon elemosiniere avevano scorso quei
margini. La bella idea di «morir vicino all'oggetto amato», espressa in varie
forme, era poi svolta in un sonetto: l'anima, separata dopo atroci sofferenze
dal corpo fragile in cui aveva dimorato ventitré anni, sospinta dal desiderio
istintivo di felicità, naturale in tutti i viventi, non salirebbe al cielo tra
i cori degli angeli, quando il terribile giudice le avesse concesso il perdono
delle sue colpe; ma, piú felice nella morte che nella vita, andrebbe pochi
passi distante dal carcere dove aveva sofferto, per congiungersi a quella che
le fu amore supremo nel mondo. E cosi, concludeva l'ultimo verso, l'anima «avrà
trovato in terra il paradiso».
Per quanto nella cittadella
non si parlasse di Fabrizio che come d'un traditore indegno, il quale aveva
mancato ai piú sacri doveri, il buon don Cesare fu entusiasmato al giunger de'
bel libri, mandatigli da uno sconosciuto. Fabrizio infatti aveva fatto spedire
i libri qualche tempo prima di scrivere, temendo che, saputo onde venivano,
l'elemosiniere li respingesse sdegnato. Ma don Cesare non disse nulla di questa
cortese sollecitudine al fratello generale, che montava in furore al solo
sentir nominare il Del Dongo. Dopo la fuga, l'elemosiniere aveva ripreso
l'antica cordiale intimità con sua nipote; e siccome le aveva tempo addietro
insegnato qualche cosa di latino, le mostrò i bel libri ricevuti. Questo aveva
sperato il donatore. Nello sfogliarli, Clelia a un tratto arrossí: aveva
riconosciuto la calligrafia di Fabrizio: strisce di carta gialla erano state
collocate, quasi segni, in varii punti del volume. E, poiché tra le sordide
cupidigie e la gelida scolorata volgarità della vita certi accorgimenti
inspirati dalla passione vera producono il piú spesso i loro effetti, come se
una divinità propizia la menasse per mano, Clelia, guidata dall'istinto e fissa
in un pensiero unico chiese allo zio di raffrontare col nuovo il vecchio volume
di San Girolamo. Come ridire qual dolce commozione, tra la malinconia in cui
l'aveva lasciata la partenza di Fabrizio, ella provò nel leggere il sonetto e
le memorie, notate di giorno in giorno, del grande amore ch'egli nutriva per
lei?
Imparò i versi a memoria;
e li canticchiava stando alla finestra, davanti a un'altra finestra ormai
deserta, sulla quale tante volte aveva visto aprirsi lo spiraglio della
tramoggia. Ora la tramoggia era stata smontata e deposta nei magazzini del
tribunale come corpo di reato in un comico processo che il Rassi istruiva
contro il Del Dongo, reo di fuga, anzi, come il Rassi medesimo diceva ridendo,
«reo d'essersi sottratto alla clemenza d'un principe magnanimo».
Per Clelia, ormai,
qualunque cosa facesse era cagione di rimorsi, tanto piú vivi quanto piú si
sentiva infelice; e tentava dar pace al suo cuore ricordando e confermando il
voto alla madonna, pronunciato durante il pericolo corso da suo padre: non
veder Fabrizio mai piú.
La fuga aveva cagionato
una vera malattia al generale, che era anche stato lí lí per esser destituito,
quando il principe furibondo fece cacciar nelle carceri della città tutti i
carcerieri della cittadella; ma lo salvò l'intercessione del conte Mosca, che
preferiva vedere il rivale operoso e intrigante confinato lassú, in cittadella,
anziché a mantener raggiri fra la gente di Corte.
E nei quindici giorni che
durò l'incertezza sulla sorte del generale, e la sua malattia vera, Clelia
trovò il coraggio di compiere il gran sacrificio.
S'era data ammalata il
giorno dei festeggiamenti, che, come forse il lettore ricorda, era stato quello
stesso della fuga; restò ammalata anche il giorno dopo, e si seppe comportare
in tal modo che, tranne Grillo a cui era particolarmente commessa la vigilanza
del prigioniero, a nessuno venne mai il sospetto della sua complicità. E Grillo
tacque.
Ma, appena tranquilla su
questo punto, fu piú angosciosamente torturata da' suoi giusti rimorsi. Con
quale ragionamento mai può attenuarsi la colpa d'una figlia che tradisce suo
padre?
Una sera, finalmente, dopo
aver passato l'intera giornata nella cappella, piangendo, pregò don Cesare che
l'accompagnasse dal generale, le cui sfuriate la sgomentavano, tanto piú
ch'egli non trascurava occasione o pretesto per imprecar contro Fabrizio,
abominevole traditore.
Giuntagli davanti, ebbe il
coraggio di dirgli che aveva sempre rifiutato di dar la sua mano al marchese
Crescenzi, perché non provava per lui la menoma inclinazione ed era certa che
quel matrimonio la farebbe infelice. Il generale scattò furioso, ed ella ebbe
un bel da fare per riprendere il discorso e dire che se, tuttavia, suo padre,
sedotto dalla grande ricchezza del marchese, credeva darle l'ordine di
sposarlo, avrebbe obbedito. Il generale, stupefatto da una conclusione cosí
diversa dalle premesse, se ne compiacque, e disse al fratello: — Cosí non dovrò
confinarmi in un secondo piano, se per colpa di quella carogna di Del Dongo
avrò da perdere il posto!
Il conte Mosca non
tralasciava di dimostrarsi assai scandalizzato per l'evasione di quel «cattivo
soggetto», e ripeteva la frase trovata dal Rassi intorno all'espediente
abbastanza volgare con cui quel giovine si era «sottratto alla clemenza del
sovrano».
La frase spiritosa, che
ottenne consacrazione nella «buona società», non fece presa nel popolo, che,
pur credendo Fabrizio colpevole, ammirava il coraggio che c'era voluto a
buttarsi da quell'altezza. Non uno nella Corte pensò a quel coraggio.
La polizia, molto umiliata
da quello scacco, aveva scoperto che una ventina di soldati, corrotti dai
denari della duchessa Sanseverina — donna cosí vergognosamente ingrata, di cui
non si pronunziava piú il nome che sospirando — avevan dato al prigioniero
quattro scale legate insieme, lunghe quarantacinque piedi ciascuna, e ch'egli
non aveva avuto altro merito che di tirarle con una corda a sé.
Alcun liberali noti per la
loro imprudenza, e tra gli altri il medico C..., agente pagato direttamente dal
sovrano, aggiungevano, compromettendosi, che la feroce polizia aveva fatto
barbaramente fucilare otto dei disgraziati soldati che avevano agevolata la
fuga dello sconoscente Fabrizio. E allora anche i liberali veri biasimarono il
Del Dongo che con la propria imprudenza aveva cagionato la morte di otto poveri
soldati! Cosí i piccoli dispotismi riescono ad annientare perfino il valore
della pubblica opinione.
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