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Stendhal
La certosa di Parma

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XXIII

Fra tanto scatenarsi d'ira, il solo arcivescovo Landriani si serbò fedele alla causa del suo giovine amico; e perfino nel circolo della principessa osò ricordare il fondamentale principio di diritto, pel quale in ogni procedimento bisogna che un orecchio si mantenga sereno e libero da pregiudizio per ascoltar la difesa dell’imputato.

Dopo l'evasione di Fabrizio era stato divulgato a Parma un sonetto mediocre che celebrava quella fuga come una delle belle azioni del secolo, e paragonava il Del Dongo a un angelo scendente sulla terra ad ali spiegate. Il giorno seguente tutti nella città sapevano a mente un altro sonetto magnifico: un monologo del prigioniero intanto che scendeva lungo la corda, e ripensava tutti gl'incidenti della sua vita. Tutti i componenti vi riconobbero lo stile di Ferrante Palla.

Ma a questo punto mi bisognerebbe tentar lo stile epico: dove troverei colori e toni per dipinger la traboccante indignazione dei benpensanti, quando fu nota la spavalda insolenza delle luminarie della villa di Sacca? Fu, contro la duchessa, un grido unanime d'indignazione: perfino i liberali autentici stimarono quelle feste un barbaro modo di compromettere i detenuti sospetti e di esasperare inutilmente il sovrano. Il conte Mosca dichiarò che ai vecchi amici della duchessa non restava di meglio che dimenticarla. Fu un generale concerto d'ira e di odii: uno straniero che si fosse trovato a passare per la città sarebbe rimasto sorpreso da tanta violenta concordia della pubblica opinione. Ma per compenso, in un paese che sa gustare e valutar giustamente il piacere della vendetta, la luminaria e la festa data nel parco di Sacca a seimila contadini piacquero in modo incredibile. A Parma si diceva comunemente che la Sanseverina aveva fatto distribuir tra i contadini migliaia e migliaia di scudi; e questo spiegava l'accoglienza un po' dura verso una trentina di gendarmi che la polizia aveva fatto la sciocchezza di mandare a Sacca trentasei ore dopo la festa stupenda e la ubriacatura generale. I gendarmi, ricevuti a sassate, avevan dovuto scappare: due di loro, caduti da cavallo, erano stati buttati nel Po.

Invece, la rottura del serbatoio del palazzo Sanseverina era passata quasi inosservata: la notte alcune strade erano state inondate: il giorno dopo si sarebbe potuto dire ch'era piovuto. Lodovico aveva avuto la precauzione di rompere i vetri di una finestra del palazzo per modo da lasciar credere che v'erano entrati i ladri. S'era trovata anche una piccola scala: ma il solo conte Mosca riconobbe la genialità dell'amica sua.

Fabrizio era risoluto di tornare a Parma subito che potesse; mandò Lodovico a portare una lunga lettera all'arcivescovo; e il fido servo tornò subito a impostare nel primo villaggio piemontese, San Nazaro presso Pavia, una lunga epistola latina con cui il degno prelato rispondeva al suo giovine protetto. Ci bisogna aggiungere un particolare che, come tanti altri certamente, parrà superfluo in un paese dove non c'é piú bisogno di siffatte precauzioni. Il nome di Fabrizio Del Dongo non si scriveva mai: le lettere per lui erano indirizzate sempre a Lodovico Sammicheli a Locarno in Svizzera o a Belgirate in Piemonte. La busta era di carta grossolana, il sigillo male applicato, l'indirizzo leggibile appena, e qualche volta ornato di raccomandazioni degne d'una serva: e tutte le lettere avevan la data di Napoli, anticipata di sei giorni.

Da San Nazaro presso Pavia, Lodovico dové tornare a Parma in gran fretta, con una missione che a Fabrizio stava molto a cuore. Si trattava nientemeno che di far avere alla signorina Conti un fazzoletto di seta, sul quale era stampato un sonetto del Petrarca: c'era cambiata solo una parola. Clelia lo trovò sul suo tavolino due giorni dopo aver ricevuto i ringraziamenti del marchese Crescenzi che si protestava il piú felice degli uomini; e non è necessario dire che effetto le producesse questo segno di una cosí affettuosa costanza.

 Lodovico doveva anche procurarsi tutti i particolari possibili su tutto quel che avveniva nella cittadella; e dové quindi informar Fabrizio che ormai il matrimonio della signorina col marchese Crescenzi era cosa stabilita:  quasi non passava giorno che il marchese non desse a Clelia, nella cittadella stessa, una festa. E una prova irrefutabile del prossimo matrimonio stava in ciò: che il marchese, ricchissimo e per conseguenza avarissimo, come son per lo piú i ricchi dell'Italia settentrionale, faceva grandi preparativi, sebbene sposasse una signorina senza dote. Vero è che la vanità del general Conti, punta da questa osservazione che, se per lui era intollerabile, non poteva non venire in mente a tutti, lo aveva deciso a comprare, per assegnarla alla figliuola, una tenuta del valore di piú di trentamila lire. L'aveva pagata a contanti, lui che pur si sapeva come non possedesse nulla: e l'aveva pagata a contanti, secondo ogni probabilità, coi denari del marchese. Le spese di contratto e accessori che salivano a dodicimila lire parvero al Crescenzi, uomo eminentemente logico, una cosa ridicola. Dal canto suo egli faceva fare a Lione delle tappezzerie magnifiche di tinte ben combinate sotto la direzione del famoso Palagi, pittore bolognese. Queste tappezzerie, ciascuna delle quali conteneva un episodio scelto nella storia della famiglia Crescenzi che, come tutti sanno, discende dal famoso Crescenzio, console di Roma nel 985, doveva decorare i diciassette saloni del pian terreno del palazzo. Le tappezzerie, gli orologi, i lampadari portati a Parma costarono piú di trecentocinquantamila lire: il valore degli specchi nuovi aggiunti a quelli ch'eran già nel palazzo ammontò a ducentomila. Tranne due sale affrescate dal Parmigianino, il piú gran pittore del paese dopo il divino Correggio, tutte le altre erano ora invase dai piú celebri pittori di Firenze, di Roma e di Milano, che le decoravano. Fokelberg, il famoso scultore svedese, il Tenerami di Roma e il Marchesi milanese, attendevano da un anno a dieci bassorilievi rappresentanti altrettante gesta di quel vero grand'uomo che Crescenzio fu. Anche la piú parte degli affreschi delle vôlte figuravan fatti della sua vita. Ammiratissimo il soffitto in cui l'Hayez aveva rappresentato Crescenzio ricevuto negli Elisi da Francesco Sforza, da Lorenzo il Magnifico, da re Roberto, da Cola di Rienzo, dal Machiavelli, da Dante e da altri grandi uomini del medio evo. L'ammirazione per questi grandi del passato ha un qualche sapor d'epigramma contro i potenti dell'oggi.

Queste magnificenze eran l'unica occupazione, l'unico argomento dei discorsi della nobiltà e della borghesia parmense, e furon ferite al cuore di Fabrizio, quando le lesse narrate con ingenua ammirazione in una lunga lettera che Lodovico aveva fatto scrivere da un impiegato alla dogana di Casalmaggiore.

«E io son cosí povero! — pensavaquattromila lire di rendita in tutto e per tutto! Ci vuol proprio un bel coraggio ad andarmi a innamorar d'una donna per cui si fanno di questi miracoli

Un solo passo della lunga epistola di Lodovico era scritto da lui: e narrava com'egli di sera si fosse imbattuto nel povero Grillo in pessime condizioni. Imprigionato dapprima, poi liberato, era in tristissimo arnese: gli aveva chiesto per carità uno zecchino, e lui, in nome della signora duchessa, gliene aveva dati quattro. I vecchi carcerieri, dodici, rimessi da poco in libertà, si preparavano a dare «un trattamento di coltellate» ai nuovi, loro successori, se li potevan cogliere fuori della cittadella. Anche Grillo gli aveva detto che le serenate si facevano quasi quotidianamente, che la signorina Clelia era assai pallida, spesso ammalata e altre cose simili. Questa singolare espressione fece che Lodovico ebbe a volta di corriere l'ordine di tornar subito a Locarno. Vi andò, e le notizie che diede a voce furon per Fabrizio anche piú tristi.

Si può immaginare la piacevolezza delle sue relazioni con la duchessa: egli sarebbe morto piuttosto che pronunciar davanti a lei il nome di Clelia: ella esecrava Parma, e per lui tutto quel che la ricordava era fonte di commozioni sublimi.

La duchessa non dimenticava la sua vendetta. Era cosí felice prima del malaugurato incidente Giletti! E ora? Ora viveva nell'attesa d'un fatto atroce, del quale neppure avrebbe osato dir una parola a Fabrizio, ella che quando pigliava gli accordi col Palla, credeva di procurargli cagione di viva letizia col dirgli che un giorno sarebbe vendicato.

Cosí tra loro era quasi sempre un silenzio cupo. Per rendere un po' piú gradevoli queste relazioni, la duchessa aveva ceduto alla tentazione di fare un brutto tiro al nipote. Il conte le scriveva quasi ogni giorno: evidentemente egli mandava corrieri, come a' bel tempi del loro amore, perché le lettere portavan timbri di questa o di quella città svizzera. Il pover'uomo si torturava per non parlar troppo apertamente del suo amore e per mettere assieme lettere piacevoli: eran lette appena, distrattamente. Che vale ahimé la fedeltà d'un amante, al quale non concediamo che la nostra stima, quando si ha il cuore tormentato dalla freddezza di colui che gli si preferisce?

In due mesi ella non gli rispose che una volta, e solo per invitarlo a tastare il terreno e sapere se, non ostante i temerari fuochi artificiali, la principessa avrebbe gradito una lettera sua. Nella lettera, che egli avrebbe dovuto presentare se giudicava conveniente il farlo, si chiedeva il posto di cavaliere d'onore, da poco vacante, per il marchese Crescenzi, e si esprimeva altresí il desiderio che quella onorificenza gli fosse accordata in occasione del suo matrimonio.

Quella lettera della duchessa era un capolavoro pieno di rispettosa affezione; nello stile cortigianesco non s'era introdotta parola le cui conseguenze prossime o lontane potessero non essere gradevoli alla principessa. Infatti la risposta fu dettata da un'amicizia tenerissima che sente vivo il rammarico della lontananza.

«Mio figlio ed io non abbiamo piú passato una serata piacevole dopo la Sua brusca partenza. La mia cara duchessa non ricorda dunque che è stata proprio lei a farmi aver voto consultivo nella scelta degli ufficiali della mia Casa? E si crede in dovere di darmi delle ragioni per la scelta del marchese Crescenzi, come se il suo desiderio non fosse per me un'ottima ragione?Il marchese avrà il posto, se io conto qualche cosa: e ci sarà un posto sempre, e il primo, nel mio cuore per la mia cara duchessa. Mio figlio dice le stesse cose, veramente un po' arditelle in bocca d'un ragazzone di ventun anni, e La prega di procurargli dei campioni di minerali della val d'Orta presso Belgirate. Può mandar le Sue lettere, che spero frequenti, al conte, che La detesta sempre, e che m'é caro appunto per questo. Anche monsignor arcivescovo Le è rimasto amico; e tutti speriamo prima o poi di rivederLa. Si ricordi che è necessario. La marchesa Ghisleri, mia maggiordoma, si prepara a lasciar questo mondo per uno migliore: la povera donna m'ha fatto gran male, e me ne fa ancora andandosene cosí inopportunamente. La sua malattia mi fa pensare alla persona che in altri tempi avrei con tanto piacere messo a quel posto, se mi fosse stato concesso di ottenere tale sacrifizio dallo spirito d'indipendenza di questa donna unica che, fuggendo, s'é portata via tutta la festività della mia piccola Corte...» Eccetera.

La duchessa dunque vedeva tutti i giorni Fabrizio, sicura d'aver fatto tutto quanto era in lei per affrettare il matrimonio che lo metteva alla disperazione. E cosí accadeva che a volte passassero insieme quattro o cinque ore sul lago senza profferir parola. L'affetto del giovine era vivo e schietto, ma egli pensava ad altro; e l'anima sua semplice e primitiva non trovava nulla da dire. Ella se n'accorgeva ed era questo il suo vivo tormento.

Abbiamo dimenticato di dire a suo tempo che la duchessa aveva preso una casa a Belgirate, paesello incantevole che mantiene quel che il suo nome promette: bella svolta del lago. Dalla porta-finestra del salotto a terreno, ella poteva mettere il piede nella sua barca: ne aveva presa una non grande, per la quale quattro rematori sarebbero bastati: ne assoldò dodici, facendo in modo d'averne uno per ciascuno dei villaggi circostanti. La terza e quarta volta che si trovò in mezzo al lago con questa gente bene scelta, fece smettere di remare.

— Io vi considero come buoni amici, — disse — e voglio confidarvi un segreto. Mio nipote Fabrizio è evaso di prigione; e può darsi che a tradimento cerchino di ripigliarlo, per quanto sia qui in paese libero. State guardinghi, e avvisatemi di tutto quel che vi riuscirà di sapere. Vi do il permesso di entrare in camera mia di giorno e di notte.

I barcaioli le risposero entusiasmati: sapeva farsi voler bene. Ma il vero è che non credeva affatto si pensasse a riacciuffare Fabrizio; in altri tempi, cioé prima di aver fatalmente ordinato l'apertura del serbatoio, non ci avrebbe pensatopunto né poco.

La prudenza le aveva suggerito di prendere in affitto per Fabrizio un quartierino sul porto di Locarno, e ogni giorno o egli veniva a trovarla o ella andava da lui; ma, per dare un'idea del sollazzo che lor procuravano quei colloqui, basti dire che la marchesa Del Dongo con le figliuole essendo andati due volte a trovarli, le visite di questi estranei fecero loro grande piacere. A malgrado dei vincoli di sangue, si posson chiamare estranee le persone che non sanno nulla di quanto a noi è piú caro e che si vedono una volta all'anno.

La duchessa era una sera a Locarno, con la marchesa e le figliuole, quando l'arciprete del paese venne col curato a ossequiar le signore. L'arciprete, cointeressato in una casa di commercio, si teneva al corrente delle notizie; gli venne detto:

— È morto il principe di Parma.

La duchessa impallidí ed ebbe appena la forza di domandare:

— Si hanno particolari?

— No, — rispose l'arciprete — la notizia è cosí secca secca; ma è sicura.

La duchessa guardò Fabrizio. «Io l'ho fatto per lui; — pensò — avrei fatto anche di peggio; ed eccolo davanti a me indifferente, con la testa chi sa dove.» Questo pensiero era cosí acerbamente doloroso che ella non ebbe forza a resistervi e cadde in un deliquio profondo. Tutti si diedero da fare per soccorrerla; ma, tornando in sé, ella notò che Fabrizio si era mosso meno dell'arciprete e del curato. Fantasticava, al suo solito.

«Pensa come tornare a Parma, — diceva ella fra sé — e come rompere, forse, il matrimonio di Clelia col Crescenzi; ma glielo saprò ben impedire.» Poi ricordandosi della presenza de' due preti, soggiunse:

Era un gran principe;  e l'hanno tanto calunniato! Per noi è una perdita immensa.

I due preti si congedarono; e la duchessa, per essere sola, disse che andava a letto.

«Senza dubbio, — pensavaprudenza vorrebbe ch'io aspettasi un mese o due prima di tornare a Parma: ma non avrò tanta pazienza: qui soffro troppo. Il continuo fantasticare, il continuo silenzio di Fabrizio son pel mio cuore uno spettacolo intollerabile. Chi m'avesse mai detto che mi sarei annoiata su questo lago incantevole sola con lui, e proprio quando per vendicarlo ho fatto piú che io non possa fargli sapere! In paragone, la morte è un nonnulla. Cosí sconto la gioia che provai quando lo rividi in casa mia a Parma al suo ritorno da Napoli. Una parola che avessi detto, tutto era finito: e forse, legato con me, non avrebbe mai pensato a quella ragazza: ma a dir quella parola provavo una repugnanza invincibile! Ed ora è lei che trionfa! Naturale! ha vent'anni, e io, logorata dalle cure e dai malanni, ne ho il doppio! Bisogna morire, farla finita. Una donna di quarant’anni non conta piú se non per quelli che l'hanno amata da giovine. Ormai non mi rimangono che soddisfazioni di vanità; mette il conto di vivere? Ragione di piú per tornare a Parma e divertirmi. Se le cose avessero da pigliare una certa piega, mi ammazzerebbero. E che c'é di male? farei una morte splendida, e prima di chiuder gli occhi, ma soltanto allora, direi a Fabrizio: "Ingrato, fu per te!"  , quel po' di vita che mi rimane io non posso passarla che a Parma: ci farò la gran signora. Ah, che felicità se potessi ancora trovar piacere negli omaggi che facevano disperar la Raversi! Allora mi consolava lo spettacolo dell’invidia... Un conforto per la mia vanità è che, tranne il conte, nessuno potrà indovinare come, perché, da che sia stato ucciso il mio cuore. Amerò sempre Fabrizio: farò tutto per la sua fortuna. Ma posso lasciargli rompere il matrimonio di Clelia per poi sposarla lui?... Ah! questo poi no!»

Il doloroso soliloquio era a questo punto, quando uno strepito s'udí nella casa.

«Ah! ecco: vengono ad arrestarmi: Ferrante si sarà lasciato acchiappare, e avrà svesciato. Tanto meglio! Avrò un'occupazione: dovrò disputare loro la mia testa. Ma prima di tutto, bisogna non lasciarsi prendere

E mezzo vestita scappò in fondo al giardino: stava già pensando di scavalcare il piccolo muro e fuggire per la campagna, quando vide che qualcuno entrava in camera sua: riconobbe Bruno, l'uomo di fiducia del conte, solo con la cameriera. Si accostò alla porta-finestra; udí che colui parlava con la cameriera delle ferite che s'era buscate.

La duchessa rientrò: Bruno la scongiurò di non dire al conte a che ora sconveniente le si presentava.

— Subito dopo la morte di Sua Altezza, Sua Eccellenza ha ordinato a tutte le stazioni della posta di non dar cavalli a sudditi parmensi. Fino al Po io son venuto con i cavalli di casa; ma all'uscir dalla barca la carrozza ha ribaltato ed è andata in pezzi, e io ne son venuto fuori con ferite e confusioni che non m'hanno permesso di montar a cavallo come avrei dovuto.

Va bene: son le tre dopo mezzanotte: dirò che siete arrivato a mezzogiorno: ma badate di non isbugiardarmi.

— La signora duchessa è sempre buona.

La politica in un'opera di letteratura è come una pistolettata in mezzo a un concerto musicale; un che di grossolano, cui pure non è possibile non badare. Ci bisognerà discorrere di brutte cose, che per molte ragioni preferiremmo tacere; ma è necessario parlar d'avvenimenti che son di nostro dominio, poiché han per teatro il cuore dei nostri personaggi.

— Mio Dio! com'é morta Sua Altezza? — domandò la duchessa.

— Sua Altezza era alla caccia d'uccelli di passo, nel padule lungo il Po, a due leghe da Sacca: è caduto in una buca nascosta dal falasco; era sudato, l'ha preso un gran freddo. L'han portato subito in una casetta isolata, e dopo qualche ora è morto. Altri pretendono che sian morti anche i signori Catena e Borone, e che tutto il male l'han fatto le casseruole del contadino, dal quale s'eran fermati, e che eran piene di verderame... Colazione in quella casa la fecero. Le teste esaltate, i giacobini, che raccontan sempre le cose come vorrebbero che fossero andate, parlano di veleno. Io so che Toto, un amico mio, furiere di Corte, sarebbe morto anche lui se non fossero state le cure d'un certo povero diavolo che pare s'intendesse molto di medicina e che gli ha fatto ingerire non so che curiosi rimedii. Ma a Parma non si parla già piú della morte del sovrano: veramente era un omaccio. Quando io son partito c'era la folla che voleva massacrare il Rassi:  e volevano anche dar fuoco alle porte della cittadella, per cercar di liberare i prigionieri. Ma dicevano che il general Conti  avrebbe  sparato  i  cannoni; c'era poi invece chi raccontava che gli artiglieri della fortezza avevan bagnato le polveri protestando che non volevano assassinare i loro compaesani. Ma ora viene il meglio:  intanto che il chirurgo di Sandolaso mi rimetteva a posto il braccio, è arrivato uno da Parma, e ha raccontato che la folla, visto Barbone ... sa? quel commissario della cittadella... vistolo per le strade, l'ha ammazzato e poi è andata a impiccarlo a un albero dello «Stradone», il piú vicino alla porta della cittadella. Il popolo s'era anche mosso per andare a buttar giú la statua del principe nei giardini della Corte: ma il signor conte ha preso un battaglione della guardia, l'ha disposto intorno alla statua e ha fatto dire al popolo che non uno che osasse entrar nei giardini ne sarebbe uscito vivo; e la folla ha avuto paura. Il piú strano è che quest'uomo arrivato da Parma, che è un nostro gendarme, mi ha detto e ripetuto che il signor conte ha preso a calci il generale P..., comandante la guardia del principe, e l'ha fatto portar fuori del giardino da due fucilieri, dopo avergli strappate le spalline.

— A questo lo riconosco! — sclamò la duchessa, in un impeto di gioia che non avrebbe ella stessa immaginato un minuto prima — ah!egli non permetterà mai che si oltraggi la nostra principessa, ma il generale P... era pur uno dei «fedeloni» e non ha mai voluto servire l'usurpatore! e invece han piú volte a Corte rimproverato al conte, men delicato, di aver preso parte alla guerra di Spagna.

La duchessa aveva aperta la lettera del conte, ma ne interrompeva ogni tanto la lettura per fare a Bruno domande una sull'altra. La lettera era curiosa: il conte usava espressioni lugubri, ma l'intima gioia prorompeva a ogni tratto. Evitava ogni particolare intorno alla morte del sovrano e conchiudeva:

«Ora certamente tu tornerai, angelo caro; ma ti consiglio d'aspettare un giorno o due il corriere che la principessa ti manderà, credo, oggi o domani. Bisogna che il tuo ritorno sia splendido come fu audace la partenza.

«Quanto al gran delinquente che è con te, penso di riaprire il processo e farlo giudicar da dodici magistrati scelti nei diversi tribunali dello Stato; ma per punir cotesto malfattore come si merita, bisogna che io possa distruggere la vecchia sentenza, se c'é!»

Il conte aveva riaperto la lettera, e aggiunto:

«Un'altra storia! Ho fatto distribuir cartucce ai due battaglioni della guardia; e sono in procinto di combattere, e di far del mio meglio per meritare il nomignolo di crudele, di cui da un pezzo i signori liberali mi hanno gratificato. Quella vecchia mummia del generale P... ha osato in caserma di proporre trattative col popolo insorto. Vi scrivo in mezzo alla strada; vado a palazzo, dove non entreranno che passando sul mio cadavere. Addio! Se dovessi morire, morirei adorandoti, come ho vissuto. Non dimenticarti di far ritirare le trecentomila lire depositate in tuo nome dai D..., a Lione.

«M'arriva quel povero diavolo del Rassi, pallido come un morto e senza parrucca: una figura che non è possibile figurarsela. Il popolo vuole a ogni costo impiccarlo: e gli farebbe veramente gran torto, perché merita d'essere squartato. Cercava rifugiarsi in casa mia, e m'é corso dietro nella strada: io non so che me ne fare: non lo voglio accompagnar dal principe perché sarebbe un'aizzar la rivolta contro il principe stesso! F... vedrà se gli sono amico. Al Rassi ho detto: Mi bisogna la sentenza contro il signor Del Dongo e tutte le copie; e dite ai giudici da parte mia che sono loro la vera causa della ribellione, che li farò impiccar tutti, e anche voi, amico mio, se si lasciano sfuggire una parola di questa sentenza che non esiste. Mando una compagnia di granatieri a monsignor arcivescovo. Addio, angelo caro! Può darsi che mettan fuoco al mio palazzo e io perderò tutti i tuoi bel ritratti. Ora corro a far destituire quel traditore del generale P... che ne fa delle sue! Ora adula vilmente il popolo come già adulava il principe defunto. Tutti questi generali hanno del resto una paura indiavolata. Bisognerà, credo, che mi faccia nominar generale in capo

La duchessa ebbe l'accorgimento di non mandare a svegliar Fabrizio: in quel momento sentiva pel conte un'ammirazione che somigliava molto all'amore. «Tutto considerato, — pensòbisognerà che lo sposi.» Gli scrisse subito; e mandò uno de' suoi. Quella notte non ebbe tempo d'essere infelice.

Il giorno dopo, verso il mezzogiorno, vide una barca con dieci rematori a bordo che fendeva rapida le acque del lago. Tanto lei quanto Fabrizio riconobbero presto un uomo che vestiva la livrea del principe di Parma: era infatti un corriere, che appena smontato le disse: — La rivolta è domata — e le consegnò lettere del conte, una bellissima della principessa e un'ordinanza del principe Ranuccio Ernesto V, che la nominava duchessa di San Giovanni e maggiordoma della principessa madre. Il giovine principe, dotto in mineralogia, e che ella credeva uno sciocco, aveva avuto lo spirito di scriverle un biglietto.

«Signora duchessa,

Il conte Mosca dice che è contento di me. Tutto si riduce a qualche fucilata affrontata accanto a lui: il mio cavallo è stato ferito. A sentire il chiasso che si fa per cosí poco m'é venuto il desiderio di prender parte a una vera battaglia, ma che non sia contro i miei sudditi. Io debbo tutto al signor conte Mosca: tutti i miei generali, che non hanno mai fatta la guerra, si son comportati come conigli: due o tre, credo, sono scappati fino a Bologna.

«Dopo il grande e doloroso avvenimento che mi ha chiamato al trono, nessuna ordinanza ho firmato con maggior piacere di quella che La nomina maggiordoma di S. A. la principessa mia madre. Essa ed io ci siamo ricordati che un giorno la signora duchessa ammirò la bella vista che si gode dal palazzetto di San Giovanni, il quale è fama abbia appartenuto al Petrarca: mia madre ha voluto regalarLe questa piccola tenuta e io non sapendo che donarLe, e non osando offrirLe quello che è già Suo, ho voluto farLa duchessa del mio paese: non so s'Ella sia tanto erudita da sapere che Sanseverina è titolo romano.

«Ho conferito il gran cordone del mio ordine al nostro degno arcivescovo, che ha mostrato una fermezza rara in uomini di settant'anni.

«Spero che Ella non mi vorrà male dell'aver io richiamare tutte le signore dall'esilio.

«Mi dicono che d'ora in poi non debbo sottoscrivere che dopo aver messo "affezionatissimo": mi spiace che mi faccian prodigare una attestazione la quale non è completamente vera se non quando mi dico Suo affezionatissimo

Ranuccio Ernesto

A legger questa lettera si crederebbe che la duchessa fosse in altissimo favore: tuttavia in un'altra del conte, che le giunse un paio d'ore dopo, c'era un che di singolare. Non si spiegava bene, ma la consigliava di scrivere alla principessa che una indisposizione momentanea la costringeva a ritardare di qualche giorno il ritorno a Parma. Ciò non ostante, la duchessa e Fabrizio partiron subito dopo pranzo: ella, in fondo, per quanto non lo confessasse neppure a se stessa, voleva affrettare il matrimonio del marchese Crescenzi, e Fabrizio, dal canto suo, viaggiò in una vera estasi di felicità, che a momenti parve a sua zia perfino ridicola. Sperava di veder Clelia e almanaccava disegni di rapimento, anche contro la volontà di lei, ove non ci fosse altro mezzo di mandar all'aria quel matrimonio.

Cosí il viaggio fu allegro: alla stazione della posta, prima di giungere a Parma, Fabrizio riprese l'abito ecclesiastico: di solito era vestito a lutto. Quando rientrò nella camera della duchessa, questa gli disse:

— Le lettere del conte hanno qualcosa di misterioso che non riesco a capire. Se tu volessi darmi retta dovresti fermarti qui qualche ora: ti manderò un corriere appena gli avrò parlato.

Ci volle del bello e del buono per persuader Fabrizio di arrendersi a questo suggerimento cosí ragionevole. Il conte accolse la duchessa che chiamava sua moglie con manifestazioni di gioia degne d'un ragazzo di quindici anni. Stette un pezzo senza parlar di politica; poi, quando venne all'increscioso argomento, le disse:

— Hai fatto bene a non far arrivar qui Fabrizio ufficialmente. Qui siamo in piena reazione: indovina chi m'han dato per collega come ministro della giustizia! Il Rassi! Il Rassi, cara mia, che io trattai da quello straccione che é, il giorno della rivolta. A proposito: ti avverto che qui non è accaduto nulla. Se leggi la Gazzetta vedrai che un impiegato della cittadella, un certo Barbone, è morto, cadendo da una carrozza: la sessantina di mascalzoni che son rimasti morti nell'assalto della statua in giardino stanno benissimo... ma viaggiano. Il conte Zurla, ministro dell'interno, è andato in persona alle case di ognuno di questi infelici eroi e ha elargito quindici zecchini alla famiglia o agli amici con l'ordine preciso di dire che il morto era fuori paese e con la minaccia della prigione a chi si fosse lasciato uscir di bocca che fu ammazzato. Un impiegato del mio Ministero degli esteri è stato spedito in missione ai giornali di Milano e di Torino, perché non parlino dell'«incidente malaugurato», come s'é stabilito di chiamarlo; e dovrà andar fino a Parigi e a Londra per far stampare smentite quasi ufficiali a tutto quel che si potesse raccontare dei nostri disordini. Un altro è stato mandato a Bologna e a Firenze. Io ho lasciato fare.

«Ma il bello è che, alla età mia, ho avuto veramente uno slancio d'entusiasmo nel parlare ai soldati della guardia e strappar le spalline a quello scimunito di P... In quel momento avrei senza esitare data la vita pel principe... Ora, è vero, riconosco che sarebbe stata una fine alquanto stolida. Il principe, sebbene bonaccione, darebbe oggi cento scudi perché io morissi di malattia:  non osa ancora chiedermi le dimissioni, ma ci parliamo piú di rado che si può, e io gli mando una gran quantità di piccole relazioni per iscritto, come facevo col padre, dopo l'arresto di Fabrizio. A proposito:  io non mi sono ancora divertito a ridurre in pallottole la famosa sentenza per la semplice ragione che quel briccone del Rassi non me l'ha consegnata ancora. è stato dunque bene non averlo fatto tornare pubblicamente, Fabrizio. Quella sentenza è ancora esecutoria: certo non credo che il Rassi oserebbe fare arrestar nostro nipote oggi: ma tra quindici giorni, chi sa? Se Fabrizio vuole assolutamente tornare a Parma, venga a casa mia.»

— Ma tutto questo, perché? — domandò la duchessa meravigliata.

— Han messo in testa al principe che mi do arie di dittatore e di salvatore della patria, e che voglio menarlo pel naso. Aggiungono che, parlando di lui, mi sia fatalmente scappato detto «questo ragazzo»; e può anche essere! Quel giorno ero un po' esaltato: per un momento lo presi perfino per un grand'uomo perché non aveva troppa paura tra le prime schioppettate che sentiva. Non manca d'intelligenza, è meglio del padre; insomma, ripeto, il cuore è buono; ma, cuor sincero e giovine, freme al sentir raccontare una bricconata e crede che deve aver proprio un'anima nera chi si accorge di codeste cose. Pensate com'é stato educato!

— Ma Vostra Eccellenza avrebbe dovuto pensare che un giorno sarebbe stato il padrone, e mettergli accanto un uomo di valore.

— Prima di tutto c'é l'esempio del Condillac, che, chiamato qui dal marchese di Felino, non riuscí a far del suo alunno che il re dei balordi. Andava alle processioni, e nel '96 non seppe trattare con Bonaparte che gli avrebbe triplicato il territorio; e poi, io non ho creduto mai di rimaner ministro dieci anni. E ora che son seccato e sfiduciato, specialmente da un mese a questa parte, penso soltanto a metter assieme un milione prima di piantare questa babilonia ch'io ho salvato. Se non ero io, Parma, per due mesi, sarebbe stata repubblica con Ferrante Palla per dittatore.

La duchessa arrossí: il conte ignorava.

— Noi riprecipitiamo verso la monarchia tipo secolo decimottavo: il confessore e la favorita. In fondo, il principe non ama che la mineralogia e forse un po' voi, signora mia; dacché regna, il suo cameriere, del quale ho fatto capitano il fratello dopo appena nove mesi di servizio, è arrivato a ficcargli in testa che lui ha da esser piú felice di chiunque altro perché il suo profilo sarà inciso sulle monete! E con questa bella idea gli è cominciata la noia.

«Ora gli ci vuole, per rimedio a questa noia, un aiutante di campo. E quando pur m'offrisse quel famoso milione che ci bisogna per viver discretamente a Napoli o a Parigi, io proprio non vorrei esser questo rimedio alla noia, e passare ogni giorno quattro o cinque ore con l'Altezza Sua. Eppoi, siccome sono piú intelligente di lui, dopo un mese mi prenderebbe per un mostro.

«Il padre era tristo e invidioso; ma aveva fatto la guerra, comandato corpi d'armata, e questo l'aveva un po' formato: in lui c'era la stoffa del principe, e io potevo essere un ministro, buono o cattivo; ma con questo benedetto figliuolo, candido e troppo buono, sono obbligato a essere un intrigante. Mi toccherà d'esser rivale dell'ultima pettegola di palazzo, e in condizioni d'inferiorità perché non saprò mai badare a certi particolari. Per esempio, tre giorni fa, una di quelle donne di guardaroba che distribuiscono negli appartamenti tutte le mattine gli asciugamani di bucato, ha fatto smarrire al principe la chiave d'una delle sue scrivanie: e Sua Altezza non ha voluto occuparsi degli affari le cui carte son dentro questa scrivania. Era facile con venti lire far staccare le tavole di fondo, o adoperar grimaldelli o altre chiavi; ma Ranuccio Ernesto quinto m'ha detto che cosí si sarebbero date cattive abitudini al fabbro ferraio della Corte!

«Finora gli è stato assolutamente impossibile di voler per tre giorni di seguito la stessa cosa. Se fosse nato il ricco signor marchese Tal de' Tali, questo principe sarebbe stato uno degli uomini piú stimabili della Corte, una specie di Luigi XVI: ma con la sua pia ingenuità come potrà evitare tutti i sapienti tranelli che lo circondano? E il salotto della Raversi è piú forte che mai: vi hanno scoperto che io, io che ho fatto sparar sulla folla, e che ero deciso a far ammazzar tremila uomini, se bisognava, per non consentire sfregi alla statua del principe che fu il mio sovrano, io, hanno scoperto, sono un liberale arrabbiato, che volevo fargli firmare una costituzione e altre fanfaluche simili. Con tutti i loro discorsi di repubblica, questi pazzi c'impedirebbero d'aver la migliore delle monarchie.... Insomma, voi siete la sola persona di questo partito liberale di cui io dovrei, secondo i miei nemici, essere il capo, sul cui conto il sovrano non si sia espresso in termini sgarbati: l'arcivescovo, soltanto per aver parlato con equità di quel che feci durante "l'incidente malaugurato", è in disgrazia.

«Subito dopo i fatti che ancora non si chiamavano malaugurati quando era ancor vero che c'era stata la rivolta, il principe disse all'arcivescovo che nel caso di un nostro matrimonio mi avrebbe fatto duca affinché poteste conservare il titolo di duchessa: oggi credo sarà fatto conte il Rassi che io feci far nobile quando mi vendeva i segreti del sovrano: e, se questo avviene, io ci farò la figura dell'imbecille

— E il povero principe si caccia in un pantano.

Sicuro; ma lui resta il padrone; qualità che in quindici giorni basta a far scordare il ridicolo. Ah, cara duchessa, andiamocene!

— Ma noi non siamo ricchi.

— Lo so. Né voi né io però abbiamo bisogno di lusso: datemi un posto in un palco al San Carlo e un cavallo: è tutto quello che mi ci vuole; un po' piú di lusso un po' meno, non sarà questo che determinerà la nostra condizione nel bel mondo: sarà il piacere che le persone intelligenti avranno nel venir da voi a prendere una tazza di the.

— E che sarebbe avvenuto nei «giorni malaugurati», se vi foste tenuto in disparte, come spero che farete da ora in poi?

Mah! Le truppe avrebbero fraternizzato col popolo: ci sarebbero stati tre giorni di assassinii e d'incendi (qui ci voglion trecent'anni almeno, perché la repubblica non sia un assurdo) poi, un paio di settimane di saccheggi, finché qualche reggimento straniero non fosse venuto a metter le cose a posto. Ferrante Palla era tra il popolo, pieno di coraggio e furibondo al solito: certamente c'era una dozzina di persone d'accordo con lui; e questo basterà al Rassi per mettere assieme una magnifica congiura. Certo è che con un vestito da straccione distribuiva oro a piene mani.

La duchessa, meravigliata di tutte queste novità, si affrettò d'andare a ringraziar la principessa.

Al suo entrare, la dama di palazzo le consegnò la piccola chiave d'oro che si porta alla cintola, segno della suprema autorità nella casa della principessa. Clara-Paolina fece uscir tutti gli altri, e, rimasta sola con l'amica sua, durò un pezzetto a tenere il discorso a mezz'aria, a dire e non dire. La duchessa, che non intendeva il perché di quel gioco, rispondeva con grande riserbo: finché la principessa, piangendo, l'abbracciò e disse:

— Le mie sciagure ricominciano: mio figlio mi tratterà peggio che il padre.

— Io saprò impedirlo! — rispose vivamente la duchessa. — Ma prima di tutto Vostra Altezza si degni accogliere l'omaggio del mio profondo rispetto e della mia viva riconoscenza.

— Che dice? — domandò la principessa un po' inquieta, nel timore d'una dimissione.

— Vorrei dire che, ogni volta Vostra Altezza mi consentirà di volgere a destra il viso mobile del Cinese di porcellana che sta sul camino, mi permetterà anche di chiamar le cose col loro vero nome.

— Non si tratta che di questo, cara duchessa? — rispose Clara-Paolina levandosi e andando ella stessa a voltare il viso del fantoccio cinese: e con dolcissimo tono di voce soggiunse: — Signora maggiordoma, parli pure e con tutta libertà.

— Vostra Altezza — l'altra riprese — ha capito benissimo: lei ed io corriamo ambedue grandi pericoli. La sentenza contro mio nipote non è stata revocata; e per conseguenza, quando vorranno disfarsi di me e fare offesa a Vostra Altezza, lo rimetteranno in prigione. Quanto a me, personalmente, io sposo il conte Mosca e ci andiamo a stabilire a Napoli o a Parigi. L'ultimo atto d'ingratitudine che colpisce in quest'ora il conte l'ha disgustato affatto della politica, e salvo l'interesse di Vostra Altezza, io non gli consiglierei di restare in questi impicci se non a condizione che il sovrano lo compensasse con una somma enorme. Vostra Altezza mi permetterà di farle sapere che il conte, il quale aveva centotrentamila lire quando fu chiamato al potere, oggi non arriva ad aver ventimila lire di rendita. Da un pezzo io lo pregavo di pensare alla sua fortuna, ma inutilmente. Durante la mia assenza egli si è guastato con gl'intendenti generali del principe, che eran dei bricconi, e li ha sostituiti con altri bricconi che gli han dato ottocentomila lire.

— Come! — sclamò la principessa sbigottita. — Ah! come questo mi dispiace!...

Desidera Vostra Altezza ch'io volti il Cinese a sinistra? — domandò la duchessa con gran sangue freddo.

— Oh Dio, no! — sclamò la principessa — ma mi dispiace che un uomo del carattere del conte si sia servito di questi modi di guadagno.

— Ma senza questo furto, sarebbe stato disprezzato da tutti i galantuomini.

— Mio Dio! com'é possibile?

Altezza, qui, all'infuori del mio amico marchese Crescenzi, che ha circa quattrocentomila lire di rendita, tutti rubano. E come non si avrebbe da rubare in un paese ove la riconoscenza verso chi rese i piú grandi servizi non dura un mese? Di vero e di durevole che sopravviva non resta dunque che il denaro. Altezza, io mi prenderò la libertà di dirle delle terribili verità.

— E io gliel'accordodichiarò la principessa con un profondo sospiro. — Tuttavia mi sono crudelmente spiacevoli a conoscere!

— Or bene, Altezza: il principe, per quanto buonissimo, può farla infelice assai piú di quanto l'abbia fatta il padre. Il compianto sovrano aveva un carattere come tutti su per giú l'hanno. Ernesto Ranuccio quinto non è sicuro di voler la stessa cosa tre giorni di seguito: e per conseguenza, ad esser sicuri di lui bisogna viverci sempre insieme e non lasciarlo parlar con nessuno. E siccome tutto ciò non è molto difficile indovinare, il nuovo partito ultra, capeggiato da quelle due buone teste che sono il Rassi e la marchesa Raversi, cercherà di procurare un'amante a Sua Altezza; un'amante che potrà liberamente provvedere a farsi un patrimonio e a distribuir qualche ufficio subalterno; ma dovrà esser garante al partito della costante volontà del sovrano. Io, per esser sicura presso Vostra Altezza, ho necessità che il Rassi sia esiliato e svergognato: voglio inoltre che mio nipote sia giudicato dai giudici piú onesti che si possan trovare. Se questi signori riconosceranno, com'io spero, la sua innocenza, è naturale si accordi a monsignor arcivescovo che Fabrizio sia suo coadiutore e gli succeda quando quegli venga a morire. Se a ciò non riesco, il conte ed io ce ne andremo: e in questo caso, lascio a Vostra Altezza Serenissima il consiglio di non perdonar mai al Rassi, e di non uscir mai dagli Stati di suo figlio: da vicino, quell'ottimo figliuolo non le farà mai un male veramente serio.

— Io ho seguito il suo ragionamento con la dovuta attenzione: — rispose sorridendo la principessadovrò dunque provvedere io stessa a cercare un'amante per il mio figliuolo?

— No, signora, faccia intanto che il suo salotto sia il solo in cui il principe non si annoi.

La conversazione su questo tema durò non si può dir quanto. Le scaglie cadevano a poco a poco dagli occhi della innocente e arguta principessa.

Un corriere andò a dire a Fabrizio che poteva entrare in città, ma di nascosto. Nessuno ci badò: ed egli passava le giornate vestito da contadino nella baracca d'un venditore di castagne innanzi alla porta della cittadella sotto gli alberi dello «Stradone




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