XIIV
La
duchessa seppe talmente bene adoperarsi che si passaron serate incantevoli nel
palazzo ducale, dove non si vide mai per l'innanzi tanta gaiezza: né mai ella
era stata tanto amabile quanto in quell'inverno, cosí minaccioso per lei di
pericoli grandissimi; in compenso, durante tutta questa stagione, forse non le
occorse due volte di pensar con dolore allo strano mutamento di Fabrizio.
Il principe andava assai
di buon'ora a queste gradevoli serate della madre che gli diceva sempre:
—
Ma andate dunque a governare: scommetto che sulla vostra scrivania son piú di
venti relazioni che aspettano un sí o un no; e io non voglio che l'Europa
m'accusi di far di voi un roi-fainéant
per regnar io in vece vostra.
Questi consigli capitavan
quasi sempre inopportunamente, cioé quando appunto Sua Altezza, vinta la
timidità, prendeva parte a qualche sciarada in azione, passatempo che lo
divertiva assai. Due volte per settimana si facevan gite in campagna, alle
quali, col pretesto di guadagnare al sovrano l'affetto del popolo, la
principessa accoglieva le piú belle ed eleganti signore della borghesia. La
duchessa, anima di tutti questi divertimenti, sperava che qualcuna di queste
signore, che tutte vedevan con profonda invidia la fortuna del Rassi,
troverebbe modo di raccontare al principe qualcuna delle innumerevoli
bricconate di lui. E tra le idee puerili di Sua Altezza c'era anche quella di
avere un Ministero morale.
Il Rassi era troppo accorto
per non rendersi conto che quelle feste della Corte della principessa vedova
dirette dalla sua nemica eran pericolose per lui, e non aveva mai voluto
consegnare al conte Mosca la sentenza pronunciata in forme perfettamente legali
contro Fabrizio. Era necessario che o la duchessa o lui sparissero dalla Corte.
Il giorno della sommossa,
la quale ormai era di buon gusto negar che fosse avvenuta, parecchio denaro fu
distribuito tra la plebe. Il Rassi mosse da questo punto: e mal vestito, anche
piú del consueto, entrò nelle case piú miserabili della città e passò lunghe
ore in conversari con la povera gente che le abitava. Non furon fatiche
perdute: dopo quindici giorni di siffatte indagini riuscí ad esser certo non
solo che Ferrante Palla era stato il vero capo dell'insurrezione, ma altresí
che, povero in canna com'era sempre stato nella sua qualità di grande poeta,
aveva fatto vendere a Genova, otto o dieci, diamanti.
Eran piú particolarmente
citati cinque di questi d'un valore d'oltre quarantamila lire, ceduti dieci giorni avanti la morte del principe per
trentacinquemila, perché, avevan detto, c'era urgente bisogno di denaro.
Gli parve di toccare il
cielo col dito: s'avvedeva benissimo che alla Corte della principessa madre lo pigliavano
un po' in ridicolo, e che perfino il principe, qualche volta, nel trattar
d'affari, con giovanile ingenuità gli aveva riso in faccia. Bisogna ricordar
pure che il Rassi aveva maniere e consuetudini plebee: per esempio, quando una
discussione lo interessava, accavallava le gambe e si prendeva la scarpa in
mano; se l'interessamento cresceva, stendeva sulla gamba il suo gran fazzoletto
di color rosso; e cosí via. Il principe si era divertito assai allo scherzo
d'una delle piú belle signore della borghesia che, sapendo anche di avere una
gamba assai ben tornita, s'era messa a imitar l'elegante atteggiamento del
ministro della giustizia.
Il Rassi sollecitò
un'udienza straordinaria, e disse al principe:
— Vostra Altezza vuole
spendere centomila lire per saper con certezza di che specie di malattia è
morto il suo augusto genitore? Con questa somma la giustizia potrebbe essere in
grado anche di scoprire i colpevoli, se ce ne sono.
La risposta non poteva
esser dubbia.
Qualche giorno dopo la Checchina avvertí la duchessa che le avevano offerto una grossa somma perché lasciasse
esaminar da un orefice i diamanti della sua signora: ella si era ricusata
sdegnosamente. La duchessa la rimproverò d'aver rifiutato; e dopo otto giorni la Checchina ebbe i diamanti da far esaminare. Il giorno medesimo il conte Mosca mise due uomini
fidati presso ciascuno degli orefici di Parma, e la sera andò a raccontare
all'amica che l'orefice curioso non altri era che il fratello del Rassi. La
duchessa era quella sera di buon umore. Si dava una commedia dell'arte (nella
quale il solo intreccio è stabilito e affisso tra le quinte: il dialogo lo
inventano via via i personaggi stessi). La duchessa, che vi recitava, vi aveva
per amoroso il conte Baldi, ex-amante della Raversi, la quale stava tra gli
spettatori. Il principe, per quanto timidissimo, ma bel ragazzo e di molto
tenero cuore, studiava la parte del Baldi per farla lui in una seconda
rappresentazione.
—
Ho fretta: — disse al conte la duchessa — sono di scena proprio al principio del
secondo atto. Passiamo nella sala delle guardie.
E
là, in mezzo a venti guardie del corpo, vigili e attente ai discorsi del primo
ministro e della maggiordoma, ridendo gli disse:
—
Voi mi rimproverate quando io paleso inutilmente dei segreti. Il principe
Ernesto quinto l'ho posto io sul trono: si trattava di vendicar Fabrizio, che
allora io amavo assai piú d'ora, per quanto sempre innocentissimamente.... Son
certa che voi non credete affatto a questa innocenza, ma non importa, poiché mi
amate non ostante i miei delitti. Ebbene, ecco un delitto davvero. Io ho dato
tutti i miei diamanti a un pazzo, Ferrante Palla, e gli ho anche dato un bacio,
perché facesse morir l'uomo che voleva far avvelenare Fabrizio. Che male c'é?
— Ah! ecco dove il Palla
pescò i denari per l'insurrezione — disse il conte un po' stupefatto. — E mi
dite queste cose nella sala delle guardie?!
— Gli è che ho fretta; e
il Rassi è sulle tracce del delitto. Vero è che io non ho mai parlato di
insurrezione, perché detesto i giacobini. Pensate a questo che v'ho detto e
dopo la recita mi direte il vostro parere.
— Vi dico subito che
bisogna inspirar amore al principe... dentro certi limiti, ben inteso...
Chiamavan la duchessa per
l'entrata in iscena. Scappò.
Qualche giorno dopo, la
duchessa ricevé per la posta una lunga lettera insensata, sottoscritta da una
sua antica cameriera, che avrebbe voluto essere impiegata a Corte: ma riconobbe
subito che non era autentica. Nell'aprire il foglio per scorrere la seconda
pagina, vide cadere ai propri piedi una piccola immagine miracolosa della
Madonna, piegata entro un foglio stampato d'un vecchio libro. Gittato uno
sguardo sull'immagine lesse alcune righe dello stampato. Gli occhi le
sfavillarono. Lesse:
«Il tribuno ha preso cento
lire al mese, non piú: col resto ha cercato di ravvivare il fuoco in cuori
gelati dall'egoismo. Ora la volpe è sulle mie tracce: perciò non ho cercato di
rivedere un'ultima volta l'essere adorato. Mi son detto: colei che m'é tanto
superiore d'intelligenza quanto di bellezza e di grazia non ama la repubblica.
E poi: come fare una repubblica senza repubblicani? Son io dunque in errore?
Tra sei mesi percorrerò col microscopio alla mano le piccole città dell'America
e vedrò se debbo amare ancora la sola rivale che Ella abbia nel mio cuore.
«Se questa lettera Le
giunge, e se occhio profano non l'ha prima veduta, faccia spezzare uno dei
piccoli frassini piantati a venti passi di distanza dal punto dove io osai
parlarLe la prima volta: e io farò sotterrare presso alla gran pianta una
cassettina in cui saranno riposte alcune di quelle cose che danno occasione a
calunniare gli uomini del mio partito. Mi sarei astenuto dallo scrivere, se la
volpe non fosse sulle mie tracce e non potesse anche giungere alla creatura
celeste. Frugare sotto al bosso. Fra quindici giorni.»
«Ora che ha una tipografia
a disposizione, — pensò la duchessa — ci darà presto una raccolta di sonetti.
Sa Dio che nome mi affibbierà!»
La civetteria della
duchessa volle far un esperimento: per una settimana si diede malata, e a Corte
non ci furon piú belle serate. La principessa, scandalizzata di tutto ciò che
la paura del suo figliuolo la costringeva a fare proprio nei primi momenti
della vedovanza, andò a passar quegli otto giorni in un convento prossimo alla
chiesa in cui suo marito era sepolto. Questa interruzione delle serate lasciò
al principe una quantità di tempo di cui non seppe che farsi e nocque
notevolmente al credito del ministro della giustizia.
Ernesto V capí anche che
razza di noia lo minacciasse se la duchessa abbandonava la Corte, o soltanto se cessava dall'infonderle vita e gaiezza. Le serate ricominciarono; e il
principe prese sempre piú vivo interesse alle commedie dell'arte. Avrebbe voluto recitarvi una
parte, ma non si arrischiava a confessarlo: finché un giorno, arrossendo come
un collegiale, disse alla duchessa:
— Perché non potrei
recitare anch'io?
— Noi siamo qui tutti agli
ordini di Vostra Altezza; se si degna di comandarmelo, io farò fare uno scenario in cui tutte le scene importanti della sua
parte saranno con me; e siccome le prime volte tutti sono un poco malsicuri, se
Vostra Altezza vorrà guardarmi un po' attentamente le suggerirò io le risposte.
Le
cose furono apparecchiate con molto tatto: il principe, timidissimo, della sua
timidezza si vergognava; e le cure che la duchessa si prese per vincerne gli
sgomenti fecero sul giovine sovrano impressione profonda.
Il giorno del «debutto» lo
spettacolo cominciò una mezz'ora prima del consueto; quando si passò nella sala
dello spettacolo non eran presenti che una decina di signore attempate, le
quali non davan soggezione al principe, e, educate a Monaco di Baviera con veri
principii monarchici, applaudivan sempre. Con la sua autorità di maggiordoma la
duchessa chiuse a chiave l'uscio pel quale entravano i cortigiani di minor
conto. Il principe, che aveva qualche disposizione alla letteratura e una bella
presenza, se la cavò benissimo sin dalle prime scene; e disse molto
intelligentemente le frasi che leggeva negli occhi della duchessa o ch'ella gli
suggeriva a bassa voce. Nel momento in cui i rari spettatori applaudivano
clamorosamente, la duchessa fece un cenno: la grande porta fu spalancata e la
sala fu in un batter d'occhio occupata da tutte le piú leggiadre dame della
Corte, che mirando e ammirando la simpatica figura del principe e l'aria di
contentezza che gl'illuminava la faccia, applaudirono subito: il principe
diventò rosso dalla gioia. Recitava una parte d'innamorato della duchessa:
invece di suggerirgli le parole, ben ella dové dopo poco invitarlo ad abbreviare
le scene: egli parlava d'amore con una foga che qualche volta la metteva in
imbarazzo. Le sue battute durarono cinque minuti. Lei non aveva piú la
sfolgorante bellezza dell'anno avanti: la prigionia di Fabrizio, e, peggio, il
soggiorno sul lago Maggiore, con lui divenuto taciturno e cupo, avevan dato
alla bella Gina dieci anni di piú. Ne' suoi lineamenti accentuatisi c'era piú
anima e meno gioventú. Di rado rispecchiavano una serena giocondità, ma sulla
scena, con un po' di carminio e gli aiuti che l'arte fornisce alle attrici,
ella appariva pur sempre la piú bella signora della Corte. E gli sproloqui
passionatissimi sperperati da Sua Altezza fecero dire a parecchi: — Ecco la Balbi del nuovo regno. — Il conte ebbe un'intima ribellione.
Finita la commedia, la
duchessa disse al principe in presenza di tutti:
— Vostra Altezza recita
troppo bene: diranno che è innamorato davvero d'una donna di trentotto anni; e
questo comprometterebbe il mio matrimonio col conte Mosca. Cosí io non reciterò
piú, a meno che Vostra Altezza non mi prometta di rivolgermi la parola come a
una donna d'una certa età; per esempio, alla signora marchesa Raversi.
La commedia fu replicata
tre sere: il principe era al settimo cielo; ma una volta si mostrò assai
preoccupato.
— O mi sbaglio di grosso,
— disse la Sanseverina alla principessa — o il Rassi ci prepara qualche brutto
tiro: io consiglierei Vostra Altezza di indicare uno spettacolo per domani: il
principe reciterà male e può darsi che, nel suo dispiacere, le dica qualche
cosa.
Il principe recitò infatti
a cosí bassa voce, che quasi non si sentiva: per giunta non riusciva a terminar
le sue frasi. Alla fine del primo atto aveva quasi le lagrime agli occhi: la
duchessa gli stava accanto, ma fredda e immobile. Rimasto un momento solo con
lei, le disse:
— Non è possibile ch'io
reciti il secondo e il terz'atto: io non voglio applausi di condiscendenza:
quelli di stasera mi umiliavano. Consigliatemi: che si può fare?
— Io torno in iscena; fo una
bella riverenza a Sua Altezza, una al pubblico, e dico che l'attore che faceva
la parte di Lelio è colto da una indisposizione improvvisa, e che lo spettacolo
finirà invece con un po' di musica. Il conte Rusca e la piccola Ghisolfi saran
felicissimi di far udire le loro stridule vocette a una cosí elegante
assemblea.
Il principe le prese la
mano e la baciò con fervore.
— Ah! perché lei non è un
uomo! — le disse — mi darebbe un consiglio: il Rassi mi ha portato
centottantadue deposizioni contro i presunti assassini di mio padre, e un atto
d'accusa di piú che ducento pagine. Mi bisognerà pur leggere tutta questa roba:
e ho data la mia parola di non dirne nulla al conte Mosca. Tutto questo mena
dritto dritto a pene capitali: già pretende ch'io faccia acchiappare in
Francia, ad Antibo, Ferrante Palla, un gran poeta che ammiro, e che si nasconde
là sotto il nome di Poncet.
— Il giorno in cui Vostra
Altezza farà impiccare un liberale, legherà il Rassi al Ministero con catene di
ferro, ed è questo ciò ch'egli vuole. Ma Vostra Altezza non potrà piú far
sapere dove andrà a passeggio due ore prima di muoversi. Io non dirò nulla né
alla principessa né al conte Mosca di questo grido di dolore che le è sfuggito;
ma, poiché il mio giuramento mi vieta di aver segreti per la principessa madre,
sarò riconoscentissima a Vostra Altezza se si degnerà ripetere a sua madre quel
che ha detto ora a me.
Questa idea fece
diversione al rammarico di attore zittito che travagliava l'animo del sovrano.
— Ebbene, vada ad avvertir
mia madre: io l'attenderò nel suo gabinetto.
Uscí dalle quinte,
traversò il salone d'accesso al teatro, rimandò un po' duramente il gran
ciambellano e il primo aiutante di campo che lo seguivano; al tempo stesso che
dal canto suo la principessa se ne andava dalla sala frettolosamente. Com'ella
fu nel suo gran gabinetto, la maggiordoma fece un profondo inchino e lasciò
sole le Loro Altezze. S'indovina l'agitazione della Corte: son questi appunto
gli episodi che la fanno cosí divertente. Dopo un'ora, il principe in persona
si presentò sull'uscio del gabinetto e chiamò la duchessa: la madre era in
lagrime, il figlio era sconvolto nella fisionomia.
«Ecco della gente debole
di mal umore, — pensò la duchessa — che cerca pretesti per prendersela contro
qualcuno.»
Madre e figlio da
principio si contrastarono la parola per ragguagliare la duchessa: questa pose
ogni studio a non manifestare la menoma idea. Per due lunghissime ore, ciascuno
dei tre attori di questa scena noiosa seguitò a recitar la parte che s'era
imposta: poi il principe stesso andò a cercare i due grossi portafogli che il
Rassi aveva deposto sulla sua scrivania; all'uscire dal gabinetto di sua madre
trovò tutta la Corte che lo aspettava.
— Andatevene, lasciatemi
in pace! — sclamò con tono sgarbato, che non aveva usato mai. Non voleva esser
visto portare da sé i due portafogli: un principe non deve portar mai nulla.
Tutti si dileguarono in un lampo: e tornando sui propri passi il principe non
vide altri che i camerieri che spegnevano i lumi: li rimandò furioso, e rimandò
il general Fontana, aiutante di campo di servizio, che aveva avuto la
balordaggine di restare.
— Ma fan tutti a bella
posta per farmi perder la pazienza stasera! — disse alla duchessa rientrando
nel gabinetto. La credeva molto intelligente, ed era irritatissimo perché
evidentemente di proposito s'ostinava a non dir nulla: era da parte sua decisa
a non esprimere un'opinione qualsiasi, se non ne fosse espressamente richiesta. Passò cosí un'altra eterna
mezz'ora, prima che il principe, che aveva il sentimento del proprio decoro, si
inducesse a dirle:
— Ma lei, signora, non
dice nulla?
— Io son qui per servire
la principessa e per dimenticar subito ciò che si dice in mia presenza.
— Ebbene, signora
duchessa, io le ordino di esprimere la sua opinione.
— I delitti si puniscono
per impedire che si ripetano. È vero che il compianto principe è stato
avvelenato? La cosa è assai dubbia. È stato avvelenato dai giacobini? Il Rassi
si studia di provarlo, perché, se ciò fosse vero, egli diventerebbe per Vostra Altezza
uno strumento indispensabile. In questo caso, Vostra Altezza, che è agli inizi
del suo regno, si può ripromettere parecchie serate come questa. I suoi sudditi
sono concordi nel riconoscer la vera bontà dell’animo nella Altezza Vostra: fin
ch'ella non avrà fatto impiccar qualche liberale, godrà di una tale reputazione
e può star sicura che nessuno penserà ad avvelenarla.
— La conclusione è chiara:
— disse la principessa irritata — lei non vuole che sian puniti gli assassini
di mio marito.
— Forse perché, a quanto
pare, io sono a loro legata da cordiale amicizia.
La duchessa leggeva negli
occhi del principe ch'egli la credeva d'accordo con sua madre per tracciargli
una linea di condotta. Tra le due dame ci fu in seguito un rapido scambio di
vere botte e risposte: dopo di che, la duchessa protestò che non avrebbe piú
aperto bocca. E cosí fece: se non che il principe, dopo una discussione lunga
con sua madre, le comandò ancora di dire il suo parere.
—
Ah, questo giuro a Vostra Altezza che non lo farò!
—
Ma queste son picche da ragazzi — rispose il principe. E la principessa con
molta dignità:
—
Duchessa, la prego di parlare.
—
Altezza, la supplico di dispensarmene. — Poi, volta al principe: — Ma Vostra
Altezza legge benissimo il francese: per calmare i nostri spiriti un po'
turbati, vuol aver la bontà di leggerci
una favola del La Fontaine?
Alla
principessa quel ci parve assai
impertinente, ma le piacque il sangue freddo con cui la sua maggiordoma andò
verso lo scaffale, ne trasse il volume delle Favole del La Fontaine, lo sfogliò un momento, e disse, presentandolo aperto:
—
Prego Vostra Altezza di legger tutta la favola.
Era
Le jardinier et son seigneur (e
noi la daremo per letta, perché la storiella del giardiniere che, per liberarsi
da una lepre, ha l'orto devastato dai cacciatori e da' cani, e ha piú danni in
un'ora di quanti n'avrebbero fatti in un secolo tutte le lepri della provincia,
è notissima).
Seguí
alla lettura un lungo silenzio. Il principe rimise a posto il volume e cominciò
a passeggiare.
—
Ora, — disse la principessa — la signora duchessa si degnerà di parlare?
— No davvero, finché Sua
Altezza non mi avrà nominato ministro: se parlo qui, rischio di perdere il mio
posto di maggiordoma!
Nuovo silenzio d'un lungo quarto
d'ora: la principessa pensava a Maria de' Medici, madre di Luigi XIII: i giorni
precedenti la maggiordoma aveva fatto leggere dalla dama di compagnia l'ottima Storia di Luigi XIII del Bazin. Per quanto molto
irritata, la principessa pensò che la duchessa avrebbe potuto andarsene da
Parma, e allora il Rassi, che le faceva una paura orribile, avrebbe anche
potuto imitare il Richelieu e farla esiliare dal figliuolo. In quel momento la
principessa avrebbe dato non si sa che per umiliar la sua maggiordoma; ma non
poteva. Si alzò e andò, con un sorriso un po' esagerato, a prender la mano
della duchessa.
— Su via, signora: mi dia
una prova del suo affetto, e parli.
— Ebbene, due parole sole:
bruciare in questo caminetto tutte le carte messe assieme da quella vipera del
Rassi, e non dirgli mai che sono state bruciate.
E aggiunse a bassa voce
all'orecchio della principessa:
— Il Rassi può esser
Richelieu!
— Ma come! Quelle carte mi
costano piú d'ottantamila lire — sclamò il principe inquieto.
— Principe, — rispose con
energia la duchessa — ecco dove si arriva servendosi di scellerati di bassa
estrazione! Voglia Dio che Vostra Altezza abbia a perdere un milione, e non
aver fiducia mai piú in infime canaglie che hanno impedito a suo padre di
dormire durante gli ultimi sei anni di regno.
Le parole «bassa
estrazione» piacquero immensamente alla principessa, alla quale il rispetto
quasi esclusivo che il conte Mosca e l'amica sua professavano per l'ingegno
pareva un po' parente del giacobinismo.
Nel breve silenzio che seguí,
l'orologio di palazzo sonò le tre. La principessa si alzò, fece una profonda
riverenza al figliuolo, e gli disse:
— La mia salute non mi
consente di tirar piú in lungo questa discussione: mai piú ministri di bassa
estrazione. Nessuno mi leverà di mente che il vostro Rassi ha rubato la metà di
quel che ha fatto spendere in spionaggi. — Poi prese dal candelabro due
candele, le pose entro al caminetto in modo che non si spegnessero, e,
accostandosi al figlio, soggiunse: — La favola del La Fontaine la vinca sul giusto desiderio di vendicare uno sposo. Mi permette Vostra Altezza di
bruciare questi scartafacci?
Il principe non fiatò né
si mosse.
«Ora ha proprio un viso di
stupido; — pensò la duchessa — ha ragione il conte: il padre non ci avrebbe
fatto vegliare fino alle tre, prima di decidersi!»
La principessa, sempre in
piedi, continuò:
— Come monterebbe in
superbia questo avvocatuccio se sapesse che questi fogliacci pieni sa Dio di
che bugie e messi assieme per assicurarsi la sua carriera han fatto passare una
notte ai due maggiori personaggi dello Stato!
Il principe si buttò come
un pazzo furioso sopra un de' due portafogli e ne rovesciò il contenuto nel
caminetto: quella massa di fogli per poco non spense le candele, e la stanza
s'empí di fumo. La principessa scorse negli occhi del figliuolo la tentazione
di prendere una bottiglia d'acqua e salvar quelle carte che gli costavano
ottantamila lire; volta alla duchessa, e come stizzita, gridò:
— Apra quella finestra.
Quella obbedí subito, e le
carte arsero all'istante: il camino rombava; dopo un istante si capí che aveva
preso fuoco.
Il principe, quando si
trattava di denaro, temeva sempre che il terreno gli mancasse sotto i piedi.
Gli parve di vedere in fiamme il palazzo e distrutti i tesori che v'erano accumulati:
corse alla finestra e con voce alterata chiamò la guardia. I soldati corsero in
disordine nel cortile appena udita la voce del principe, il quale tornò al
caminetto, dove l'aria spinta dalla finestra faceva una romba veramente
spaventosa. S'impazientí, fece due o tre giri per la stanza, sacramentando,
come fuori di sé, e uscí finalmente di corsa.
La principessa e la
maggiordoma rimasero in piedi l'una in faccia all'altra, in silenzio.
«Ricomincian le furie? —
pensò la duchessa. — Ma ormai ho causa vinta.» E si preparava a essere
impertinentissima nel colloquio che stava per continuare quando adocchiò
l'altro portafogli intatto. «No, non è vinta che a mezzo.» E volta freddamente
alla principessa:
— Comanda Vostra Altezza
che anche queste carte sieno bruciate?
— E come vuol fare a
bruciarle? Dove? — domandò l'altra imbronciata.
— Nel camino del salotto:
se si buttano sul fuoco a una a una non c'é pericolo.
Mise sotto il braccio il
portafogli zeppo di carte, prese una candela e passò nella stanza accanto. Fece
in tempo a vedere che conteneva le deposizioni; avvoltò nello scialle cinque o
sei pacchi, bruciò gli altri molto accuratamente, e se ne andò senza prender
commiato dalla principessa.
«È
un'impertinenza; — pensò — ma costei, con quelle sue arie di vedova
inconsolabile, poco è mancato non mi abbia fatto lasciar la testa sopra un
patibolo.»
All'udir il rumore della
carrozza della duchessa, la principessa montò in furia.
Non ostante l'ora
indebita, la duchessa fece chiamare il conte; era accorso a palazzo, per
l'incendio, ma ne tornò subito con la notizia che era ormai spento.
—
Questo principino ha mostrato veramente del coraggio, e me ne son felicitato
con lui.
— Esaminate subito queste
carte; e bruciamole.
Il conte lesse e
impallidí.
— Per Bacco, erano sulla
buona strada! E la procedura è imbastita bene. Sono sulle tracce del Palla, e
s'egli parla avremo del filo da torcere.
— Non parlerà: è un uomo
d'onore; presto, bruciamo, bruciamo!
— No, ancora no:
lasciatemi prendere i nomi di dodici o quindici testimoni pericolosi, che farò
accalappiare se mai il Rassi si provasse a ricominciare.
—
Ricordatevi che il principe ha dato la sua parola di non dir nulla di questi
fatti al ministro della giustizia.
— Per pusillanimità e per
evitare una scenata, la manterrà.
— Amico mio, stanotte si
son fatti gran passi verso il nostro matrimonio: non avrei voluto portarvi in
dote un processo criminale; e per una colpa commessa a benefizio di un altro.
Il conte sempre piú
innamorato le prese la mano: aveva le lagrime agli occhi.
— Prima d'andarvene,
ditemi come mi ho da regolare con la principessa. Sono sfinita di stanchezza;
ho dovuto recitar la commedia un'ora sul teatro e cinque ore nel gabinetto.—
Con l'esservene andata senza neanche salutare vi siete vendicata abbastanza
delle piccole stoccate della principessa, che non furono, in fondo, che segni
ed effetti della sua debolezza. Domani riprendete con lei il tono solito: il
Rassi non è ancora in prigione o in esilio, e la sentenza di Fabrizio non l'abbiamo
ancora lacerata. Voi volevate stanotte che la principessa pigliasse una
decisione; e questo mette sempre in malumore i principi... e anche i primi
ministri. Eppoi, voi siete la maggiordoma, siete, cioé, al suo servizio. Per
uno di quei voltafaccia consueti nella gente debole, fra tre giorni il Rassi
sarà piú in auge che mai; e cercherà di far impiccare qualcuno: finché non ha
compromesso il principe, non si sente sicuro.
«Nell'incendio di questa
notte c'é stato un ferito: è un sarto, che ha dato prove d'un coraggio
veramente straordinario. Domani inviterò il principe a fare una visita a questo
sarto, andandovi a piedi a braccetto con me. Sarò armato fino ai denti e starò
all'erta: del resto nessuno oggi odia il principe. Voglio abituarlo a
passeggiare per la strada: è un tiro che preparo al Rassi, che di certo mi
succederà, e non potrà piú permettere tale imprudenza. Nel tornare dalla casa
del sarto, farò passare il principe davanti alla statua di suo padre; osserverà
che alcune sassate hanno spezzato un lembo della toga romana, in cui quel
balordo di scultore l'ha ravvoltolato. Dovrebbe essere addirittura uno scemo se
non arrivasse da sé a pensare: "Ecco cosa si guadagna a far impiccare i
giacobini", alla quale osservazione io risponderò: "Bisogna o impiccarne
diecimila o nessuno: la notte di San Bartolomeo ha distrutto per sempre il
protestantismo in Francia."
«Domani, amica mia, prima
di questa passeggiata, fatevi annunziare al principe, e ditegli: "Ieri
sera io ho fatto con Vostra Altezza l'ufficio di ministro: obbedendo ai suoi
ordini le ho dato un consiglio, e ho fatto dispiacere alla principessa. Bisogna
che Vostra Altezza mi ricompensi". Di certo s'aspetterà una domanda di
denari, e s'abbuierà: lasciatelo in questo dubbio piú che potete, poi ditegli: "Io
prego Vostra Altezza di ordinare che Fabrizio Del Dongo sia giudicato in contraddittorio (che vuol dir lui presente) dai
giudici piú stimati dello Stato". E senza perder tempo presentategli, da
firmare, un'ordinanza scritta dalla vostra bella mano e che ora vi detterò. Si
capisce che vi inserirò la clausola che la prima sentenza è annullata. Farà
forse una obiezione: ma se voi spingete con calore, può essere che non gli
venga in mente. Potrebbe dire: "Bisogna che il signor Del Dongo si
costituisca prigioniero in cittadella". Ditegli che si costituirà nelle
prigioni di città (sapete che dipendono da me e Fabrizio potrà venir ogni sera
a trovarvi). Se il principe risponde: "No: egli ha con la fuga fatto
scorno alla mia cittadella, e voglio che per la forma torni nella stanza donde
scappò" dite a vostra volta di no, perché Fabrizio sarebbe in balia del
Rassi, vostro nemico; e, con una di quelle frasette che sapete cosí bene
comporre, fategli capire che per indurre il Rassi a piegarsi, voi potreste
raccontargli l'auto-da-fé di stanotte: se insiste, soggiungete che
andate in campagna a Sacca per una quindicina di giorni. «Bisognerà che
facciate chiamar Fabrizio e lo consultiate su questo passo che può riportarlo
in prigione. Per preveder tutto: se intanto ch'egli è dentro, il Rassi,
impaziente, mi fa avvelenare, Fabrizio può correr qualche pericolo. Ma è poco
probabile: ho fatto venire un cuoco francese, allegro compare e dilettante di
freddure: la freddura è incompatibile con l'assassinio. A Fabrizio ho detto già
di aver trovato gente la quale attesta dell'azione sua bella e generosa. Il
Giletti lo aggredí per ucciderlo, e gli ci volle il suo coraggio a difendersi.
Non vi ho mai parlato di questi testimoni, perché avrei voluto farvi una
sorpresa, ma tutto andò a monte, perché il principe non volle firmare. Ho anche
detto a Fabrizio che certamente gli procurerò un posto elevatissimo nella
gerarchia ecclesiastica: tuttavia dovrei faticar molto a spuntarla, se i suoi
nemici potessero produrre contro di lui nella Corte di Roma un'accusa di
assassinio. Voi capite bene che, se non interviene giudizio solenne, questa
storia del Giletti gli darà delle noie per tutta la vita. Sarebbe stolta
pusillanimità il temere un giudizio, quando si ha la certezza di essere innocenti.
D'altra parte, se pur fosse colpevole, lo farei assolvere nello stesso modo.
Quando gliene parlai, il fervido giovinotto non mi lasciò neanche finire: prese
l'almanacco ufficiale, e insieme vi scegliemmo dodici giudici, i piú dotti e i
piú onesti: poi ne cancellammo dalla lista sei per sostituirli con altrettanti
giureconsulti a me avversi: e siccome non potei trovarne degli avversi che due,
cosí ficcammo nella lista quattro bricconi della cricca del Rassi.»
Questa
proposta del conte mise in isgomento la duchessa e non senza perché; alla fine
s'arrese alla ragione e, sotto dettatura del ministro, scrisse l'ordinanza che
nominava i giudici.
Il conte la lasciò alle
sei della mattina; lei si provò a dormire, ma non poté. Alle nove fece
colazione con Fabrizio, che ardeva dal desiderio del processo; alle dieci andò
dalla principessa che non era visibile, alle undici passò dal principe il quale
sottoscrisse l'ordinanza senza la menoma obiezione: la duchessa la mandò al
conte e si mise a letto.
Sarebbe divertente
raccontare i furori del Rassi, quando il conte gli fece davanti al sovrano
controfirmar l'ordinanza che questi aveva già sottoscritta il mattino; ma gli
avvenimenti c'incalzano.
Il conte discusse a uno a
uno i meriti di ciascuno dei giudici, e offrí anche di mutare qualche nome: ma
il lettore è probabilmente ormai stanco di tutti questi ragguagli procedurali,
di tutti questi intrighi di Corte, dai quali si può dedurre questa morale: che
l'uomo il quale s'accosta a una Corte compromette la sua felicità, se è felice;
e, a ogni modo, si riduce a far dipendere il proprio avvenire dai raggiri d'una
cameriera.
D'altra
parte in America, con la repubblica, si è obbligati ad annoiarsi tutto il
giorno a far la corte ai rivenduglioli del quartiere e a diventar bestie come
loro; e la sera non c'é teatro di musica!
La duchessa, levandosi sul
tardi, ebbe un momento di viva inquietudine: non si riusciva a trovar Fabrizio
in nessun luogo: finalmente, verso mezzanotte, durante un ricevimento a Corte,
le portarono un suo biglietto. Invece di andare a costituirsi nella prigione di
città, secondo il convenuto, era tornato nella sua antica stanza in cittadella,
troppo felice di poter essere, comunque, vicino a Clelia.
Il fatto era tale da
produrre considerevoli effetti: lassú egli era piú che mai esposto
all'avvelenamento. Quella follia ridusse alla disperazione la duchessa che non
pertanto poté perdonarne la causa: l'amore per Clelia, amore insensato ormai
poiché fra pochi giorni Clelia sarebbe andata sposa al marchese Crescenzi. Con
tutto ciò quella pazzia restituí a Fabrizio tutto il dominio ch'egli aveva già
esercitato sull'anima della duchessa.
«E
son io che lo farò morire con quel maledetto foglio che sono andata a far
firmare! Ma come son pazzi gli uomini con le loro idee di onore! Come se si
potesse pensare all'onore in questi governi assoluti, e in un paese dove un
Rassi è ministro della giustizia! Bisognava senza tanti scrupoli accettare la
grazia, che già il principe l'avrebbe firmata come ha firmato la convocazione del
tribunale straordinario. In fin dei conti, che importa che un uomo come
Fabrizio, del suo grado e della sua casata, sia piú o meno accusato d'aver
ucciso da sé, spada in pugno, un istrione come il Giletti?»
Appena ricevuto quel
biglietto, la duchessa corse dal conte e lo trovò pallidissimo.
— Amica mia, con quel
ragazzo son proprio disgraziato! E voi la prenderete con me. Posso provarvi che
ieri feci chiamare il carceriere della prigione di città: era stabilito che
ogni sera vostro nipote sarebbe venuto a pigliare il the da voi. Il peggio è
che non è possibile né a voi né a me dire al sovrano che s'ha ragione di temere
il veleno, e un veleno somministrato dal Rassi: questo sospetto gli parrebbe il
colmo dell'immoralità. Ciò non ostante, se volete, io son pronto ad andare a
palazzo; ma so già la risposta.
«Vi dirò di piú: v'offro
un mezzo che adopererei se si trattasse di me. Da quando sono al potere qui,
non ho fatto morire un sol uomo: e voi sapete che sotto questo rapporto io son
cosí sciocco da pensare ancora qualche volta, sulla sera, a due spie che feci
fucilare, forse un po' alla leggera, in Ispagna. Ebbene: volete ch'io vi liberi
dal Rassi? Il pericolo ch'egli fa correre a Fabrizio è grave: egli sa che
questo è un modo di farmi sloggiare».
La proposta piacque
immensamente alla duchessa, ma non l'accettò.
— No, io non voglio che
nel nostro asilo, sotto quel bel cielo di Napoli, voi abbiate sulla sera idee
nere....
— Ma, amica mia, qui non
si può scegliere che tra idee nere! Che sarà di voi, e di me, se una malattia
ci porta via Fabrizio?
La discussione durò a
lungo, finché la duchessa disse per concludere:
— Il Rassi deve la vita
all'amore che ho per voi, maggiore che per Fabrizio: no, io non voglio
avvelenare tutte le sere della nostra vecchiaia, che dovremo passare insieme.
Corse alla cittadella: il
general Fabio Conti fu felice di poterle opporre le tassative disposizioni
delle leggi militari: «Nessuno può entrare in una prigione di Stato senza un
ordine firmato dal sovrano».
— Ma il marchese Crescenzi
viene ogni sera coi suoi musici.
— Ho ottenuto per loro il
permesso del principe.
La povera duchessa neppure
s'immaginava la gravità dei propri casi. Il generale si considerava come
personalmente disonorato dalla fuga di Fabrizio: quando lo vide tornare nella
cittadella avrebbe dovuto non riceverlo, perché appunto non aveva alcun ordine
in proposito. Ma pensò: «Il cielo me lo manda, affinché sia fatta riparazione
al mio onore e mi sia tolto di dosso il ridicolo che macchierebbe la mia
carriera militare. Non mi lascerò sfuggire l'occasione! Certamente lo
assolveranno: la mia vendetta non ha che pochi giorni a sua disposizione».
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