XXV
L’improvviso ritorno del
nostro eroe nella cittadella fu per Clelia cagione di nuove e penosissime angustie.
La povera figliuola pia e sincera con se stessa non poteva dissimularsi che
lontana da Fabrizio non avrebbe potuto mai esser felice: ma quando temé per il
semi-avvelenamento di suo padre fece voto alla Madonna di compiere il
sacrifizio che questi le chiedeva e sposare il marchese Crescenzi.
Aveva anche fatto voto di
non piú rivedere Fabrizio e già troppo la tormentava il rimorso della
confessione alla quale s'era lasciata andare nella lettera a Fabrizio prima
della sua fuga.
Chi
saprà dire come fu scosso il suo cuore quella mattina in cui, intenta
malinconicamente a guardare lo svolazzío de' suoi uccelletti, nell'alzare per
abitudine gli occhi verso la finestra dalla quale Fabrizio un tempo la
contemplava, lo vide ancora lassú in atto d'affettuoso saluto?
Pensò a una visione che il
Cielo permetteva per punirla; poi l'orribile realtà le si presentò alla
ragione. «L'han ripreso, è finita!» Le tornarono in mente i discorsi uditi
nella cittadella dopo la fuga: tutti fino all'ultimo de' carcerieri si consideravano
offesi mortalmente. Lo guardò e a suo malgrado quel solo sguardo disse tutta la
passione che la straziava. «Credi tu — pareva gli dicesse — ch'io troverò la
felicità nel sontuoso palazzo che mi preparano? Mio padre mi ha ripetuto a
sazietà che sei povero come noi: oh, come sarei felice in questa povertà! Ma
ahimé! non dobbiamo rivederci mai piú.»
Non ebbe la forza di usar
gli alfabeti: venne meno e cadde su una seggiola posta nel vano della finestra:
il suo viso era appoggiato al davanzale, e volto verso Fabrizio che lo vedeva
in pieno. Quando, qualche momento dopo, ella rinvenne, il suo primo sguardo fu
per Fabrizio e lo vide con gli occhi in lagrime. Eran di gioia, perché, non
ostante la lunga assenza, ella non s'era scordata di lui.
I due giovani restaron
qualche tempo come affascinati l'uno alla vista dell'altro: poi Fabrizio
s'arrischiò a cantare, come se si accompagnasse con la chitarra, alcune parole
improvvisate che dicevano: «Per rivedervi son tornato qui; e rifaranno presto
il mio processo». Questo canto parve risuscitare tutte le virtú di Clelia, che
si levò, si coprí gli occhi, e cercò d'esprimergli a gesti ch'ella non doveva
rivederlo: ne aveva fatto voto alla Madonna, e lo aveva guardato per
dimenticanza. Ma poich'egli osò dir ancora del suo amore, fuggí indignata e
ripeté a se stessa il giuramento di non vederlo piú. Queste erano infatti le
parole precise del voto: I miei occhi
non lo rivedranno piú mai. Le aveva scritte in un foglio che don Cesare le
aveva promesso di bruciar sull'altare, all'offertorio, mentre celebrava la
messa.
Ma, a malgrado dei
giuramenti, quel ritorno nella torre Farnese l'aveva ricondotta a tutte le
antiche consuetudini: passava di solito le sue giornate sola in camera sua;
appena rimessa del turbamento che le aveva causato quell'imprevista apparizione
di Fabrizio, si diede a girar pel palazzo e, per dir cosi, a rinnovar le
conoscenze con tutti i subalterni che le erano affezionati. Una vecchia
chiacchierona, in cucina, le disse con aria di mistero:
— Questa volta il signor
Fabrizio non scapperà.
— Certo, non farà piú
l'errore di scappare in quel modo! Uscirà dalla porta se è assolto.
— Io le dico, e glielo
posso dire, che uscirà dalla cittadella coi piedi avanti.
Clelia impallidí; la
vecchia se n'avvide e tagliò corto alle chiacchiere. S'accorse d'aver commesso
un'imprudenza nel parlar cosí alla figlia del governatore, la quale avrebbe
avuto poi il dovere di dire a tutti che il prigioniero era morto di malattia.
Nel risalire alle proprie
stanze, Clelia incontrò il medico della prigione, un brav'uomo timido, il quale
le disse con aria sgomenta che quel signor Del Dongo era ammalato assai
gravemente. Ella stentò a reggersi in piedi: cercò dello zio, e finalmente lo
trovò nella cappella, dove pregava con fervore: aveva il viso sconvolto. Sonò
l'ora del pranzo: a tavola nessuno parlò; soltanto verso la fine il generale
rivolse qualche parola aspra a don Cesare: questi guardò i servitori, che
uscirono.
—
Generale, — disse don Cesare — ho l'onore di prevenirti che io lascio la
cittadella: do le mie dimissioni.
— Bravo, benissimo!... Per
far che i sospetti cadano anche sopra di me. E perché, se è lecito?
— La mia coscienza....
— Tu sei un pretonzolo:
non capisci nulla di ciò che si chiama «l'onore».
«Fabrizio è morto! — pensò
Clelia — lo hanno avvelenato di già o sarà per domani.» Corse all'uccelliera,
decisa a cantare, accompagnandosi al piano. «Mi confesserò, — pensava — e mi
sarà perdonata l'infrazione d'un voto per salvar la vita d'un uomo.» Quale la
sua costernazione quando, giunta nell'uccelliera, vide che al posto delle
tramogge avevan messo delle tavole alternate a spranghe di ferro. Desolata,
tentò di avvertire il prigioniero con parole piuttosto gridate che cantate. Non
ebbe risposta: un silenzio di morte regnava nella torre Farnese. «È finita!»
pensò. E scese, fuori di sé, risalí per prendere il poco denaro che aveva, e
due orecchini di diamanti; passando, prese anche il pane rimasto del desinare,
e che era stato riposto nella credenza. «Se è ancora vivo, il mio dovere è di
salvarlo.» Mosse con aria altéra verso la porticina della torre: era aperta:
per la guardia, otto soldati erano stati posti nella sala delle colonne a
terreno. Squadrò i soldati: aveva fatto conto di rivolgersi al sergente che li
comandava: non c'era: si slanciò su per la scala a chiocciola. I soldati la
guardarono sbigottiti, ma forse per rispetto allo scialle di trina e al
cappello, non osarono dirle nulla. Al primo piano non c'era nessuno; al
secondo, sull'entrata del corridoio che conduceva alla stanza di Fabrizio,
trovò un secondino sconosciuto, che le disse con aria smarrita:
— Non ha desinato ancora.
— Lo so — rispose Clelia
alteramente.
E quegli non osò fermarla.
Venti passi piú in là, sul primo dei sei gradini di legno che mettevano nel gabbiotto
di Fabrizio, un altro secondino, vecchio e arrogante, le chiese risoluto:
— Signorina, ha un ordine
del governatore?
— Ma che? non mi
conoscete?
Si sentiva animata quasi
da una forza soprannaturale, ed era fuori di sé. «Io debbo salvar mio marito»
pensava.
E intanto che il vecchio
gridava: — Ma il mio dovere non mi permette... — ella salí rapida i sei
gradini, si precipitò all'uscio: una chiave enorme era nella toppa, e per farla
girare ebbe bisogno di tutte le sue forze. In quel punto il vecchio, mezzo
ubriaco, le afferrò un lembo del vestito: ma ella entrò, richiuse la porta,
lasciando che il vestito si strappasse, e, poiché il carceriere spingeva, tirò
il catenaccio. Nel gabbiotto, vide Fabrizio seduto davanti a una piccola
tavola, dov'era il suo pranzo; afferrò la tavola, la rovesciò, e presolo poi
per un braccio, gli chiese:
— Hai mangiato?
Al sentirsi dare del tu
Fabrizio ebbe un sussulto di gioia. Per la prima volta le avveniva di francarsi
dal ritegno femminile e di svelare la sua passione. Fabrizio stava appunto per
cominciare il pranzo fatale: la prese tra le braccia e la tempestò di baci. «Il
desinare è certamente avvelenato; — pensò — se le dico che non l'ho assaggiato,
la religione ripiglia il sopravvento, e Clelia fugge: se invece mi considera
come un moribondo, non mi lascerà. Lei cerca il modo di rompere quel detestato
matrimonio: il caso ce lo fornisce. I carcerieri si aduneranno, sfonderanno la
porta e ne scoppierà tale scandalo che, molto probabilmente, il marchese
Crescenzi se ne sgomenta e manda a monte le nozze.»
Nel breve istante di
silenzio che queste riflessioni durarono, sentí già ch'ella cercava sfuggirgli.
— Non provo ancora nessun
dolore: — le disse — ma non tarderanno a farmi cadere a' tuoi piedi. Aiutami a
morire.
— O amico mio unico, io
morrò con te.
E lo stringeva tra le
braccia convulse, era bellissima, mezzo spogliata in uno stato di tale passione
che Fabrizio cede a un impulso quasi involontario: non gli fu opposta
resistenza di sorta.
Poi, in quel ferver di
passione e di generosità che segue le grandi gioie, le disse:
— Non voglio che una
menzogna macchi i primi istanti della nostra felicità: senza il tuo coraggio, a
quest'ora sarei morto o mi dibatterei tra spasimi atroci; ma io stava per
mettermi a mangiare, quando sei giunta, e non ho ancora toccato nulla.
Ma cominciò a insistere su
immagini spaventevoli, per scongiurar lo sdegno che già le leggeva negli occhi.
Ella lo guardò un momento, combattuta tra due sentimenti violenti ed opposti,
poi gli si gittò tra le braccia.
Si udí un gran rumore pel
corridoio: le porte di ferro erano aperte e richiuse: s'udiva parlare gridando.
— Ah, se avessi armi! —
esclamò Fabrizio — ma me le han fatte consegnare per permettermi di entrar qui.
Vengon di certo per finirmi. Addio, Clelia; io benedico questa morte che ha
data occasione alla mia felicità. — Ella lo abbracciò di nuovo, poi gli diede
un pugnaletto dal manico d'avorio, la cui lama pareva quella d'un temperino.
— Non ti lasciare
uccidere: difenditi fino all’ultimo: se lo zio don Cesare sente rumore,
virtuoso e coraggioso com'é, certo ti salverà. Ma io voglio parlare a questa
gente! — e si precipitò verso la porta. — Ma se non sei ucciso, — continuò
esaltatissima, volgendosi ancora verso lui e tenendo la mano sul catenaccio — lasciati
morir di fame piuttosto che assaggiare una cosa qualsiasi. Prendi questo pane e
serbalo.
Il clamore si avvicinava:
Fabrizio la strinse tra le braccia, prese il posto di lei accanto alla porta, e
apertala con furore, scese d'un salto i sei scalini di legno. Aveva in mano il
pugnaletto, e fu a un punto di forare il panciotto del generale Fontana,
aiutante di campo del sovrano, che dié un passo indietro, esclamando
spaventato:
—
Ma, signor Del Dongo, io vengo a salvarla!
Fabrizio
risalí i sei gradini e disse quando fu nella camera: — Il generale Fontana è
venuto a liberarmi. — Poi, tornato presso il generale, lo pregò di perdonargli
un momento di collera; e spiegò con molta tranquillità come avessero voluto
avvelenarlo: — Quel mio desinare è avvelenato: io ho avuto l'avvedutezza di non
assaggiarlo, ma confesso che questo modo di procedere m'irrita. Quando vi ho
sentito salire, ho creduto che qualcuno venisse per finirmi a sciabolate....
Signor generale, la prego di dar ordine che nessuno entri nella mia camera:
farebbero sparir le prove del veleno, e il nostro buon principe deve saper
tutto.
Il generale, pallido e
interdetto, impartí gli ordini richiesti ai carcerieri che lo seguivano; e
questi, molto confusi al vedere scoperto il tentativo, scesero frettolosamente.
Col pretesto di lasciar libero il passaggio all'aiutante del sovrano in quella
scala strettissima, andarono avanti per sparir dalla scena.
Con
molta meraviglia del Fontana, Fabrizio si fermò quasi un quarto d'ora per la
scala a chiocciola che mette al pianterreno: egli voleva che Clelia avesse
tempo di nascondersi al primo piano.
La duchessa era riuscita
quasi per caso, dopo pratiche lunghe e vane, a far sí che il generale Fontana
fosse spedito alla cittadella. Lasciato il conte Mosca, non meno allarmato di
lei, era corsa a palazzo. La principessa, cui l'energia repugnava perché la
reputava «volgare», la credé impazzita e non si mostrò affatto disposta a fare
per lei qualche tentativo che uscisse dall'ordinario. La duchessa, fuori di sé,
singhiozzava, e non sapeva che ripetere:
—
Ma, signora mia, tra un quarto d'ora Fabrizio sarà morto di veleno.
Al veder la principessa
imperturbabile, diventò pazza di dolore. Non le passò per la mente questa
riflessione morale: sono stata io la prima a usare il veleno, e ora il veleno
mi uccide. Una tale riflessione sarebbe naturalmente venuta a una donna del
nord, cresciuta in quelle forme religiose che ammettono l'esame personale; ma
in Italia, nei momenti di passione, considerazioni di questa specie paion grullerie,
come sarebbe a Parigi una freddura, fatta in simili circostanze.
La duchessa, disperata,
s'arrischiò ad andar nella sala dov'era il marchese Crescenzi, di servizio quel
giorno. Quando lei tornò a Parma, il marchese s'era sdilinquito nel
ringraziarla dell’alto onore ch'ella gli aveva procurato, e al quale, senza di
lei, non avrebbe osato di pretendere. Offerte di servigi non eran mancate da
parte sua.
— Il Rassi sta per fare
avvelenare mio nipote che è in cittadella. Si prenda del cioccolato e una bottiglia
d'acqua, che io le darò; salga alla cittadella e mi salvi la vita, dicendo al
generale Conti, che lei rompe ogni legame con la sua figliola se non le
permette di consegnare lei stesso a Fabrizio questo cioccolato e quest'acqua.
Il marchese impallidí, si
confuse: non poteva credere mai che in una città cosí onesta, sotto un cosí
gran principe... e cosí via: e queste banalità diceva con una lentezza
esasperante. Insomma, la povera duchessa si trovò ad aver da fare con un
galantuomo, sí, ma d'una debolezza incredibile, e che non c'era modo d'indurre
a far qualche cosa. Dopo altre frasi simili interrotte dalle grida impazienti
della Sanseverina, gli venne finalmente questa bella idea: il giuramento
prestato come cavaliere d'onore gl'impediva d'immischiarsi comunque in
macchinazioni contro il governo.
Il tempo volava: la
duchessa con ansia disperata gli gridò:
— Ma almeno andate dal
governatore e ditegli che fino all'inferno io perseguiterò gli assassini di
Fabrizio!
Quella disperazione che
accresceva la naturale eloquenza della duchessa atterrí sempre piú il marchese
e accrebbe la sua indecisione. Dopo un'ora era piú irresoluto di prima.
La povera donna, agli
estremi della disperazione, ed essendo convinta che il Conti non ricuserebbe
nulla a un genero cosí facoltoso, arrivò fino a buttarglisi in ginocchio. E la
pusillanimità del cavaliere d'onore crebbe ancora: a quell'incredibile
spettacolo, temé perfino d'essere egli medesimo compromesso senza sua colpa;
ma, buono in fondo, fu commosso al veder cosí a' suoi piedi una donna tanto
bella e potente.
«Chi sa — gli passò per la
mente — che anch’io, con tutta la mia nobiltà e la mia ricchezza, non debba un
giorno buttarmi ai piedi di qualche repubblicano!» Si mise a smaniare anche
lui, e infine fu stabilito che la duchessa nella sua qualità di maggiordoma lo
condurrebbe dalla principessa e gli otterrebbe il permesso di consegnare a
Fabrizio un panierino, del quale dichiarerebbe di ignorare il contenuto.
La sera innanzi, prima che
la duchessa avesse sentore della follia commessa da Fabrizio con l'andare a
costituirsi in cittadella, avevano recitato secondo il solito una commedia dell'arte e il principe, che riserbava sempre a sé
le parti d'amoroso quando la parte d'amorosa era sostenuta dalla duchessa, s'era
mostrato cosí appassionato parlando del proprio affetto da cader nel ridicolo,
posto che in Italia un uomo appassionato o un principe possa esser ridicolo
mai.
Timido sempre, ma sempre
pigliando assai sul serio le cose d'amore, il principe incontrò in uno dei
corridoi del palazzo la duchessa che trascinava il marchese Crescenzi. Fu
talmente sorpreso e abbagliato da quella bellezza, dalla profonda commozione e
disperazione resa anche piú affascinante, che per la prima volta in sua vita
ebbe una volontà. Con un gesto imperioso congedò il marchese, e si mise a fare
alla Sanseverina una dichiarazione in tutte le regole: doveva averla preparata
da molto tempo, perché disse cose assai ragionevoli.
— Poiché le convenienze
del mio grado mi tolgono la suprema gioia di sposarvi, io vi giurerò sull'ostia
consacrata di non ammogliarmi mai senza averne da voi facoltà per iscritto.
Capisco che vi fo perder la mano di un primo ministro, uomo amabilissimo e
intelligentissimo senza dubbio; ma infine, lui ha cinquantasei anni, e io non
ne ho ancora ventidue. Mi parrebbe di farvi ingiuria e di meritare un rifiuto,
se vi parlassi di vantaggi materiali: tuttavia io so che quanti in Corte si
interessano a quistioni di danaro ammirano la prova d'affetto che il conte vi
dà lasciandovi liberissimamente disporre di tutto il suo. In ciò sarò beato
d'imitarlo: e son certo che della mia fortuna voi farete miglior uso che non io
stesso: e però metto a vostra assoluta disposizione tutte le somme che i
ministri annualmente versano all'intendente generale della Corona per modo che
spetterà a voi determinare la somma che mi sarà mensilmente consentito di
spendere.
Alla duchessa, che stava
sui carboni accesi, tutti questi particolari parevano interminabili: il
pericolo di Fabrizio urgeva.
— Ma Vostra Altezza non sa
dunque — esclamò — che in questo momento avvelenano mio nipote? Lo salvi e
credo tutto.
Non avrebbe potuto esser
piú inabile: al sentire accennare a veleno, tutto l'abbandono, tutta la buona
fede che quel povero principe morale poneva in quella sua dichiarazione, svaní:
la duchessa s'accorse dello sbaglio quando non era piú in tempo a rimediare, e
l'angoscia disperata crebbe ancora. «Se non dicevo nulla del veleno,
m'accordava senz'altro la libertà di Fabrizio.... O caro Fabrizio! ma è dunque
scritto che proprio io con le mie sciocchezze ti debba portare alla rovina?»
Le ci volle tempo assai e
civetteria non poca, per far tornare il principe ai discorsi appassionati: ma
restò pur sempre alquanto scombussolato. Il cervello ragionava, ma il suo cuore
era come gelato dalla realtà del veleno prima di tutto, e poi da quest'altra
realtà altrettanto fastidiosa quanto la prima era terribile: «Dunque nei miei
Stati si propina veleno, senza ch'io lo sappia! Ma questo Rassi vuol
disonorarmi davanti all'Europa! Sa Dio ciò che mi toccherà legger nei giornali
di Parigi tra un mese!»
A un tratto, l'anima di
quel giovinetto tacendo, spuntò nel suo cervello un'idea:
— Cara duchessa, sapete se
io vi voglio bene: le vostre idee atroci non han fondamento: almeno cosí spero;
ma insomma mi danno pensiero e quasi mi fanno dimenticare per un momento la mia
passione per voi, la sola della mia vita; capisco che non sono amabile: non
sono che un ragazzo molto innamorato; ma infine... mettetemi alla prova.
— Salvi Fabrizio e io
credo tutto! Certo io son dominata da paure folli di un cuore di madre: lo
mandi a cercar subito in cittadella, ch'io lo veda; e, se è vivo ancora, lo
faccia mettere nelle carceri di città, e ce lo lasci, se Vostra Altezza lo
crede necessario, quanti mesi vorrà e fino al processo.
Invece d'accordar subito
una cosa cosí semplice, il principe s'era abbuiato: era rosso, guardava la
duchessa, poi abbassava gli occhi e impallidiva. Quel «veleno» nominato cosí
poco a proposito gli aveva suggerito un'idea degna di suo padre o di Filippo
II; ma non osava esprimerla.
— Vedete, signora, — disse
infine, come facendosi forza e con un tono quasi sgarbato — voi mi tenete come
un ragazzo, come un essere sgraziato per giunta: ebbene, vi dirò una cosa
orribile, ma che m'é suggerita ora dall'amore profondo e schietto che vi porto.
S'io credessi al veleno, avrei già agito come il mio dovere esige; ma in questa
domanda vostra non veggo che un capriccio appassionato, del quale, permettetemi
di dirlo, forse non mi è facile scorgere tutta la portata. Volete che io decida
senza avere consultati i ministri, io che regno appena da tre mesi! mi chiedete
un'eccezione alle forme ordinarie, che veramente mi paion ragionevoli. In
questo momento siete, signora mia, il sovrano assoluto, e mi date speranze per
ciò che ho a cuore piú di ogni altra cosa, ma fra un'ora, quando i veleni vi
saranno usciti dalla fantasia, quando vi sarete liberata dal vostro incubo, la
mia stessa presenza vi sarà importuna ed io sarò messo da parte. Mi ci vuole un
giuramento. Giuratemi che, s'io vi rendo Fabrizio sano e salvo, otterrò da voi
entro tre mesi ciò che il mio cuore anela piú ardentemente. Sarete tutta mia:
e, dandomi un'ora della vostra vita, farete la felicità di tutta la mia.
L'orologio di palazzo sonò
le due.
«Ah, forse è già tardi!»
pensò la duchessa, e volta al principe, con uno sguardo smarrito:
— Lo giuro!
Il
principe diventò subito un altr'uomo: corse all'estremità della galleria,
dov'era la sala degli aiutanti di campo:
—
Generale Fontana, corra alla cittadella di galoppo; salga subito alla camera
del signor Del Dongo, e me lo conduca qui: bisogna ch'io gli parli tra venti
minuti, tra quindici, se è possibile.
— Ah, generale, — disse la
duchessa che aveva seguito il principe — un minuto può decider della mia vita!
Un rapporto, falso senza dubbio, mi fa temere che a Fabrizio si dia un veleno:
gli gridi, appena egli potrà sentir la sua voce, che non mangi. Se ha
assaggiato il pranzo, glielo faccia rigettare; gli dica che son io che voglio
cosi, e se occorre, usi la forza. Gli dica pure che io vengo subito. E grazie,
grazie.
— Signora duchessa, il mio
cavallo è pronto: credo di saper maneggiare un cavallo! vo di galoppo, e sarò
in cittadella otto minuti prima di lei.
— E io, — disse il principe
— vi chiedo quattro di questi otto minuti.
L'aiutante
era scomparso: era un uomo che forse non aveva altro merito che d'esser un
eccellente cavallerizzo. Non appena ebbe chiuso l'uscio, il principe prese la
mano della duchessa.
— Signora, vogliate venir
con me nella cappella. — Interdetta, per la prima volta in vita sua, la
duchessa lo segui senza far parola: traversarono insieme, quasi correndo, tutta
la galleria; e, nella cappella, il principe si mise in ginocchio quasi tanto davanti
alla duchessa quanto davanti all'altare. — Ripetete il giuramento: — disse — se
foste stata giusta e se non mi avesse nociuto questa malaugurata qualità di
principe, mi avreste già per pietà del mio amore concesso ciò che ora mi dovete
perché avete giurato.
— Se riveggo Fabrizio non
avvelenato, se fra otto giorni è vivo ancora, se Vostra Altezza lo nomina
coadiutore con futura successione di monsignor Landriani, io calpesterò l'onor
mio, il mio decoro di donna, tutto, e sarò di Vostra Altezza.
— Ma, cara amica, — disse
il principe con timida ansietà curiosamente accompagnata da occhiate languide
di tenerezza — io temo di qualche tranello che non so indovinare e che potrebbe
distrugger la mia felicità. Supponiamo che l'arcivescovo mi opponga qualcuna di
quelle ragioni canoniche, che tiran le cose in lungo per anni e anni: che sarà
di me? Vedete ch'io sono in piena buona fede: voi non farete con me delle
gesuiterie, non è vero?
— No, in buona fede; se
Fabrizio è salvo, se Vostra Altezza fa quanto è in lei per nominarlo coadiutore
e poi arcivescovo, io mi disonoro, ma sono sua. Vostra Altezza si impegna a
scrivere semplicemente un «approvasi» in margine a una domanda che monsignor
arcivescovo le presenterà tra otto giorni?
— Io vi firmo un foglio in
bianco: regnate su me e sui miei Stati! — esclamò il principe arrossendo di
gioia. E volle un altro giuramento: era cosí commosso che, vinta la propria
timidità, in quella cappella del palazzo dov'eran soli, osò dire a bassa voce
alla duchessa cose tali che dette tre giorni prima avrebbero addirittura mutata
l'opinione ch'ella aveva di lui. Ma ora l'ambascia per il pericolo di Fabrizio
cedeva in lei all'orrore della promessa che le era stata strappata: e non
ancora ne sentiva tutto lo spaventoso raccapriccio, perché la trepida mente era
volta a sapere se il generale Fontana poteva arrivare in tempo alla cittadella.
Per mutare un po' la piega
di quei discorsi e liberarsi dai tenerumi di quel cascamorto, lodò un quadro
celebre del Parmigianino che era sull'altar maggiore.
— Permettere che ve lo
mandi.
— Accetto, ma Vostra
Altezza mi consenta di andare incontro a Fabrizio.
Con un'aria stralunata,
ordinò al cocchiere di mettere i cavalli al galoppo: sul ponte della cittadella
incontrò il generale Fontana con Fabrizio a piedi.
— Hai mangiato?
— No, per miracolo.
Gli si gittò al collo, e
cadde in un deliquio che durò un'ora, e che diede a temere prima per la sua
vita, poi per la sua ragione.
Il governatore Fabio Conti
era diventato verde dalla collera all'apparire del generale Fontana; e aveva
messo tanta lentezza nell'obbedire agli espressi ordini del sovrano, che
l'aiutante, il quale supponeva che la duchessa assumesse il grado di favorita
regnante, se ne irritò. Il governatore aveva fatto conto di lasciar durare due o
tre giorni la malattia di Fabrizio, e ora pensava: «Una vera disdetta: ecco che
una persona della Corte trova quell'insolente tormentato dai dolori che mi
vendicano della sua fuga!»
Si fermò preoccupato nel
corpo di guardia della torre Farnese, dal quale fece uscire i soldati: non
voleva testimoni alla scena che s'aspettava. Cinque minuti dopo restò di sasso
dallo stupore, sentendo Fabrizio che vivo e arzillo faceva al Fontana una
minuta descrizione del carcere. Scomparve.
Fabrizio si mostrò
perfetto gentleman nel colloquio
col principe. Non voleva aver l'aria d'un ragazzo che si spaventa per nulla. Il
sovrano gli domandò come si sentisse.
— Altezza Serenissima,
come un uomo che muore di fame: non avendo per fortuna né fatto colazione né
pranzato.
Dopo aver avuto l'onore di
ringraziare il principe, egli chiese il permesso d'andare a ossequiare
l'arcivescovo prima di costituirsi nel carcere di città.
Il principe era divenuto
pallidissimo: nella sua testa di ragazzo era pullulata l'idea che il veleno non
era che una chimera della fantasia della duchessa. E, assorto in questo triste
pensiero, sulle prime non rispose alla domanda della visita all'arcivescovo;
poi, per riparare alla distrazione, gli parve di dover abbondare nelle
concessioni.
— Esca pur solo; vada pure
per le vie senza guardia; e stasera verso le dieci o le undici si costituisca
al carcere, dove, peraltro, spero non dovrà restar molto.
La dimane di questa
giornata, la piú notevole della sua vita, il principe si credé un piccolo
Napoleone. Aveva letto che al grand'uomo le belle signore della sua Corte non
avevan lesinato i favori; cominciato cosí a napoleonizzare in felici avventure,
si ricordò di essere stato un po' Napoleone anche davanti alla fucilate. Era
orgoglioso della sua fermezza con la duchessa. La coscienza d'aver fatto
qualcosa di difficile lo ridusse per quindici giorni un altr'uomo: diventò
accessibile a ragionamenti generosi, e mostrò un po' di carattere.
Cominciò la giornata
buttando sul fuoco la patente di conte del Rassi, che da un mese stava sulla
sua scrivania. Destituí il generale Fabio Conti e incaricò il colonnello Lange,
suo successore, d'una inchiesta per accertar la verità intorno a quel ch'era
accaduto nella cittadella. Il Lange, un bravo soldato polacco, spaventò i
carcerieri, e riferí che s'era voluto avvelenare la colazione del signor Del
Dongo; ma s'era dovuto rinunziarci per non metter troppa gente a parte della
cosa. Meglio s'era provveduto per il desinare, e senza l'arrivo del general
Fontana, il Del Dongo era perduto. Il principe ne fu costernato; ma siccome era
innamorato veramente, si consolò nel potersi dire: «Dunque io ho proprio
salvato la vita al signor Del Dongo, e la duchessa non fallirà al giuramento».
Poi, di pensiero in
pensiero, giunse a questa considerazione: «Il mio mestiere è veramente piú
difficile ch'io non m'immaginassi: tutti convengono che la duchessa è
intelligentissima, e in questo la politica è d'accordo col mio cuore. L'ideale
sarebbe ch'ella consentisse ad essere il mio primo ministro!»
La
sera era ancora cosí irritato delle orribili cose scoperte che non volle
prender parte alla recita: e alla duchessa dichiarò:
— Io sarei proprio felice
se voleste regnare sui miei Stati come sul mio cuore. Per cominciare, vi dirò
come ho occupato questa giornata. — E le raccontò esattamente tutto: come aveva
bruciata la patente di conte del Rassi, la nomina del Lange, la sua relazione
sul veleno, ecc. ecc. — Per regnare ho troppo poca esperienza: il conte Mosca
mi umilia con le sue finezze; è capace di scherzare perfino in consiglio, e
fuori fa discorsi di cui forse voi contestereste la verità: dice che sono un
ragazzo che mena per il naso a modo suo dove vuole. Anche i principi, signora
mia, sono uomini, e queste cose indispettiscono! Affinché la gente non creda alle
denigrazioni del conte, m'han fatto chiamare al Ministero quel pericoloso
briccone del Rassi: e il generale Conti lo crede ancora cosí potente che non
osa compromettersi confessando che lui o la Raversi l'hanno indotto a far morire vostro nipote! Proprio mi sento l'uzzolo di mandare innanzi ai tribunali questo
Conti: vedranno i giudici se egli è o no colpevole di questo tentativo
d'avvelenamento.
— Ma dove sono i giudici
di Vostra Altezza?
— Come sarebbe a dire?
— Sí: ci sono dei
giureconsulti e dotti, e che vanno per le strade con molto solenne portamento;
ma che giudicheranno sempre come vorrà il partito dominante a Corte.
E mentre il principe
scandalizzato pronunciava delle frasi che mostravan meglio il suo candore che
non la sua perspicacia, la duchessa pensava: «Non conviene lasciar disonorare
il Conti; perché il matrimonio di Clelia con quell'insulso galantuomo del
Crescenzi diventerebbe impossibile».
Su questo argomento la conversazione
del principe con la duchessa non finiva piú: questi era stordito d'ammirazione.
In vista del matrimonio della figliuola, e a questa espressa condizione, fece
grazia all'ex-governatore del criminoso tentativo ma, seguendo il parere della
duchessa anche in ciò, lo esiliò fino all'epoca di quelle nozze.
La duchessa credeva bensí
di non amar piú Fabrizio d'amore, ma desiderava ancora ardentemente quel
matrimonio di Clelia, pel quale aveva la vaga speranza di vedere a poco a poco
sparir le tristi preoccupazioni che tormentavano Fabrizio.
Il principe, al colmo
della beatitudine, voleva quella sera stessa destituire il Rassi e in modo da
far scandalo: la duchessa lo ammoni sorridendo :
— Napoleone disse una
volta che un uomo in alta situazione, e sul quale tutti tengono fissi gli
sguardi, non deve ceder mai a impeti di violenza. Ma stasera è tardi;
rimandiamo gli affari a domani.
Voleva pigliar tempo a
consultare il conte, al quale raccontò esattamente la conversazione della sera,
sopprimendo peraltro le frequenti allusioni del principe a una promessa che ora
le amareggiava la vita. Si lusingava di diventar cosí necessaria da poter
ottenere un rinvio indefinito, dicendo al principe: se voi avete la crudeltà di
sottopormi a questa umiliazione, che non perdonerei mai, il giorno dopo io me
ne vado da Parma e dai vostri Stati.
Il conte, consultato sulla
sorte del Rassi, si mostrò vero filosofo: l'ex-ministro della giustizia e
l'ex-governatore furon mandati a fare un viaggio in Piemonte.
Una difficoltà di nuovo
genere sorse circa il processo di Fabrizio: i giudici avrebbero voluto
assolverlo per acclamazione fin dalla prima seduta, e bisognò usar minacce
perché il processo durasse almeno otto giorni, e i giudici si pigliassero il
fastidio di ascoltar i testimoni. E il conte pensò: «Sono sempre e tutti gli
stessi!»
Subito dopo l'assoluzione,
Fabrizio entrò in ufficio come gran vicario del buon arcivescovo Landriani; il
giorno stesso il principe firmò gli atti necessari ad ottener che il Del Dongo
fosse nominato coadiutore, con futura successione, carica che due mesi dopo
egli prese ad esercitare. E tutti complimentarono la duchessa circa il severo
portamento del nipote; il quale era disperatissimo.
Alla sua liberazione dalla
cittadella, cui tenne dietro immediatamente la destituzione e l'esilio del
general Conti, Clelia s'era rifugiata presso la contessa Cantarini, sua zia,
vecchia signora facoltosa e unicamente occupata a curar la propria salute.
Clelia avrebbe potuto veder Fabrizio: ma chi avesse conosciuto la sua
precedente condotta, e la paragonasse alla presente, avrebbe potuto credere
quell'amore finito col cessar dei pericoli. Fabrizio invece non solo passava
spesso e quanto la convenienza gli permetteva davanti al palazzo Cantarini, ma
anche era riuscito, dopo lunghe e non facili pratiche, a prendere in affitto un
appartamentino di rimpetto alle finestre di quel primo piano.
Un giorno che Clelia si
affacciò sbadatamente per veder passare una processione, si ritirò d'improvviso
come colta da terrore: scorse Fabrizio vestito di nero, ma come un operaio
miserabile, che la guardava da una finestra della stamberga, che aveva le
impannate di carta intrisa d'olio come nella camera della torre Farnese. Egli
avrebbe voluto poter persuadersi che Clelia lo fuggiva in seguito alla
destituzione di suo padre, destituzione che la voce pubblica attribuiva alla
duchessa; ma purtroppo conosceva un'altra e piú grave cagione, e non sapeva
consolarsene.
Le belle cerimonie onde
s'era celebrato il suo insediamento nell'alto ufficio, il grado cui era asceso,
le deferenti assiduità di tutti gli ecclesiastici e di tutti i devoti della
diocesi, lo avevan lasciato indifferente. Il grazioso quartiere che aveva nel
palazzo Sanseverina non gli bastò piú; e la duchessa dové cedergli con suo gran
piacere tutto il secondo piano e due saloni del primo, sempre affollati di
gente che aspettava il momento di complimentare il giovine coadiutore. Quella
futura successione aveva prodotto un effetto magico in paese: e ora diventavan
virtú tutte quelle energie di carattere che un tempo avevano scandalizzato i
cortigiani poveri e balordi.
Per Fabrizio fu una gran
lezione di filosofia quel sentirsi affatto indifferente agli onori, e piú
infelice in quel magnifico appartamento con dieci servitori che portavan la sua
livrea, di quanto fosse nel gabbiotto della torre Farnese, tra sconci
carcerieri e in perpetua ragione di temer per la vita. La madre e la sorella,
duchessa di V***, che vennero a Parma per vederlo in tanta gloria, furon
colpite da quella profonda tristezza. E la marchesa Del Dongo, ormai la meno
romantica delle donne, ne fu tanto sgomenta da creder che in prigione gli
avessero propinato qualche lento veleno: e non ostante la sua estrema
discretezza, credé di dovergli dir qualcosa di quella inesplicabile malinconia:
Fabrizio non seppe rispondere che con delle lagrime.
Tutti i vantaggi,
conseguenza necessaria di quell'alto grado, lo indispettivano: suo fratello,
anima incancrenita dal piú abietto egoismo, gli scrisse una lettera di
congratulazione quasi ufficiale e con la lettera gli rimise un mandato di
cinquantamila lire, perché si comprasse cavalli e carrozze, degni, diceva il
nuovo marchese, della casata. Fabrizio girò la somma alla sua sorella minore,
maritata male.
Il conte Mosca aveva fatto
fare una traduzione italiana della genealogia della famiglia Valserra Del
Dongo, già pubblicata dal famoso Fabrizio arcivescovo di Parma; l'aveva fatta
stampare splendidamente col testo latino a fronte: le incisioni eran riprodotte
in magnifiche litografie fatte a Parigi: la Duchessa aveva voluto che un bel ritratto di Fabrizio fosse posto a fronte di quello del vecchio prelato. Questa
traduzione fu pubblicata come lavoro di Fabrizio fatto durante la prima
prigionia; ma in lui tutto era annientato, anche la vanità cosí istintiva negli
uomini, sí che neppure degnò di leggere una pagina di quell'opera che gli era
attribuita.
Il grado ch'egli aveva gli
fece obbligo di presentarne una copia rilegata con gran lusso al sovrano, il
quale pensando di dovergli in certo modo un'indennità per la brutta morte cui
era stato cosí vicino, gli accordò l'accesso alla sua camera, grazia che dà
diritto al titolo di Eccellenza.
|