XXVIII
Incalzati
dagli avvenimenti, ci mancò tempo a raffigurare, sia pure in iscorcio, la
grottesca genía dei cortigiani che pullula alla Corte di Parma e che commentò
grottescamente i fatti che siam venuti narrando. Il maggior titolo che in quel
paese rende un nobiluccio, ornato di tre o quattromila lire di rendita, degno
di far bella mostra di sé in calze nere ai levers del principe, è il non aver letto né Voltaire né Rousseau.
Condizione non ardua a osservare. Alla Corte di Ernesto V bisogna saper parlare
con intenerimento dell'infreddatura del sovrano, o dell'ultima cassetta di
minerali pervenutagli dalla Sassonia; se, oltre a ciò, si va alla messa, senza
mancarvi un sol giorno dell'anno, e si ha la fortuna di annoverar fra gli amici
tre o quattro frati, il principe si degna di rivolgervi la parola una volta
ogni dodici mesi, quindici giorni avanti o quindici giorni dopo il primo
gennaio: e ciò basta a farvi autorità nella parrocchia e a trattener l'esattore
dal vessarvi, caso mai vi foste troppo lungamente dimenticato di versare
all’erario le cento lire annualmente imposte sui vostri beni.
Il
signor Gonzo era un di questi poveri diavoli, di nobilissima casata, che
qualcosa aveva del suo, e mercé la protezione del marchese Crescenzi godeva di
un magnifico impiego che gli rendeva millecentocinquanta lire l'anno.
Tutto compreso, avrebbe anche
potuto desinare a casa sua; ma una passione lo tormentava: non si sentiva
veramente contento se non nel salotto di qualche gran personaggio che di tanto
in tanto gli dicesse: «Ma chetatevi, Gonzo, siete uno sciocco!» Queste parole
erano spesso dettate da un certo malumore, perché quasi sempre il signor Gonzo
era piú intelligente del «gran personaggio». Parlava di tutto, e anche con
garbo; non solo, ma bastava sempre un cenno o una smorfia del padron di casa
per farlo mutar di opinione. A dir vero, per quanto fosse accortissimo quando
si trattava dei propri interessi, un'idea, che è un'idea, in testa non gli
spuntava: e, quando il principe non era infreddato all'entrare in un salotto,
rimaneva imbarazzatissimo non avendo nulla da dire o da raccontare.
Ciò che lo aveva fatto
comunemente noto a Parma era un magnifico cappello a tre punte, ornato da una
piuma nera un po' sciupacchiata, che egli portava sempre anche col frac: ma il modo e l'aria con cui lo portava o in
capo o in mano giustificavano veramente la celebrità. Del resto egli si
informava ansiosamente della salute del cagnolino della marchesa; e, se avesse
preso fuoco il palazzo Crescenzi, non avrebbe esitato a rischiar la vita per
salvare un di quei bel seggioloni in broccato d'oro su cui da tanti anni
s'attaccavano le sue brache di seta nera, quando s'arrischiava a sedercisi
qualche momento.
Sette o otto signori di
questa specie erano assidui, ogni sera alle sette, nel salotto della marchesa
Crescenzi: seduti appena, un lacché in una magnifica livrea giunchiglia a
galloni d'argento e in panciotto rosso fiammante si affrettava a prendere i
cappelli e i bastoni. Era immediatamente seguito da un cameriere che offriva
caffé in chicchere piccolissime posate sopra piedi di filigrana d'argento, e
ogni mezz'ora un maggiordomo in spadino e abito alla francese portava in giro i
gelati.
Poco dopo quei poveri
diavoli, entravano cinque o sei ufficiali, discutendo a voce alta, con
soldatesca fierezza; consueto argomento al dibattito, il numero e la qualità
dei bottoni che deve aver l'uniforme del soldato perché il generale possa
vincer le battaglie. Non sarebbe stato prudente citare in quel salotto un
giornale francese; perché, quand'anche la notizia che se ne recava fosse stata
delle piú gradite — per esempio, che in Ispagna avevan fucilato cinquanta
liberali — il narratore era pur sempre reo confesso della lettura d'un giornale
francese. Per tutta quella gente, il capolavoro dell'abilità e dell'accortezza
consisteva nel riuscir a ottenere ogni dieci anni un aumento di cencinquanta
lire sui loro stipendi. Cosí il principe ha comune con l'aristocrazia il
piacere di regnar sui borghesi e sui contadini.
La persona
indiscutibilmente piú autorevole del salotto Crescenzi era il cavalier
Foscarini, un perfetto galantuomo che, appunto perciò, era stato un po' in
prigione sotto tutti i governi. Era stato deputato nella famosa assemblea
milanese che respinse, con rara audacia, la legge sul registro proposta da
Napoleone.
Dopo essere stato per
venti anni l'amico della madre del marchese, era rimasto l'amico rispettato e
autorevole della famiglia. Aveva sempre qualche piacevole storiella da
raccontare, ma alla sua acutezza nulla sfuggiva. La giovine marchesa, che in
fondo al cuore si sentiva colpevole, tremava davanti a lui.
Gonzo, in quella sua
devozione pel gran signore che lo maltrattava grossolanamente e lo faceva
piangere una o due volte all'anno, era addirittura assillato dalla smania di
rendergli servizio; e qualche volta, se non fossero state le misere
consuetudini della sua vita, ci sarebbe anche riuscito, perché in fondo non gli
mancava né avvedutezza né, soprattutto, improntitudine. Tal quale abbiamo il
piacere di conoscerlo, questo signor Gonzo aveva pochissimo rispetto per la
marchesa Crescenzi, che non gli aveva mai rivolta una parola men che cortese;
ma in fin de' conti, ella era la moglie del famoso cavaliere d'onore della
principessa, il quale una o due volte al mese aveva l'amabilità di dirgli:
«Chetati, Gonzo! tu non sei che un animale!»
Non gli era sfuggito che i
discorsi sulla signorina Marini avevan la virtú di scuoter la marchesa dal suo
torpore d'indifferenza per quanto la circondava; e dal quale ella non pareva
uscire se non quando verso le undici si alzava per fare il the ed offrirlo a'
suoi ospiti, che chiamava gentilmente a nome. Dopo, usava ritirarsi, e per un
istante allora pareva gaia: gli ospiti sceglievan quel momento per recitarle i
sonetti satirici.
In Italia se ne fanno dei
bellissimi: ed è forse il solo genere di letteratura che abbia ancora in sé un
po' di vita; e la censura non ci può nulla. I cortigiani di casa Crescenzi
annunziavan sempre il loro componimento con queste parole: «La signora marchesa
vuoi permettermi di recitarle un pessimo sonetto?» Il sonetto si recitava; si
ripeteva, tutti ridevano e uno degli ufficiali commentava: «Il ministro di
polizia dovrebbe impiccar qualcuno degli autori di queste infamie!» Ma le
borghesie di queste satire si dilettavano: a Parma que' sonetti eran
generalmente ammirati, cosí che parecchi amanuensi di procuratori e di avvocati
ne facevano e smerciavan le copie.
L'interessamento della
marchesa fu notato dal signor Gonzo, il quale s'immaginò che le esagerate lodi
delle bellezze della signorina Marini avessero potuto suscitare chi sa quali
invide gelosie. E una bella sera entrò nella sala con un'aria di trionfo che
non gli accadeva di assumere se non una volta o due all'anno, quando il
principe gli diceva: «Oh, addio, Gonzo!» Ossequiata la marchesa, invece di
andar come d'uso a pigliar posto sulla seggiola che un cameriere aveva
avanzata, rimase in piedi in mezzo al circolo e disse:
— Ho visto il ritratto di
monsignor Del Dongo.
Clelia
restò come stordita e dové appoggiarsi ai bracciuoli della sua poltrona: cercò
di farsi forza e di fronteggiar la burrasca, ma fu obbligata ad andarsene.
— Ma, caro Gonzo, bisogna
dir proprio che siete d'una balordaggine senza pari! — esclamò in tono solenne
un ufficiale che stava sorbendo il quarto gelato. — Non sapete che monsignor
vicario è stato uno de' piú prodi colonnelli di Napoleone, e che fece un brutto
tiro al padre della signora marchesa, quando il general Conti era governatore
della cittadella, uscendone come si può uscir dalla Steccata? (la principale
chiesa di Parma).
— Infatti, caro capitano,
tante cose io non le so! E sono un povero sciocco che fo spropositi tutto il
santo giorno.
La risposta fece ridere,
ma a spese dell'elegante ufficiale. La marchesa tornò: s'era fatta coraggio, e
aveva per giunta qualche vaga speranza di riuscire a veder quel ritratto che
dicevano bellissimo. Parlò con grandi lodi dell'ingegno dell'Hayez, e quasi
senza avvedersene, sorrideva al Gonzo, che alla sua volta guardava il capitano
con aria canzonatoria: e poiché anche gli altri si pigliavan lo stesso gusto,
l'ufficiale uscí in fretta giurando al Gonzo un odio mortale. Ma intanto questi
trionfava; e, quando si congedò, fu invitato a pranzo pel giorno dopo.
— C'é dell'altro: — disse,
finito il pranzo, quando i servitori se ne furono andati — vogliono sapere che
cosa succede? succede che monsignor vicario s'é innamorato della Marini!
Si può facilmente pensare
all'impressione che il cuore di Clelia ricevé da quella notizia: anche il
marchese ne fu turbato.
— Ma, caro Gonzo, al
solito non sai quello che dici: e dovresti parlare con piú rispetto d'un uomo
che ha avuto un dieci volte l'alto onore di far la partita con Sua Altezza.
— Eh! caro marchese, —
ripigliò il Gonzo col fare goffamente grossolano di quella specie di persone —
io posso giurare che giocherebbe volentieri una partita anche con l'Annetta
Marini; ma, se questo le dispiace, non se ne parli piú: io credo che non sia
vero nulla, e la sola cosa che m'importi è di non fare inquietare il mio
carissimo signor marchese.
Il marchese soleva, dopo
desinare, ritirarsi a far la siesta: quel giorno non si mosse; il Gonzo si
sarebbe tagliata la lingua piuttosto che aggiungere una sola parola sulla
signorina Marini; ma ogni tanto cominciava un discorso combinato in modo da far
sperare al marchese che ci ricascherebbe. Il Gonzo aveva spiccatissima quella
speciale forma di spirito italiano che si compiace nel differir la parola
aspettata: e il povero marchese, che moriva di curiosità, dové provarsi a
cominciar lui: disse che quando aveva il piacere d'averlo alla sua tavola
mangiava con piú appetito; ma il Gonzo non capí, e cominciò a descriver la
magnifica galleria di quadri che la marchesa Balbi, l'amica del defunto
principe, stava raccogliendo; e tre o quattro volte parlò dell'Hayez con
grandissima ammirazione. «Ah! — pensava il marchese — ora viene al ritratto per
la Marini!» Ma il Gonzo se ne guardava!
Sonaron
le cinque: e il marchese s'impazientí, assuefatto com'era a montare in
carrozza, dopo la siesta, alle cinque e mezzo, per andare al Corso.
— Vedi che fai con le tue
sciocchezze? mi farai arrivare al Corso dopo la principessa che può aver
qualche ordine da darmi. Via, spicciati: dimmi in poche parole, se ti riesce,
quel che sai degli amori di monsignor vicario.
Ma il Gonzo voleva serbar
per la marchesa il racconto: si spicciò dunque in poche parole e il marchese
insonnolito andò a far il suo pisolino. La marchesa era rimasta cosí giovane e
ingenua in quella sua grande fortuna, che credé di dover riparare alle durezze
con cui suo marito aveva rivolto la parola al Gonzo. Il quale, lieto e superbo di
quell'amabilità, trovò tutta la sua eloquenza e si fece un dovere e un piacere
d'entrar in una infinità di piccoli particolari.
La signorina Marini pagava
fino a uno zecchino i posti che si faceva tenere alla predica, alla quale
andava sempre con due zie e col vecchio cassiere di suo padre. Questi posti,
che eran fissati sempre dal giorno avanti, erano scelti quasi di fronte al
pulpito, un po' verso l'altar maggiore, perché monsignore si volgeva spesso da
quella parte. Ora, il pubblico aveva notato che gli sguardi del predicatore si
fissavano con piacere sulla bella ereditiera; e anche con molta attenzione,
perché, quando la guardava, la predica diveniva erudita: vi abbondavan le
citazioni, e il tono diventava meno commosso: cosí che le signore, per le quali
quel genere di predica non aveva alcuna attrattiva, si mettevano a guardar la Marini e a dirne male.
Clelia volle tre volte
ripetuti questi singolari ragguagli: poi si fece pensosa: calcolò che eran già
quattordici mesi che non vedeva Fabrizio. «Sarà peccato — si domandò — passare
un'ora in una chiesa, non per vederlo, ma per ascoltare un oratore celebre? Mi
metterò lontana dal pulpito, e non lo guarderò che una volta entrando, e una
alla fine... No, no; io non vo per vederlo; vo per sentire un predicatore
meraviglioso!» E tuttavia, ragionando cosí, sentiva pungersi da rimorsi. Per
quattordici mesi aveva saputo serbar cosí bella condotta! E concluse, per
mettersi in pace lo spirito combattuto: «Se la prima signora che entrerà nel
salone stasera è andata a sentire monsignor Del Dongo, ci andrò anch'io; se no,
no». E decisa ormai, fece felice il signor Gonzo, dicendogli:
— Può cercar di sapere
quando e in che chiesa predicherà monsignor vicario? Stasera forse dovrò darle
una commissione.
E non appena il Gonzo fu
uscito per andare al Corso, ella scese in giardino. Non pensò neppure che da
dieci mesi non ci aveva piú messo piede: era vivace, animata; aveva ripreso
colore. La sera, ogni volta che la porta s'apriva per dare il posto a un
seccatore, il suo cuore sussultava: finalmente annunziarono il signor Gonzo, il
quale subito capí che per una settimana sarebbe stato un uomo necessario.
Pensava: «Non c'é dubbio: la marchesa è gelosa della bella Annetta; e davvero
ha da essere una commedia divertente questa in cui la marchesa farà la prima
donna, la Marini la servetta e monsignore l'amoroso. Si potrebbe pagare il
biglietto fino a due lire!» Non stava in sé dalla contentezza; e per tutta la
serata parlò a dritto e a rovescio, interrompendo altri, e raccontando aneddoti
discretamente rischiosi (per esempio, quello d'un'attrice famosa col marchese
di Péguigny, che il giorno avanti aveva saputo da un viaggiatore francese). Dal
canto suo, la marchesa pareva non trovasse requie: girava per la sala, andava a
passeggiar nella galleria vicina, dove il marchese aveva fatto metter soltanto
quadri che gli costavano piú di ventimila lire l'uno e che quella sera le
parevano parlare linguaggio cosí chiaro da stancarle il cuore per la
commozione.
Come Dio volle, udí
aprirsi la porta a due battenti; tornò nel salone: era la marchesa Raversi. Nel
farle i complimenti d'uso, Clelia sentí che le mancava la voce: e la Raversi dové farle ripetere la domanda: — è stata a sentire il predicatore di moda? — che non
aveva intesa dapprima.
— Io lo consideravo come
un piccolo intrigante, degnissimo nipote della illustre contessa Mosca; ma
all'ultima predica, proprio qui dirimpetto, nella chiesa della Visitazione, è
stato cosí sublime che ha vinto tutti i miei rancori; mi par l'uomo piú eloquente
ch'io abbia ascoltato mai.
— Dunque lei è stata alla
sua predica? — domandò Clelia, tremante di gioia.
— Ma come? — rispose
sorridendo la marchesa — lei non ha badato a quel che le ho detto: per nulla al
mondo io lascerei una sua predica. Ma dicono che è malato di petto e che dovrà
smetter presto la predicazione.
Come fu uscita la Raversi, Clelia chiamò il Gonzo in galleria e gli disse:
— Son quasi decisa ad
andare a sentire questo predicatore che tutti lodano. Avete saputo quando e
dove predicherà?
— Lunedí, fra tre giorni:
e si direbbe che ha indovinato il desiderio di Vostra Eccellenza, perché verrà
per l'appunto qui alla Visitazione.
Ella aveva qualche cosa da
dire ancora, ma le mancava la voce: andò su e giú per la galleria quattro o
cinque volte, senza profferir parola. Il Gonzo pensava: «Ecco il desiderio di
vendetta che lavora. Ma come si può essere cosí insolenti da fuggir da una
prigione, quando s'é sotto la custodia d'un eroe com'é il general Fabio Conti?»
— E bisogna far presto — aggiunse ad alta voce, con un tono di sottile ironia;
— è malato di petto, e ho sentito che il dottor Rambo non gli dà un anno di
vita. Dio lo punisce di quella fuga da traditore!
La marchesa sedé su un
divano della galleria, e con un cenno invitò il suo interlocutore a far
altrettanto: poi gli consegnò una borsetta in cui aveva messo alcuni zecchini,
e gli disse:
— Mi faccia fissar quattro
posti.
— Sarà consentito al
povero Gonzo di entrare al seguito di Vostra Eccellenza?
— Ma sicuro! allora faccia
fissar cinque posti... Non m'importa d'esser vicina al pulpito, ma desidero di
poter vedere questa signorina Marini che dicono cosí graziosa.
Per la marchesa i tre
giorni che precederono il famoso lunedí furono un tormento continuato. Il
signor Gonzo, pel quale l'esser visto in pubblico in compagnia della gran dama
era un onore insigne, vestí il bell'abito francese e si cinse lo spadino; e
fece di peggio: approfittando della vicinanza, fece trasportare dal palazzo
alla chiesa un dei magnifici seggioloni dorati, per la marchesa; il che parve
ai borghesi una insolenza eccessiva. Si può immaginare come si trovò la povera
marchesa al vedere quel seggiolone posto proprio dirimpetto al pulpito. Ci si
rannicchiò con gli occhi bassi, cosí confusa che nemmeno pensò a guardar la
signorina Marini, che il Gonzo le indicava a indice teso, con una impudenza
della quale ella stessa arrossiva.
Fabrizio salí sul pulpito:
era cosí sparuto, cosí pallido, cosí consunto, che gli occhi di Clelia al
vederlo si empiron di lagrime; disse qualche parola, e si fermò, come se a un
tratto gli fosse mancata la voce. Tentò invano di parlare; si volse e prese una
carta scritta.
— Fratelli, — disse allora
— un'anima sventurata e degna di tutta la vostra pietà, vi chiede per bocca mia
di pregare perché abbian fine i suoi tormenti che non cesseranno se non con la
vita.
E continuò lentamente la
lettura: l'espressione della sua voce era tale che, avanti ch'ei giungesse a
metà della preghiera, tutti piangevano, anche il Gonzo. Clelia singhiozzando
pensava: «Almeno nessuno baderà a me».
Interrompendo la lettura,
espresse alcuni pensieri allora sortigli in mente intorno alle condizioni di
quell'anima sventurata per la quale implorava la prece dei fratelli; altri
pensieri tornarono ad affollarglisi in mente. Pur figurando di parlare al
pubblico, non parlava che alla marchesa, e finí un po' prima del consueto,
perché, non ostante gli sforzi per dominarsi, il pianto gli stringeva la gola
cosí da impedirgli di pronunciar le parole in maniera intelligibile.
I
competenti giudicarono un po' singolare questa predica, ma non inferiore,
almeno nel patetico, a quella recitata la sera dell'illuminazione.
Clelia,
appena udito le prime dieci righe della preghiera, considerò come una colpa
abbominevole l'aver potuto restar quattordici mesi senza vederlo. Tornata a
casa, si mise in letto per poter pensare a Fabrizio liberamente: e la mattina
dopo di buon'ora egli ricevé queste righe:
«Si
fa assegnamento sul vostro onore. Prendete quattro bravi della cui discretezza
siate sicuro, e domani, quando mezzanotte sonerà alla Steccata, trovatevi a una
piccola porta, in via San Paolo numero 19. Pensate che potete essere aggredito:
non venite solo.»
Al riconoscere quella
scrittura adorata, Fabrizio cadde in ginocchio piangendo: «Ah! — esclamò — dopo
quattordici mesi e otto giorni! Addio, prediche!»
Sarebbe lungo riferir le
pazzie cui s'abbandonarono quel giorno i cuori di Fabrizio e di Clelia. La
porticina indicata dal biglietto era quella dell'aranciera del palazzo
Crescenzi; e dieci volte in quella giornata Fabrizio trovò modo d'andare a
vederla. La sera prese delle armi, e solo, poco avanti la mezzanotte, ci
passava davanti, con passo rapido, quando, sussultando di gioia, udí una voce
nota che mormorava:
— Vieni, amore...
Fabrizio entrò con cautela
e si trovò nell'aranciera alta da terra tre o quattro piedi e chiusa da
un'inferriata. Era buio profondo: Fabrizio aveva udito rumore dietro la
finestra e ne tentava le sbarre, quando si sentí prender la mano e portarla
alle labbra, che la baciarono.
— Sono io, — disse la cara
voce — son io che son venuta a dirti che ti adoro sempre, e per domandarti se
m'obbedirai.
S'immagina la risposta, e
la gioia e lo stordimento di Fabrizio; dopo i primi momenti di estasi, Clelia
gli disse:
— Sai che ho fatto voto
alla Madonna di non vederti piú: perciò ti ricevo al buio, qui. Se tu volessi
costringermi a vederti in piena luce, tutto sarebbe finito. Io non voglio che
tu predichi mai piú davanti a quella Marini... e non voglio che tu pensi che
sia stata io a far la sciocchezza di far portare il seggiolone nella casa di
Dio.
— Angelo mio, io non
predicherò mai piú davanti a nessuno. Mi ci son indotto unicamente per la
speranza di vederti.
— Non dir cosi: pensa che
il vederti, a me non è piú consentito.
A questo punto, chiediamo
al lettore il permesso di saltar tre anni.
Al momento in cui
riprendiamo il racconto, il conte Mosca è tornato da un pezzo a Parma, primo
ministro e piú potente che mai.
Dopo
tre anni di suprema felicità, entrò in cuore a Fabrizio una capricciosa
tenerezza che mutò, e quanto!, la condizione delle cose. La marchesa aveva un
amore di bimbo di due anni, Sandrino, che era tutta la sua gioia: stava sempre
o con lei o sulle ginocchia del marchese Crescenzi; Fabrizio, invece, non lo
vedeva quasi mai. Or egli non volle che il bimbo s'abituasse ad amare un altro
padre, e concepí il proposito di rapirlo prima che i ricordi gli si
imprimessero nella mente solidi e netti.
Nelle lunghe ore del
giorno, durante le quali la marchesa non poteva veder l'amico suo, Sandrino era
la sua consolazione. Giacché dobbiamo confessare una cosa che sembrerà bizzarra
a settentrione delle Alpi: ella era, pur ne' suoi errori, rimasta fedele al suo
voto. Aveva promesso alla Vergine di non
veder piú Fabrizio: tali le sue parole precise: e lo riceveva soltanto la
notte e senza lumi nel suo appartamento. Ma lo riceveva ogni sera: ed è a
meravigliare che in una Corte fatta dalla noia insaziabilmente curiosa, una
tale amicizia, come dicono in Lombardia, non fosse neppur lontanamente
sospettata: cosí avvedute e vigili furon le precauzioni di Fabrizio.
La passione era troppo
viva e profonda, per non esser turbata mai da dissapori. Clelia era
gelosissima: ma quasi sempre ben altra era la causa di screzii. Fabrizio aveva
colta l'occasione di qualche pubblica cerimonia per trovarsi nello stesso luogo
della marchesa e guardarla; ma a sua volta ella aveva colto un pretesto per
andar via, e puniva della sua impudenza l'amico col condannarlo a lunghissimi
esigli.
In Corte non finivan le
meraviglie: come! una cosí bella donna, e cosí intelligente e di cosí alto
animo non aveva un piccolo intrigo? E si destaron passioni ardenti, che fecero
far pazzie; e anche Fabrizio fu qualche volta geloso.
Da un pezzo era morto il
buon monsignor Landriani: la pietà, l'eloquenza, la vita esemplare del suo
successore lo fecero dimenticar presto. Ed era morto anche il giovane marchese
Del Dongo, e il ricco patrimonio della famiglia fu ereditato da Fabrizio, che
da allora distribuí fra vicari e parroci della sua diocesi le cento e tante
mila lire di cui la mensa dell'arcivescovato godeva.
Cosí sarebbe stato
difficile immaginare e desiderare una vita piú onorata, piú onorevole e piú
utile di quella che Fabrizio viveva, quando quel malaugurato capriccio del suo
affetto venne tutto a turbare.
— Per quel voto che io
rispetto, e che pur fa strazio della mia vita, poiché tu non puoi vedermi di
giorno, — disse una volta a Clelia — io son condannato a viver sempre solo,
senza altra distrazione che il lavoro: e non ho lavoro che basti. In tante
lunghe ore di solitudine triste un'idea mi tormenta, e che da sei mesi cerco
invano di combattere: il mio figliuolo non può amarmi: mi sente appena
nominare, e di rado. Cresciuto qui nel lusso del palazzo Crescenzi, è molto se
mi conosce! Quelle rare volte che lo vedo mi fa pensar alla madre che non posso
veder piú: e debbo parergli serio, che pei bimbi vuoi dire triste.
—
Dove va a parare — interruppe la marchesa — questo discorso che non capisco e
che pur mi spaventa?
— A questo: ch'io voglio
il mio figliuolo; voglio che viva con me; voglio vederlo ogni giorno, voglio
che cresca amandomi ed amato. Se una fatalità unica mi priva della gioia a
tutti concessa di vivere accanto a quella che adoro, voglio almeno aver meco
chi ti ricordi sempre al mio cuore, e tenga vicino a me il tuo posto. Gli
uomini e gli affari nella costretta mia solitudine mi pesano: sai che da quando
ebbi la fortuna di esser messo in carcere da Barbone, ambizione è per me parola
vuota di senso: e che tutto ciò che non è vita dell'anima mi pare insulso nella
malinconia che m'opprime e mi soffoca.
Facile immaginare il
dolore di Clelia per questo spasimare dell'amico suo; e piú la rammaricava il
pensare che Fabrizio aveva, in un certo senso, ragione. Giunse a riflettere se
non le fosse doveroso tentar di rompere il voto. Cosí avrebbe potuto ricever
monsignore come tutto il resto dell'alta società, e la sua reputazione era
oramai cosí ben stabilita che le male lingue nulla troverebbero a ridire.
Pensava anche che, con molto denaro, non sarebbe stato difficile farsi
scioglier dal voto; ma le pareva che questo provvedimento affatto esteriore e
mondano non avrebbe tranquillata la sua coscienza; e temeva che il cielo la
punisse, per questo nuovo delitto.
E d'altro canto, se avesse
ceduto al desiderio cosí naturale di Fabrizio, e cercato di non far tanto
infelice quell'anima, di cui conosceva tutta la tenerezza e lo strano tormento
createle da quel suo voto, come sperare che il ratto del figlio unico d'uno dei
piú gran signori d'Italia si compiesse senza che fosse scoperto il reato? Il
marchese avrebbe profuse somme enormi, avrebbe egli stesso diretto le indagini
e prima o poi tutto sarebbe scoperto. C'era un sol modo di evitare il pericolo:
mandare il bimbo lontano, a Parigi, per esempio, o a Edimburgo; ma a questo la
sua tenerezza di madre si rifiutava decisamente. Il mezzo proposto da Fabrizio,
che veramente era il piú ragionevole, aveva qualcosa di sinistro ed era anche
piú terribile agli occhi materni. Si doveva fingere una malattia: il bimbo
andrebbe via via peggiorando, finché durante un'assenza del marchese Crescenzi
si sarebbe fatto passare per morto. La repugnanza di Clelia cagionò un dissidio
che tuttavia non poté durar lungamente.
Clelia
diceva che non si doveva tentar Dio; che quel figliuolo adorato era frutto
d'una colpa; che, se si fosse irritata ancora la collera celeste, Dio lo
avrebbe richiamato a sé. E Fabrizio insisteva sulla triste sua sorte:
— Lo stato, il grado che
il caso ha voluto conferirmi e questo stesso amor mio, mi costringono a una
solitudine perpetua; e io non posso, come quasi tutti i miei colleghi, goder le
dolcezze dell'intimità, perché tu non vuoi ricevermi che nella oscurità, e ciò
riduce a brevi momenti la parte della mia vita ch'io posso passare con te.
Ci
furon lagrime molte. Clelia s'ammalò; ma ella amava troppo Fabrizio per
continuare a rifiutargli il terribile sacrifizio ch'ei le chiedeva. Sandrino in
apparenza ammalò: il marchese chiamò i piú illustri medici; e allora cominciò
per Clelia un altro imbarazzo terribile e non previsto: bisognava che il bimbo
non pigliasse nessuna delle medicine prescritte.
Ma tenuto in letto piú che
le condizioni del suo organismo non tollerassero, il bimbo infermò veramente.
Come dire ai medici la cagione di questo male? Straziata cosí da necessità
contrastanti, Clelia fu per perdere il senno. Che fare? quale il miglior
partito? Consentire a una guarigione apparente, e perdere in tal modo il frutto
di cosí lunga e dolorosa menzogna? Fabrizio, dal canto suo, non sapeva né
perdonarsi la violenza che faceva al cuore dell'amica né rinunciare al suo
disegno. Aveva trovato modo d'entrar ogni notte presso il bimbo malato; ma ciò
portava un'altra complicazione: anche la marchesa veniva ad apprestargli le
cure: cosí Fabrizio la vedeva alla luce delle candele, e il cuore angosciato di
lei stimava quello un peccato gravissimo che le faceva presagir la morte di
Sandrino.
Invano i piú celebri
casisti, consultati intorno all'osservanza del voto, quando l'attenervisi fosse
evidentemente dannoso, avevan risposto che non si poteva considerar peccaminosa
infrazione quella in cui la persona impegnata da promessa con la divinità
incorreva non per un vano piacere dei sensi, ma per evitare un male certo e
manifesto. La povera donna non fu meno desolata, e Fabrizio vide che la sua
singolar tenerezza portava inevitabilmente alla morte di Clelia e del
figliuolo.
Ricorse all'amico conte
Mosca, il quale, per quanto vecchio ormai e ministro, fu commosso da questa
storia d'amore che in gran parte ignorava.
— Io vi procurerò
l'assenza del marchese per cinque o sei giorni. Quando vi occorre?
Qualche giorno dopo,
Fabrizio venne a dirgli che tutto era disposto per approfittar dell'assenza.
Due giorni piú tardi il
marchese, che tornava dalle sue terre nel Mantovano, fu catturato da briganti,
per quanto ne poté capire, assoldati per una vendetta privata, i quali, senza
fargli né male né sgarbi, lo misero in una barca che impiegò tre giorni a
scendere lungo il Po; poi lo deposero in un'isola deserta del fiume, dopo
avergli tolto tutto il denaro e gli oggetti di valore. Gli ci vollero due
giorni per poter tornare al suo palazzo di Parma; e lo trovò parato a lutto e
tutti i familiari nella desolazione.
Il ratto, eseguito con
tanto accorgimento, ebbe funesti effetti: Sandrino, allogato segretamente in
una grande e bella casa di campagna, dove la marchesa andava quasi ogni giorno
a vederlo, morí dopo qualche mese. Clelia pensò che la colpiva un giusto
castigo perché infedele al suo voto: troppe volte avea visto Fabrizio, e di
notte e fin di giorno, durante la malattia del bambino. Al quale non
sopravvisse che poco; ma ebbe il conforto di morir fra le braccia dell'amico
suo.
Fabrizio
era troppo sincero credente per ricorrere al suicidio: sperava di ritrovar
Clelia in un mondo migliore, ma sentiva anche che molto doveva riparare in
questo.
Poco dopo la morte di
Clelia, dispose delle sue sostanze: assicurò una pensione di mille lire a
ciascuno de' suoi servitori, e non se ne riserbò che altre mille per sé; diede
terre per circa centomila lire alla contessa Mosca, pari somma alla marchesa
Del Dongo sua madre, e ciò che avanzava del patrimonio paterno, a una delle
sorelle mal maritata. La dimane, dopo aver mandato a chi di ragione le
dimissioni dal suo ufficio di arcivescovo e la rinunzia a tutti gli altri
uffici ed onori di cui lo avevano successivamente colmato il favore di Ernesto
V e la benevolenza del conte Mosca, si ritirò nella Certosa di Parma, nelle
selve prossime al Po, a due leghe da Sacca.
La contessa Mosca aveva
non che consentito, approvato che suo marito riprendesse il Ministero, ma non
volle mai ritornare negli Stati d'Ernesto V. Teneva la propria corte a Vignano,
un quarto di lega distante da Casalmaggiore, sulla riva sinistra del Po, e per
conseguenza in territorio austriaco. E nel magnifico palazzo di Vignano, che il
conte aveva fatto costruire per lei, riceveva il giovedí tutto il bel mondo di
Parma, e ogni giorno i suoi numerosi amici. Fabrizio non si sarebbe un giorno
solo astenuto dall'andare a Vignano. In poche parole, la contessa riuniva tutti
gli elementi della felicità; ma non sopravvisse che brevemente all'adorato
nipote, il quale non passò nella sua Certosa che un anno solo.
Le
prigioni di Parma eran vuote, il conte immensamente ricco, Ernesto V adorato
da' suoi sudditi che paragonavano il suo governo a quello dei granduchi di
Toscana.
TO THE HAPPY FEW
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