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Stendhal
La certosa di Parma

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  • XV
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XV

 

Due ore dopo, il povero Fabrizio, ammanettato e legato con una lunga catena sulla sediola, partiva per la cittadella di Parma scortato da otto gendarmi i quali avevano ordine di prender seco via via tutti gli altri distaccati nei villaggi che il corteo doveva attraversare: il podestà in persona seguiva il ragguardevole prigioniero. Verso le sette di sera, la sediola accompagnata da trenta gendarmi e da tutti i monelli della città traversò la bella «Passeggiata», passò innanzi alla palazzina qualche mese prima abitata dalla Fausta, e giunse alla porta esterna della cittadella per l'appunto quando il general Fabio Conti e sua figlia stavano per uscirne. La carrozza del governatore prima di arrivare al ponte levatoio si fermò per lasciar passar la sediola: il generale gridò subito che si chiudessero le porte della cittadella e si affrettò a scender negli uffici per sapere di che si trattasse: e fu molto meravigliato nel riconoscere il prigioniero, che dopo tante ore e tanto viaggio, impacchettato com'era, pareva intirizzito. Quattro gendarmi lo levaron di peso e lo portarono all'ufficio d'immatricolazione. «Dunque, — pensò il governatore vanesio — io ho nelle mie mani questo famoso Fabrizio Del Dongo che da un anno occupa di sé tutta la buona società di Parma!»

Venti volte lo aveva incontrato a Corte, dalla duchessa e altrove; ma non mostrò affatto di riconoscerlo: temeva di compromettersi.

— Si stenda — disse all'impiegato — il processo verbale particolareggiato della consegna che il signor podestà di Castelnovo fa del prigioniero.

Il commesso Barbone, personaggio terribile per il volume della barba e l'aspetto marziale, prese un atteggiamento piú sostenuto e pomposo del consueto, cosí da parere un carceriere tedesco. Persuaso che la duchessa Sanseverina fosse quella che piú d'ogni altro s'era adoperata nell'impedire al governatore suo padrone di divenir ministro della guerra, fu insolentissimo col prigioniero; gli rivolse la parola trattandolo col «voi», pronome che in Italia non si usa che coi servitori.

— Io sono prelato della Santa Romana Chiesa — rispose Fabrizio dignitosamente — e gran vicario di questa diocesi; e la mia nascita sola basterebbe a darmi diritto a riguardi.

— Io non ne so nulla: — replicò il commesso piú insolentemente che mai — fornitemi le prove di ciò che affermate, mostratemi i brevetti che vi dàn diritto a questi rispettabili titoli.

Fabrizio non aveva brevetti e non rispose. Il general Fabio Conti, dritto in piedi accanto al suo impiegato, lo guardava scrivere, senza levar gli occhi sul prigioniero, per non essere obbligato ad attestare che quegli era realmente Fabrizio Del Dongo.

A un tratto Clelia Conti, che aspettava in carrozza, sentí che un gran baccano succedeva nel corpo di guardia. Il Barbone, facendo una descrizione minuziosa e impertinente dei connotati del prigioniero, gli ordinò di aprirsi le vesti  per verificare il numero e l'entità delle scalfitture ricevute nell'«affare Giletti».

— Non posso: — disse Fabrizio con un sorriso amaro — non sono in grado di obbedire ai suoi ordini: me lo impediscono le manette.

— Come! — gridò il generale con aria ingenua — il prigioniero ha le manette dentro la fortezza? Ma questo è vietato dai regolamenti: ci vuole un ordine speciale. Levategliele subito.

Fabrizio lo guardò: «Ecco un bel gesuita; — pensò — è un'ora che mi vede le manette e fa il meravigliato!»

I gendarmi tolsero le manette: avevan saputo che Fabrizio era nipote della duchessa Sanseverina, e non si fecero pregare ad usar verso di lui una untuosa urbanità che contrastava singolarmente con la villana sgarberia del commesso. Questi ne fu punto e disse a Fabrizio, che se ne stava fermo al suo posto:

— Fuori, dunque! spicciamoci. Mostrateci le scalfitture ricevute dal povero Giletti il giorno dell'assassinio. — Fabrizio gli si avventò contro, e gli appioppò tale uno schiaffo che il Barbone cadde dalla sua seggiola tra le gambe del generale. I gendarmi afferrarono per le braccia Fabrizio, che non si mosse: il generale stesso e due gendarmi che gli stavano accanto rialzarono il commesso che aveva il viso tutto insanguinato. Due gendarmi rimasti indietro corsero a chiuder l'uscio, supponendo che il prigioniero cercasse di scappare. Il brigadiere che li comandava giudicò che una fuga non potesse tentarsi poiché in fin de' conti il prigioniero era nell'interno della cittadella; tuttavia, per impedire il disordine e per moto istintivo di poliziotto, s'avvicinò alla finestra. Di rimpetto a questa finestra aperta e a pochi passi di distanza stava ferma la carrozza del generale: Clelia vi s'era raggomitolata nel fondo per non veder la triste scena che si svolgeva nell'ufficio: all'udir quel fracasso guardò e domandò al brigadiere:

— Che succede?

— Signorina, il signor Fabrizio Del Dongo ha appiccicato un sonorissimo schiaffo a quell'insolente di Barbone.

— Come? quello che conducono in prigione è il signor Del Dongo?

— Eh, sicuro: — disse il brigadiere — tutte queste cerimonie si fanno perché quel povero giovinotto appartiene all'alta aristocrazia; credevo che la signorina lo sapesse.

Clelia non si ritirò piú dallo sportello: ogni volta che i gendarmi si movevano un poco d'intorno alla tavola, scorgeva il prigioniero. «Chi m'avesse detto che lo avrei riveduto cosi, quando l'incontrai sulla strada del lago di Como! Mi dette la mano per salire nella carrozza di sua madre... Già fin d'allora c'era la duchessa! Chi sa se i loro amori erano già cominciati a quel tempo?»

Nel cosí detto partito liberale, guidato dal Raversi e dal generale Conti, si ostentava di non aver dubbi intorno alla natura dell'affetto che legava Fabrizio alla duchessa; e il conte Mosca, detestatissimo, era per la sua dabbenaggine argomento a epigrammi infiniti.

«Dunque, — pensò Clelia — è prigioniero, e prigioniero de' suoi nemici! perché in sostanza il conte Mosca, quando pur fosse un angelo, non potrebbe non essere felicissimo di quest'arresto.»

Scoppiò una risata nel corpo di guardiani

— Jacopo, — domandò di nuovo al brigadiere con voce commossa — che accade?

— Il generale ha domandato solennemente al prigioniero perché abbia schiaffeggiato il Barbone; e monsignor Fabrizio gli ha risposto freddo freddo: "M'ha chiamato assassino: mostri i titoli e i brevetti che lo autorizzano a darmi questo titolo." E la gente ride.

Un carceriere che sapeva scrivere sostituí il Barbone, che uscí, e Clelia lo vide che s'asciugava col fazzoletto il sangue che colava dalla sua facciaccia: bestemmiava come un turco e gridava: — Questa carogna di Fabrizio deve morire per le mie mani: lo ruberò al boja! — e cosí via. Si fermò tra la finestra dell'ufficio e la carrozza del generale per guardar Fabrizio e gridare e bestemmiare anche peggio.

— Andatevene, — gli disse il brigadiere — non si parla cosí davanti alla signorina.

Il Barbone alzò il capo per guardar la carrozza e i suoi occhi si incontraron con quelli di Clelia alla quale sfuggi un grido d'orrore. Non aveva mai visto cosí da vicino su faccia d'uomo espressione cosí atroce. «L'ammazzerà: — pensò — bisogna che ne avverta don Cesare.» Era suo zio, uno dei piú rispettabili sacerdoti della città: il fratello, generale Conti, gli aveva fatto avere il posto di economo e di primo elemosiniere della prigione.

Il generale rimontò in carrozza.

— Vuoi tornare a casa, — domandò alla figliola — o preferisci aspettarmi, forse per un pezzo, nel cortile del palazzo? Bisogna che di tutto questo io vada a informar il sovrano.

Fabrizio uscí dall'ufficio, scortato da tre gendarmi che l'accompagnavano alla stanza destinatagli: Clelia guardò dallo sportello, e il prigioniero le era assai presso: in quel momento rispose al padre: — Verrò con te. — Fabrizio, udendo queste parole pronunciate cosí da vicino, levò gli occhi e i suoi sguardi s'incontraron con quelli della fanciulla. «Quanta dolce malinconia in quel viso, — pensò — come s'é fatta bella, dal tempo del nostro incontro sul lago di Como! Come si rivela su quella fronte la profondità del pensiero! Han ragione quando la paragonano alla duchessa. Che angelica fisionomia!» Il Barbone, tuttavia sanguinante, che non a caso s'era fermato presso la carrozza, fermò col gesto i tre gendarmi che accompagnavano Fabrizio, e girando dietro al mantice per accostarsi al generale, disse:

— Poi che il prigioniero ha commessi atti di violenza nell'interno della cittadella, non è il caso di applicare l'articolo 157 del regolamento, e di mettergli le manette per tre giorni?

— Eh, andate al diavolo! — gridò il generale, cui questo arresto procurava fastidi non lievi. Bisognava che pensasse a non spingere agli estremi né la duchessa né il conte Mosca: e frattanto chi sa come piglierebbe il conte la faccenda? In sostanza, l'assassinio di un Giletti era un nonnulla e solamente l'intrigo aveva potuto farne qualcosa.

Durante questo breve dialogo, Fabrizio in mezzo ai gendarmi era bellissimo a vedere: cosí fiero e nobile nell'aspetto, i lineamenti delicati, il sorriso di sprezzo che gli errava sulle labbra facevano un grazioso contrasto con le figure grossolane dei gendarmi che lo circondavano. E ciò non era, per cosí dire, che la parte esteriore della fisionomia: egli era affascinato dalla bellezza celestiale di Clelia e gli occhi dicevano il suo rapimento. Lei, pensosa, non s'era ritirata dallo sportello: egli la salutò con un vago sorriso rispettoso, e dopo un istante:

— Mi pare, signorina, che in altri tempi, presso un lago, io ho già avuto l'onore di incontrarla, con accompagnamento di gendarmi anche allora.

Clelia arrossí e rimase cosí interdetta che non trovò parola per rispondere. «Che nobiltà di tratti fra tanta trivialità di persone e di cose!» pensava quando Fabrizio le si rivolse. La commossa pietà e direm quasi la tenerezza profonda ond'era preso l'animo suo, le tolsero la presenza di spirito necessaria per trovar qualche parola: si accorse del suo silenzio e si fece anche piú rossa. Appunto allora fu spalancato il portone della cittadella: la carrozza di Sua Eccellenza aspettava quasi da un minuto, e il fragore fu cosí violento che quando pure Clelia avesse trovato parole da rispondere, Fabrizio non avrebbe potuto udirle.

Trascinata dai cavalli che, subito fuor dal ponte levatoio, avevan preso il galoppo, Clelia diceva fra sé: «Mi deve aver trovata molto ridicola!... peggio: deve aver pensato ch'io ho un animo vile, e che non ho risposto al suo saluto perché lui è prigioniero e io son la figlia del governatore!»

Questo pensiero cagionò alla ragazza, che era di squisito sentire, un vero tormento. «E quel che fa anche piú spregevole il mio contegno — soggiunse — è che allora, quando c'incontrammo per la prima volta con accompagnamento di gendarmi, come ha detto, io ero prigioniera e fu lui che mi tirò da quel frangente... Sí purtroppo: sono stata villana e ingrata. Povero giovine! ora che è in disgrazia, tutti saranno ingrati con lui. Allora mi disse: "Si ricorderà del mio nome a Parma?". Come deve disprezzarmi: ora ci voleva tanto poco a dir una parola cortese! Proprio, la mia condotta è stata indegna con lui! Allora, senza la generosa offerta della carrozza di sua madre, avrei dovuto seguire i gendarmi tra la polvere, o, peggio ancora, montar in groppa con qualcuno di loro: allora l'arrestato era mio padre e io senza difesa! Sí, il mio contegno non ha scusa: e un uomo come lui deve averlo sentito. Che nobiltà, che serenità! Pareva veramente un eroe fra vili nemici. Mi spiego la passione della duchessa: s'egli è tale in mezzo ad avversità che possono aver conseguenze terribili, quale apparirà nei giorni felici?»

La carrozza del governatore della cittadella rimase piú d'un'ora nella corte del palazzo, e ciò non ostante, quando il generale uscí dall'udienza del sovrano, a Clelia non parve si fosse trattenuto a lungo.

— Che cosa ha ordinato Sua Altezza? — domandò al padre.

— Le parole han detto: «la prigione», gli occhi: «la morte».

— La morte! o Dio! — sclamò Clelia.

— Andiamo, chetati! — riprese il generale inquieto. — Già sono uno sciocco io a parlar di queste cose con una bambina.

Fabrizio intanto saliva i trecentottanta gradini che conducevano alla torre Farnese, prigione nuova edificata sulla piattaforma della gran torre a un'altezza portentosa. Neppur gli passò per la mente il mutamento avvenuto nelle sue sorti: pensava soltanto: «Che sguardo! e quale espressione! e che profonda pietà! Pareva dicesse: la vita è tutta un tessuto di sciagure: non vi affliggete troppo di quanto accade. Non siamo quaggiú per essere infelici? E come sí belli occhi son rimasti fissi su di me, anche quando i cavalli si avanzavano nell'androne cosí fragorosamente!»

Dimenticava affatto d'essere un disgraziato.

Clelia segui il padre in varii salotti: in principio di serata, nessuno aveva notizia dell'arresto del «gran colpevole». (Tale fu l'espressione adottata per designare piú tardi quel giovinetto imprudente.)

Notarono quella sera nel volto di Clelia una animazione inconsueta; e fu facile notarlo in quanto che la mancanza appunto d'animazione, di vivacità, una espressione di noncuranza erano i difetti di quella bellissima giovine. Se talvolta la confrontavano alla Sanseverina, appunto quell'aria di freddezza, di viver per cosí dire al disopra delle cose del mondo facevan pendere la bilancia dalla parte della sua rivale. In Inghilterra e in Francia, paesi dominati dalla vanità, avrebbero dato opposto giudizio. Clelia Conti era una giovinetta ancora un po' troppo esile, che ricordava le belle figure di Guido Reni; ma non vogliamo nascondere che secondo i canoni della bellezza greca si potevano rimproverare a quella testa i lineamenti un po' marcati: le labbra, per esempio, cosí piene di grazia, eran piuttosto grosse.

Quella figura, nella quale le grazie ingenue e la celeste impronta d'un'anima nobilissima s'univano a comporre una veramente rara e singolare bellezza, non aveva nulla che rassomigliasse alle statue greche. La duchessa invece aveva un po' troppo della nota beltà dell'ideale e la sua testa lombarda rammentava il voluttuoso sorriso e la dolce malinconia delle belle Erodiadi di Leonardo. Tanto la duchessa era brillante, sfolgorante di spirito e di gaiezza e con tanto fervore si interessava a qualunque questione, che l'andamento della conversazione portava innanzi agli occhi dell'anima sua, e tanto Clelia se ne rimaneva calma e difficile a commuovere, sia per disdegno di quanto la circondava, sia per un oscuro rimpianto di qualche lontana chimera. Per un certo tempo crederono che si sarebbe data alla vita religiosa: a vent'anni andava malvolentieri ai balli, e se ci andava col padre, lo faceva per obbedienza e per non esser di ostacolo alle ambizioni di lui.

«E pensare — si ripeteva molto spesso quel volgarissimo uomo del generale — che avendo, per grazia di Dio, la piú bella e la piú virtuosa figliuola dello Stato di Parma, mi è impossibile di trarne qualche vantaggio per la mia carriera! Io vivo troppo isolato, e non ho al mondo che lei: mi ci vuole una famiglia che mi metta in vista, e mi dia de' salotti in cui i miei meriti e le mie attitudini al governo diventino argomento fondamentale di ogni discorso politico. Mah! questa figliuola cosí bella, cosí saggia, cosí pia, se appena un giovine ben visto a Corte si studia di piacerle, di offrirle i propri omaggi, si irrita e diventa di pessimo umore. Licenziato il pretendente, la fronte si rischiara e io la vedo perfino allegra... fino a che un altro pretendente non si presenti.

«Il piú bell'uomo della Corte, il conte Balbi, ci si è provato e ha fatto fiasco; il piú ricco signore degli Stati di Sua Altezza, il marchese Crescenzi, è venuto in seguito. Niente... Dice che con lui sarebbe infelicissima.

«Non c'é dubbio: — diceva altre volte fra sé il generale — gli occhi di Clelia sono indiscutibilmente piú belli di quelli della duchessa, e specialmente perché, qualche rara volta, hanno un'espressione piú profonda. Ma quando accade che sfavillino cosí magnificamente? Non mai in un salotto dove la gente potrebbe ammirarli: per istrada, quando è sola con me a passeggio, dov'é capace di intenerirsi, per esempio, ai guai d'un qualunque straccione. Ho avuto un bel dirle: "Conserva questo sguardo sublime per il salotto dove andremo stasera". Niente affatto! Se si degna di venire con me in società, ci porta un'espressione altezzosa di obbedienza passiva, che non è fatta davvero per incoraggiare.» Il generale, come si vede, non risparmiava tentativi per cercare un genero a modo suo, ma ciò che diceva era la verità. I cortigiani, per i quali l'introspezione sarebbe una inutile cura poiché non han nulla da osservare entro se stessi, sanno badare a tutto, e avevan notato che appunto in quei giorni ne' quali, fantasticando di continuo, Clelia non riusciva a fingere di interessarsi a queste cose, la Sanseverina le si metteva attorno studiandosi di farla parlare. Clelia aveva capelli d'un biondo cenere che risaltavan dolcemente sul pallore delle sue guance d'un colorito fino, ma un po' troppo pallido. Dalla sola forma della fronte, un osservatore attento avrebbe trovato la prova che questa nobiltà di sembiante, questa signorilità di portamento rivelavano un'intima noncuranza di ogni volgarità. Non già che le fosse impossibile interessarsi a questa o a quella questione. Non le pareva che mettesse il conto di interessarsi a qualcuno o a qualcosa.

Da quando suo padre era stato nominato governatore della cittadella, Clelia era, se non felice, almeno tranquilla, su nelle altitudini del suo appartamento. Lo spropositato numero di gradini che bisognava salire per giungere all'abitazione del governatore, situato sul ripiano della gran torre, allontanava i visitatori noiosi, di guisa che, per questa ragione d'ordine materiale, ella poteva godere d'una certa libertà da convento: e in ciò consisteva tutta l'ideale felicità che un certo tempo ella aveva pensato di chiedere alla vita religiosa. L'idea di dover mettere la sua cara solitudine e i suoi piú intimi pensieri alla mercé d'un uomo che, a titolo di marito, si sarebbe creduto in diritto di turbar la sua vita interiore, la terrorizzava. Cosí, se la solitudine non le dava la felicità, le risparmiava per lo meno sensazioni troppo dolorose.

Il giorno medesimo in cui Fabrizio era stato portato in fortezza, Clelia e la duchessa s'incontrarono a una serata del conte Zurla, ministro dell'interno; subito si fece attorno a loro gran circolo. Clelia, quella sera, era piú bella della duchessa: i suoi occhi avevano una singolare e profonda espressione di pietà e d'indignazione al tempo stesso. La gaiezza e la conversazione spiritosa della Sanseverina parvero a momenti suscitare in Clelia cosí pungente affanno che rasentava l'orrore. «Come piangerà e si lamenterà questa povera donna — pensava — quando saprà che il suo amante, quel giovine di cosí gran cuore e di cosí nobile fisionomia, è stato messo in prigione! E quegli sguardi del sovrano che lo condannano a morte! O potere assoluto, quando finirai di incombere sull'Italia? O anime basse e venali! E sono la figlia d'un carceriere! E me ne sono mostrata degna, non rispondendo neppure al saluto di Fabrizio che in altri tempi fu il mio benefattore! Che penserà egli di me, ora, solo nella sua stanza, solo con una povera lucerna?» Turbata da questo pensiero, ella volgeva gli sguardi indignati sulla splendida illuminazione dei salotti del ministro dell’interno.

«Mai — diceva il circolo cortigianesco formatesi attorno alle due signore, cercando di insinuarsi e partecipare alla loro conversazione — mai non si son parlate cosí cordialmente e animatamente come stasera. Può darsi che la duchessa, sempre in guardia contro gli odii ond'é circondato il primo ministro, abbia pensato per Clelia a qualche gran matrimonio?» E dava fondamento a questa supposizione un fatto nuovo e non osservato mai: gli occhi della fanciulla eran piú ardenti e piú appassionati che non fossero quelli della Sanseverina. La quale, dal canto suo, era meravigliata, e bisogna dirlo a onor suo, felice delle attrattive insospettate che scopriva nella giovine solitaria, e la guardava con un piacere che assai di rado si prova guardando una rivale. «Ma che succede? — si domandava — Clelia non è stata mai cosí bella e cosí commovente: che il cuore si sia svegliato? Ma se è cosí, si tratta di un amore infelice perché quest'animazione insolita nasconde un dolore cupo... Ma l'amore infelice è muto. O si tratta di riconquistare un incostante con un brillante successo in società?» E guardava attentamente i giovani che la circondavano: ma non ce n'era alcuno che si distinguesse per una particolare espressione: eran tutti dei vanesii piú o meno soddisfatti di sé. «Ma qui c'é del miracoloso — continuava a rimuginare tra sé e sé, piccata di non indovinare. — Ma non m'inganno: Clelia mi fissa come se io destassi in lei un nuovo straordinario interesse. Che abbia ricevuto qualche ordine da quell'ignobile cortigiano di suo padre? Ma io la credevo di animo cosí giovine e puro, da non mai avvilirsi per denaro. Che Fabio Conti abbia qualcosa da chiedere al Mosca?»

Verso le dieci un amico si avvicinò alla duchessa e le sussurrò poche parole: ella divenne pallidissima; Clelia le prese la mano e osò stringergliela, in silenzio.

— Grazie: ora la capisco: lei ha un nobile cuore — disse la Sanseverina con violento sforzo su se stessa. Ebbe appena la forza di pronunciar queste parole. Fece un sorriso alla padrona di casa, che si alzò per accompagnarla fino alla porta dell'ultimo salone, onore dovuto soltanto alle principesse del sangue e che contrastava penosamente con lo stato attuale della duchessa. Tornò ancora alla contessa Zurla, ma, nonostante ogni sforzo, non riuscí a rivolgerle una parola.

Gli occhi di Clelia s'empiron di lagrime nel veder la duchessa che passava per quelle sale gremite, in quel momento, di quanto aveva di piú notevole la buona società di Parma. «Che avverrà di quella povera donna — pensò —quando sarà sola nella carrozza? Da parte mia sarebbe indiscreto offrirmi per accompagnarla: non mi arrischio... Eppure, che consolazione sarebbe per quel povero prigioniero solo, chiuso in chi sa quale orribile stanza, saper ch'é amato sino a questo punto! In che squallida solitudine l'han cacciato! E noi siamo qui in queste sale illuminate... Che orrore! Ma non si può trovar modo di fargli pervenire una parola? Mio Dio! sarebbe un tradire mio padre che tra i due partíti si trova già in una condizione cosí delicata! Ma che sarà di lui, se si espone all'odio passionato della duchessa, la quale dispone della volontà del primo ministro che nella maggior parte degli affari fa, da padrone, quello che piú gli piace? E d'altra parte, il principe vuoi sapere ogni particolare di quanto succede in fortezza, e non ischerza: la paura lo fa crudele... In ogni caso, Fabrizio (Clelia non diceva piú il signor Del Dongo) è da compiangere ben altrimenti. Non si tratta per lui di perdere un impiego lucroso!... E la duchessa?... Che terribile cosa è l'amore!... Eppure tutti questi bugiardi ne parlano come d'una sorgente di contentezza. E piangono le donne di una certa età perché non posson piú né sentire né ispirar l'amore.... Oh, non dimenticherò mai questa scena! Gli occhi della duchessa cosí belli, cosí radiosi son diventati cupi e come spenti, dopo quel che il marchese N... è venuto a sussurrarle! Ah! bisogna che Fabrizio sia proprio meritevole di un amor come questo!»

Tra queste cupe meditazioni che le occupavan tutta l'anima, i complimenti e le lusinghe che le fioccavano da ogni parte le riuscirono anche piú sgradevoli del solito. Per liberarsene, s'accostò a una finestra aperta e riparata da una tenda di taffetà: sperava che nessuno si sarebbe permesso di seguirla in quella specie di ritiro. La finestra dava sopra una piantagione d'aranci, in piena terra che nell'inverno bisognava coprir con una tettoia; ed ella respirava il delizioso profumo che ne esalava e pareva rendere qualche po' di calma al suo spirito... «Anch'io ho visto che ha un'aria assai nobile; ma inspirar tanta passione in una donna come quella! Ella insomma può vantarsi di aver ricusato gli omaggi del principe... e se avesse voluto, qui sarebbe stata la regina!... Mio padre dice che se un giorno il sovrano fosse stato libero, l'avrebbe sposata: a tal segno era innamorato di lei. E questo amore per Fabrizio dura da tanto tempo! Son piú di cinque anni dacché li incontrammo sul lago di Como.... Già, cinque anni — ripeté dopo un momento di riflessione. — E sebbene fossi bambina, e tante cose mi passavan sotto gli occhi senza ch'io le vedessi, pure mi stupí l'ammirazione che avevan per Fabrizio quelle due signore.»

Osservò con piacere che nessuno dei giovani che le avevano parlato prima cosí premurosamente, s'era arrischiato ad avvicinarsi al balcone: uno solo, il marchese Crescenzi, fatto qualche passo verso di lei, s'era poi fermato a un tavolo da giuoco. «Se almeno — pensò — avessi sotto la mia finestra, la sola che abbia un po' d'ombra in fortezza, la vista di belle piante d'arancio, come qui: mi pare che le mie idee sarebbero meno tristi! Ma per tutta prospettiva non ho che le enormi pietre squadrate della torre Farnese.... Ah! — disse con un sussulto — forse l'han messo là. Non vedo l'ora di parlare a don Cesare: forse sarà meno severo del generale! Da mio padre non saprò nulla di certo, ma don Cesare me lo dirà.... Mi potrei comprare qualche pianta d'arancio, e metterla sotto la finestra della mia uccelliera; mi toglierebbero la vista della torre Farnese. Ora che conosco uno dei carcerati, m'é piú odiosa che mai.... Sí, è la terza volta che l'ho visto: una volta a Corte, al ballo pel compleanno della principessa; oggi tra' gendarmi mentre l'orribile Barbone chiedeva per lui le manette; e sul lago di Como.... Già, son cinque anni! Che aria di sbarazzino aveva allora! Come squadrava i gendarmi! E che occhiate gli davan sua madre e sua zia! Di certo quel giorno ci doveva esser tra loro qualcosa di particolare, qualche segreta intelligenza: mi figurai che anche lui avesse paura dei gendarmi....» Clelia ebbe un brivido «Ma com'ero sciocca! Senza dubbio, già fin da allora la duchessa aveva dell'affezione per lui... Come ci fece ridere, dopo un po', quando le signore, non ostante la loro preoccupazione manifesta, si furono assuefatte alla presenza d'un'estranea!... E io oggi non gli ho risposto!... O ignoranza e timidità, come spesso somigliate a quel che v'é di piú vero! E ho piú di vent'anni! Avevo ragione di pensare a un convento! In verità io son fatta per vivere in un ritiro. Certo s'é detto: "É la degna figliuola d'un carceriere"; e certo mi disprezzerà! Appena potrà scrivere alla duchessa, le racconterà questa mia mancanza di riguardo, ed ella mi crederà un'ipocrita; perche questa sera certo deve aver creduto ch'io ho preso viva parte alla sua sventura.»

S'avvide che qualcuno s'avvicinava; e, le parve, con intenzione di mettersele accanto sul balcone. Provò un senso di contrarietà che si rimproverò subito; ma i sogni ai quali l'avrebbero tolta non erano senza dolcezza. «Ecco un seccatore che avrà una bella accoglienza!» pensò; volse il capo con aria altezzosa, e scorse la faccia timida dell'arcivescovo che s'accostava a piccoli passi lentissimamente. «Questo sant'uomo — pensò — non capisce nulla. Perché viene a turbare una povera figliuola il cui unico bene è la tranquillità?»; e lo salutò con rispetto, ma con fredda alterezza, quando il prelato le disse:

— Signorina, sa l'orribile notizia?

Gli occhi di Clelia avevano già preso una diversa espressione, ma seguendo le istruzioni cento volte ripetute da suo padre, rispose con aria d'ignoranza, che il linguaggio degli occhi contraddiceva manifestamente:

— Monsignore, io non so nulla.

— Il mio primo gran vicario, il povero Fabrizio Del Dongo, che ha colpa della morte di quel brigante del Giletti quanta ne posso avere io, è stato arrestato a Bologna, dove viveva sotto il nome di Bossi, e chiuso nella vostra cittadella. Ce l'han portato incatenato alla vettura! Una specie di carceriere, un tal Barbone, che assassinò un fratello e fu graziato ch'é poco, voleva usargli violenze: ma il mio giovine amico non è uomo da tollerare insulti, e ha fatto rotolare a' suoi piedi l'infame avversario: dopo di che l'han cacciato in una segreta, a venti piedi sotto terra, dopo avergli messo le manette.

— Le manette no!...

— Ah, lei sa dunque qualche cosa! — sclamò l'arcivescovo, e il suo viso parve perder la primitiva espressione di scoramento. — Ma qualcuno potrebbe avvicinarsi a interromperci: vuoi esser lei tanto buona da consegnare a don Cesare il mio anello pastorale che... ecco qui?

La fanciulla lo prese, ma non sapeva dove metterlo, per non rischiar di perderlo.

— Lo metta al pollice, — disse l'arcivescovo, e glielo infilò. Posso esser sicuro che lei consegnerà quest'anello?

— Sí, monsignore.

— E vuole promettermi il segreto su quanto sto per dirle, anche nel caso ch'ella non creda d'accogliere la mia domanda?

— Ma sí, monsignore: — rispose la fanciulla tutta tremante nell'osservar l'aria grave e cupa che il vecchio aveva preso, a un tratto — il nostro venerabile arcivescovo — aggiunse — non può darmi che ordini degni di lui e di me.

— Dica a don Cesare che io gli raccomando il mio figliuolo d'adozione: so che i birri che l'hanno arrestato non gli han lasciato il tempo di prendere il suo breviario: prego don Cesare di fargli avere il suo, e di mandar domani all’arcivescovato, ch'io gliene darò un altro in cambio. Preghi pure don Cesare di far avere a monsignor Del Dongo l'anello che le ho consegnato.

L'arcivescovo fu interrotto dal generale Fabio Conti che veniva a prender la figliuola per andarsene: e la conversazione continuò per pochi minuti ancora, e monsignore abilmente se ne valse. Senza neppur accennare al nuovo prigioniero, fece in modo che il discorso lo conducesse a ricordare opportunamente certe massime morali e politiche: per esempio: ci sono ore di crisi nella vita delle Corti che posson decidere della sorte anche dei personaggi piú eminenti: e sarebbe grave imprudenza mutare in odio personale quella opposizione politica che non è se non il semplice effetto di una diversità di opinioni. E l'arcivescovo, lasciandosi trasportar dal profondo rammarico cagionategli da quell'arresto cosí imprevedibile, giunse a dire che certamente ognuno doveva conservar i gradi di cui godeva e gli uffici che esercitava, ma sarebbe una temerità gratuita l'attirarsi per l'avvenire odii furiosi prestandosi a certe cose che non si possono dimenticare.

Quando il generale fu in carrozza con la figliuola:

— Queste si chiamano minacce! — brontolò — minacce a un uomo come me!

Né per venti minuti ci furon altre parole tra il padre e la figlia.

Nel ricever dalle mani dell'arcivescovo l'anello pastorale, Clelia aveva fatto questo proponimento: appena in carrozza, parlare a suo padre del piccolo servizio che il prelato le aveva chiesto: ma quando udí la parola «minacce» pronunziata irosamente, capí ch'egli avrebbe intercettata la commissione: coprí con la sinistra l'anello, e lo strinse appassionatamente. Per tutto il tempo che durò il tragitto dal Ministero dell’interno alla fortezza, si domandò se il tacere fosse una colpa. Era assai pia e timorata, e il suo cuore, di solito cosí tranquillo, batteva con inconsueta violenza; ma il «chi va là» della sentinella dal baluardo sopra la porta squillò all'accostarsi della vettura prima ch'ella fosse riuscita a trovar le parole adatte per indurre suo padre a cedere, tanto temeva di non riuscirvi. E salí i trecentosessanta gradini che portavano al loro appartamento, ma le parole adatte non le trovò.

Parlò subito allo zio; ma don Cesare la sgridò e dichiarò che non si sarebbe occupato di nulla.

 




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