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Stendhal La certosa di Parma IntraText CT - Lettura del testo |
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XVII
Il conte si considerava ormai fuori del Ministero. «Vediamo un poco — pensò — quanti cavalli potremo tenere dopo il mio licenziamento, poiché cosí saran chiamate le mie dimissioni volontarie.» E fece i suoi conti. Era entrato al governo con ottantamila lire di patrimonio: con grande meraviglia, vide che, a conti fatti, ora la sua fortuna non arrivava a cinquecentomila. «Son ventimila lire di rendita al massimo: — disse — son proprio uno sciocco: non c'é borghese a Parma che non creda ch'io ne ho centocinquantamila e in questo argomento il principe è anche piú borghese degli altri. E quando mi vedranno al verde, diranno che io so ben nascondere la mia fortuna. Ah, ma perdio! se rimango ancora tre mesi al governo, la vedremo almeno raddoppiata.» In questi computi trovò un'occasione per scrivere alla duchessa, e la colse a volo: ma, per farsi perdonare questo ardimento, dato l'ultimo colloquio avuto con lei, riempí la lettera di calcoli e di cifre. «Non avremo, — concluse — per vivere in tre a Napoli, voi, Fabrizio ed io, che ventimila lire di rendita. Fabrizio ed io non avremo che un solo cavallo da sella per tutti e due.» Aveva appena spedito questa lettera quando gli fu annunciato l'avvocato fiscale Rassi: il conte lo ricevé con un'alterigia che rasentava l'impertinenza. — Come! Voi fate arrestare a Bologna un cospiratore che io proteggo; vi proponete di fargli tagliare la testa, e non me ne dite nulla? Conoscete almeno il nome del mio successore? è il generale Conti o siete voi? Il Rassi rimase come inebetito: aveva troppo poco frequentato la buona società, per poter indovinare se il conte parlava sul serio: si fece rosso, ciangottò qualche parola inintelligibile; il conte lo fissava, gustando quell'imbarazzo. A un tratto il Rassi si scosse, e pacatamente, con la disinvoltura di Figaro preso in flagrante da Almaviva: — Signor conte, — disse — con Vostra Eccellenza non farò discorsi inutili: che cosa mi dà per rispondere alle sue domande come io farei col mio confessore? — La croce di San Paolo (é l'ordine cavalieresco del ducato di Parma) o del denaro, se mi fornite un pretesto affinché io possa elargirvelo. — Preferisco la croce di San Paolo che porta seco titolo di nobiltà. — Come, caro fiscale! fate ancora conto della nostra povera nobiltà? — S'io fossi nato nobile, — rispose il Rassi con l'impudenza del suo mestiere — le famiglie di quelli che ho fatto impiccare mi detesterebbero, ma non mi disprezzerebbero. — Va bene: vi risparmierò il disprezzo, — disse il conte — ma toglietemi dalla mia ignoranza: che volete far di Fabrizio? — In verità, Sua Altezza è indecisa: teme che, affascinata dai begli occhi d'Armida (mi scusi, son le parole precise del principe), teme che, soggiogata da due begli occhi, che sedussero un po' anche lui, Vostra Eccellenza lo pianti: e non ha che lei per gli affari della Lombardia. Posso anche dirle — soggiunse abbassando la voce — che le si presenta un'occasione che vale molto piú della croce di San Paolo che lei m'ha promessa: il sovrano le donerebbe, come ricompensa nazionale, una magnifica tenuta del valore di seicentomila lire, che fa parte delle sue proprietà personali, oppure una gratificazione di trecentomila scudi, se Vostra Eccellenza volesse consentire a non occuparsi piú del signor Fabrizio Del Dongo, o almeno a non parlargliene piú altro che in pubblico. — Io m'aspettavo qualche cosa di meglio; — rispose il conte — non occuparmi piú di Fabrizio equivale a guastarmi con la duchessa. — Già: questo è appunto ciò che dice il principe: egli è irritatissimo contro la signora duchessa, sia detto fra noi; e teme che per compensarsi dell'abbandono di quella amabilissima signora, Vostra Eccellenza, ora che è vedovo, gli chiegga la mano della sua cugina principessa la quale non ha piú di cinquant'anni. — Ha proprio indovinato! — esclamò il conte — il nostro sovrano è l'uomo piú furbo dello Stato parmense! L'idea barocca di sposar la vecchia principessa non gli era mai passata per la mente: per un uomo che aborriva il cerimoniale di Corte, non si poteva immaginare matrimonio meno adattato. Si mise, tacendo, a giocherellare con la tabacchiera sul marmo d'un tavolino prossimo alla sua poltrona; il Rassi lo credé imbarazzato: intravide la possibilità di qualche insperato guadagno e gli occhi gli brillarono. — Di grazia, signor conte, — disse — se Vostra Eccellenza vuole accettare o la terra o la gratificazione in denaro, la prego di non cercare altro negoziatore che me: io mi riprometterei — continuò abbassando ancora la voce — di fare aumentare la gratificazione in denaro, o se no, di fare aggiungere una foresta alla tenuta. Se Vostra Eccellenza si degnasse di usare un po' di circospezione e di dolcezza nel parlare a Sua Altezza di quel moccioso che han messo dentro, si potrebbe, credo, erigere in ducato la terra che le offrirebbe la riconoscenza nazionale. Le ripeto: pel momento almeno, il principe detesta la duchessa; ma è indeciso; tanto che io ho qualche volta creduto che ci fosse di mezzo qualcosa di segreto che non osava confessarmi. In sostanza, se io le vendo i suoi segreti piú intimi, noi ci scaviamo una miniera d'oro: e la cosa può farsi senza rischi perché tutti mi credono nemico giurato di Vostra Eccellenza. Se è in furia contro la duchessa, crede per altro, come lo crediamo tutti, che soltanto Vostra Eccellenza può condurre a buon fine tutte le pratiche relative al Milanese. Mi permette di ridire testualmente le parole del sovrano? — disse il Rassi scaldandosi — le parole assumono nell'ordine in cui son poste una particolare fisionomia che nessuna traduzione può rendere, e Vostra Eccellenza ci vedrà forse anche piú di quanto vi veggo io. — Permetto tutto, — disse il conte, continuando con aria distratta a batter la tabacchiera sul marmo — e anzi ve ne sarò grato. — Mi dia patenti di nobiltà trasmissibile, indipendentemente dalla croce di San Paolo, e sarò piú che soddisfatto. Quando chiedo al principe che mi faccia nobile, mi risponde: «Un furfante come te, nobile! bisognerebbe chiuder bottega il giorno dopo: nessuno a Parma chiederebbe piú di essere ascritto alla nobiltà». Per tornare alle faccende di Lombardia, Sua Altezza mi disse non piú che tre giorni fa: «Non c'é che quel briccone lí per dipanare la matassa dei nostri intrighi: se lo mando via, o se va dietro alla duchessa, tanto fa ch'io rinunci per sempre alla speranza d'esser il capo liberale e adorato di tutta l'Italia». Udendo queste parole, il conte tirò un respiro, e pensò: «Fabrizio non morrà» In tutta la sua vita il Rassi non era mai riuscito ad avere una conversazione confidenziale col primo ministro; ed era fuor di sé dalla gioia. Si vedeva sul punto di gettar via quel nome di Rassi, diventato in paese sinonimo di tutto quanto v'é di sozzo e di turpe: il popolino chiamava Rassi i cani arrabbiati: poco tempo prima alcuni soldati s'eran battuti perché un camerata li aveva chiamati Rassi. E non passava settimana che quel malaugurato nome non s'incastrasse in qualche sonetto atroce. Il suo figliuolo, un povero innocente ragazzo di sedici anni, lo scacciavano dai caffé unicamente in odio al suo nome. Lo scottante ricordo di questi incerti del mestiere gli fece commettere un'imprudenza. — Io possiedo una tenuta, — disse accostando la sua seggiola alla poltrona del ministro — e si chiama Riva: vorrei essere il barone Riva. — Perché no? — disse il ministro: e il Rassi gongolava. — Or bene, signor conte, io sarò indiscreto; e oserò indovinare l'oggetto dei suoi desiderii: ella aspira alla mano della principessa Isotta: è una nobile ambizione. Una volta imparentato col principe, Vostra Eccellenza non ha piú da temere disfavore o disgrazia. Lei imbriglia il nostro uomo. Non debbo tacerle ch'egli ha in orrore questo matrimonio con la principessa Isotta: tuttavia, se la faccenda fosse affidata a persona accorta e pagata bene, si potrebbe non disperar della buona riuscita. — Io, caro barone, ne dispererei: io sconfesso anticipatamente qualunque discorso potrete fare in nome mio, ma il giorno in cui questo illustre parentado colmerà i miei voti e mi porrà in cosí alta posizione nello Stato, io vi offrirò trecentomila lire del mio, o consiglierò il sovrano a concedervi quel maggior segno di favore che vi piaccia preferire al denaro. Il lettore giudica un po' lunga questa conversazione; e tuttavia gli facciamo grazia di piú che la metà: essa si protrasse due ore ancora. Il Rassi uscí dal Ministero fuor di sé per la gioia; il conte vi rimase con maggiori speranze di salvare Fabrizio, e piú deciso che mai a dar le sue dimissioni. Gli pareva che il suo prestigio avesse bisogno d'esser rinfrescato dalla partecipazione al governo di persone come il Rassi e il general Conti; e assaporava deliziosamente la possibilità appena intraveduta di vendicarsi del principe. «Può far partire la duchessa, — pensava — ma dovrà rinunciare alla speranza di diventar re costituzionale della Lombardia.» (Questa chimera era ridicola, ma il principe, per quanto uomo di spirito, a forza di fantasticarci su, se n'era infatuato.) Il conte, correndo verso il palazzo della Sanseverina per riferirle la conversazione avuta col Rassi, non stava in sé dalla contentezza; ma trovò che la porta gli era chiusa: il portiere non osò dirgli che l'ordine espresso veniva direttamente dalla signora. Tornò triste al Ministero; tutto il piacere pocanzi procurategli dal colloquio col confidente del principe sfumava: non avendo piú animo di occuparsi di una cosa qualsiasi, passeggiava su e giú malinconicamente per la galleria, quando gli giunse un biglietto. Diceva: «Poiché è proprio vero, mio caro e buon amico, che ormai non siamo che amici, bisogna che non veniate a trovarmi piú di tre volte la settimana. Fra quindici giorni, ridurremo queste visite, sempre care al mio cuore, a due per ogni mese. Se volete farmi cosa grata, date pubblicità alla notizia di questa nostra separazione; se volete poi compensarmi di tutto l'amore che ebbi per voi, dovreste scegliervi un'altra amica. Quanto a me ho grandi progetti di vita dissipata: fo conto di andar molto in società e fors'anche troverò un uomo intelligente che sappia farmi dimenticare le mie sciagure. Come amico, il primo posto nel mio cuore sarà sempre per voi, ma non voglio si possa dire che i miei atti son consigliati dalla vostra saggezza; e soprattutto voglio che si sappia che io non ho piú alcuna influenza sulle vostre risoluzioni. Insomma, caro conte, state sicuro che voi sarete sempre il mio piú caro amico, ma niente altro mai. E non pensate ch'io possa quando che sia tornare indietro. No. Tutto è finito e per sempre. Credete alla mia amicizia.» Il colpo fu troppo forte: il conte scrisse una bella lettera al principe, per dimettersi da tutti i suoi uffici, e la mandò alla duchessa pregandola di farla recapitare a palazzo. Pochi minuti dopo la riebbe strappata in quattro pezzi e sopra uno de' frammenti rimasti bianchi la duchessa aveva scritto: «No, assolutamente no!». Sarebbe difficile descrivere la disperazione del povero conte. «Ha ragione, ha ragione, ne convengo: — andava ripetendo — quell'avere omesso «iniqua procedura» è una vera maledizione! Cagionerà forse la morte di Fabrizio, e questa si tirerà dietro la mia.» Col cuore angosciato, il conte, che non voleva tornare a palazzo, scrisse di suo pugno il motu-proprio che nominava il Rassi cavaliere dell'ordine di San Paolo e gli concedeva la nobiltà ereditaria: vi aggiunse una mezza pagina di relazione per esporre al sovrano le ragioni di Stato che consigliavano siffatto provvedimento. E provò una specie di acre piacere nel fare pur di sua mano le copie di questi atti che mandò alla duchessa. Si perdeva in supposizioni: cercava di indovinare quali fossero veramente i disegni della donna che amava. «Non ne sa nulla neppur lei, ma una cosa intanto è sicura, che non verrà meno alle decisioni annunciate.» E tanto piú si angosciava quanto piú sentiva che non poteva rimproverare alla duchessa alcun torto. «Se mi amò, fu bontà sua: l'amore si è spento, per una mia colpa, involontaria è vero, ma che può aver terribili conseguenze: io non ho diritto di dolermi.» Il giorno dopo seppe ch'ella aveva ricominciato ad andare in società: la sera stessa era stata in tutte le case dove si teneva conversazione. «Che sarebbe accaduto se ci fossimo trovati nello stesso salotto? Come parlarle? In che tono rivolgerle la parola? E come non parlarle?» Il giorno dipoi fu addirittura funereo: s'era sparsa la voce che Fabrizio sarebbe messo a morte, e la città tutta se ne commosse. Si diceva anche che il principe, per riguardo alla nobiltà della casata, s'era degnato concedere che fosse decapitato. «Sono io che l'uccido; — pensava il conte — io non posso mai piú pretendere di riveder la duchessa.» E non ostante questo ragionamento molto semplice, non poté trattenersi dall'andare tre volte sino alla porta del suo palazzo, a piedi, per non dare nell'occhio. La disperazione gli diede anche il coraggio di scriverle. Aveva fatto chiamar due volte il Rassi; ma questi non s'era fatto vedere. «Questa canaglia mi tradisce» pensò. Il giorno seguente, tre importanti notizie tennero in agitazione l'aristocrazia e persino la borghesia di Parma. La condanna a morte di Fabrizio era ormai certissima; e, corollario imprevedibile di questa notizia, la duchessa non si mostrava grandemente afflitta, almeno in apparenza, e dava assai modesto tributo di rimpianto al suo giovine amico; tuttavia profittava con arte sopraffina del pallore impressole da una grave indisposizione che la colse quando Fabrizio fu arrestato. In quel contegno i buoni borghesi imparavano quanto arido sia il cuore d'una dama di Corte! Per decenza bensí e come in sacrifizio ai Mani del giovine, ella aveva troncato ogni relazione col conte Mosca. «Che immoralità!» declamavano i giansenisti parmigiani. Ma già, cosa incredibile, la duchessa pareva dispostissima a far buona accoglienza ai complimenti de' bel giovinetti della Corte; e fu notata in modo specialissimo la sua gaia conversazione col conte Baldi, attuale amante della Raversi, conversazione condita di molte arguzie circa le frequenti gite del Baldi a Velleja. Anche piú indignati erano e la borghesia minuta e il popolino, che attribuivan la morte di Fabrizio alla gelosia del conte Mosca. Del Mosca si parlava anche a Corte, ma soltanto per burlarsi di lui. Infatti, la terza delle grandi novità era la sua dimissione: tutti schernivano il ridicolo innamorato che a cinquantasei anni sacrificava un posto magnifico al rammarico d'esser piantato da una donna senza cuore e che da molto tempo gli preferiva un giovinetto. Il solo arcivescovo capí, o piuttosto sentí, che il conte non poteva onorevolmente restar primo ministro in un paese nel quale senza neppur consultarlo si mozzava la testa a un suo protetto. La voce delle dimissioni del Mosca ebbe per effetto immediato di guarir la gotta del general Fabio Conti, come si dirà a suo tempo, quando si dovrà raccontar in qual modo Fabrizio passasse il tempo nella fortezza mentre per tutta la città si cercava di conoscere l'ora del suo supplizio. Il giorno seguente tornò l'agente fedele che il conte aveva mandato a Bologna. Il conte quando lo vide entrare nel suo gabinetto s'intenerí: ricordò quale e quanta fosse la sua felicità nel momento in cui, quasi d'accordo con la duchessa, l'aveva fatto partire. Ma Bruno non era riuscito a saper nulla: non aveva potuto trovar Lodovico che il podestà di Castelnuovo aveva trattenuto nelle carceri di quel villaggio. — Bisognerà che vi rimandi a Bologna — disse il conte. — La duchessa persiste nel triste piacere di conoscer tutti i particolari. Rivolgetevi al brigadiere della gendarmeria di Castelnuovo. Anzi, no! — esclamò interrompendosi — andate subito in Lombardia, e distribuite largamente denaro a tutti i nostri corrispondenti. Ho bisogno d'aver da tutti loro rapporti incoraggianti. Bruno, capito lo scopo della sua missione, si mise a scriver subito le credenziali. Mentre dava le sue ultime istruzioni, il conte ricevé una lettera molto ben scritta, ma assolutamente bugiarda: si sarebbe detta di un amico che scrivesse a un amico per chiedergli un servizio. L'amico non altri era che il principe. Avendo udito parlare di certi progetti di dimissione, supplicava il suo amico conte Mosca di rimanere al governo: glielo chiedeva in nome dell'amicizia e dei pericoli della patria, glielo ordinava come sovrano. Concludeva che il re di *** aveva messo a sua disposizione due cordoni del suo ordine: ne teneva uno per sé e mandava l'altro al suo carissimo Mosca. — Quest'animale è la mia disgrazia! — gridò furibondo davanti a Bruno stupefatto — e crede di pigliarmi con le stesse frasi ipocrite che tante volte abbiamo combinate insieme per prendere alla pania qualche imbecille! — Rifiutò l'onorificenza offertagli e rispose che lo stato della sua salute gli lasciava scarsa speranza di potere ancora a lungo attendere ai faticosi lavori del suo ufficio. Era furente. Un momento dopo gli annunciarono l'avvocato fiscale Rassi: lo trattò come un negro. — E dunque, perché v'ho fatto nobile, voi cominciate a far l'insolente? Perché non siete venuto ieri a ringraziarmi, com'era vostro stretto dovere, signor villanaccio? Il Rassi era superiore alle ingiurie: il principe lo riceveva sempre a quel modo; ma voleva esser barone e si giustificò assai bene: il che, peraltro, era facilissimo. — Ieri, Sua Altezza mi tenne inchiodato a un tavolino tutta la giornata: non potei uscir dal palazzo: mi fece copiare con la mia pessima calligrafia di procuratore una quantità di note diplomatiche talmente insipide e cosí piene di chiacchiere inconcludenti, che in verità credo che il suo solo scopo fosse di trattenermi prigioniero. E quando finalmente, verso le cinque, mezzo morto di fame, mi riuscí di congedarmi, mi ordinò di andar diritto a casa e di non uscirne per tutta la sera. Infatti, vidi due delle sue spie personali, che conosco benissimo, passeggiar sotto casa mia fin dopo la mezzanotte. Stamani, appena mi è stato possibile, ho fatto venire una carrozza che m'ha portato fino alla cattedrale. Sono smontato lentamente, poi ho traversato la chiesa di corsa, ed eccomi. Vostra Eccellenza è in questo momento la persona alla quale mi preme d'essere piú che ad ogni altra gradito. — E io, caro furbacchiotto, non mi lascio infinocchiare da codeste storielle piú o meno ben costruite. Voi non voleste, ier l'altro, dirmi nulla di Fabrizio: io rispettai i vostri scrupoli e i giuramenti di segretezza, per quanto sappia quel che valgono i giuramenti di gente come voi; ma oggi voglio sapere la verità. Che consistenza hanno queste stupide voci di condanna capitale di quel giovinetto come assassino dell’istrione Giletti? — Nessuno può meglio di me dirlo a Vostra Eccellenza, perché sono proprio io che le ho messe in giro per ordine del sovrano. E credo che appunto per impedirmi di dirle queste notizie, m'abbia tenuto tutto ieri sotto sequestro. Il principe, che non mi crede impazzito, non poteva non esser persuaso ch'io sarei venuto subito a portarle la mia croce e a supplicarla di volermela attaccare alla bottoniera. — Avanti, avanti, meno parole inutili. — Certo, il sovrano vorrebbe tenere nelle proprie mani una sentenza di morte contro il signor Del Dongo; ma, com'Ella sa, senza dubbio, non ha che una condanna a vent'anni di ferri ch'egli medesimo ha commutati in dodici anni di fortezza con digiuno a pane e acqua i venerdí e altre pratiche religiose. — Appunto perché sapevo di cotesta condanna al carcere, m'ero spaventato delle voci di prossima esecuzione capitale, che correvano per la città. Mi ricordo della morte del povero conte Palanza, che fu un vero gioco di prestigio da parte vostra. — La croce l'avrei dovuta avere allora! — esclamò il Rassi senza sconcertarsi — bisognava battere il ferro quand'era caldo, e il principe si era incapricciato nel voler mandare il Palanza all'altro mondo. Fui uno sciocco allora, e appunto per l'esperienza acquistata, oso consigliarla di non imitarmi. (Questo raffronto parve al conte di molto cattivo gusto, sí che dové frenarsi per non pigliare il Rassi a pedate.) — Prima di tutto, — riprese questi con la logica d'un giureconsulto, e la imperturbabilità dell'uomo che nessun oltraggio può offendere — prima di tutto, dell'esecuzione del surriferito Del Dongo non se ne può neanche parlare: il principe non oserebbe; i tempi sono molto mutati! Eppoi, ora io nobile, e con la speranza, in grazia di Vostra Eccellenza, d'esser fatto barone, non mi ci presterei. Gli ordini al carnefice, come vostra Eccellenza sa, li debbo dare io, e le giuro che il cavalier Rassi contro il signor Del Dongo non ne darà mai. — E farete bene — disse il conte squadrandolo severamente. — Distinguiamo: — ripigliò il Rassi sorridendo — io non mi occupo che delle morti ufficiali; ma se il signor Del Dongo avesse da morir d'una colica, non voglia attribuirlo a me. Il principe, non so perché, è irritatissimo contro la Sanseverina. Tre giorni prima, il Rassi avrebbe detto la duchessa; ora, come tutti in città, sapeva che era rotta ogni relazione col ministro. Il conte fu urtato dalla soppressione di quel titolo in una bocca siffatta; e dette al Rassi un'occhiata carica dell'odio piú vivo. «Angelo mio, — pensò — non posso mostrarti il mio amore se non obbedendo ciecamente ai tuoi ordini.» — Vi confesserò — disse poi al fiscale — che non m'interesso piú che tanto dei capricci della signora duchessa; ma siccome fu lei che mi presentò quel bel tomo di Fabrizio, il quale avrebbe potuto restarsene benissimo a Napoli e non venir qui a procurarci fastidi, cosí a me preme ch'egli non sia ammazzato al tempo mio; e vi do la mia parola che voi sarete barone otto giorni dopo la sua uscita dalla fortezza. — Allora, signor conte, io non sarò barone che tra dodici anni; perché il principe è su tutte le furie, e il suo odio contro la duchessa è tale che cerca perfino di dissimularlo. — Sua Altezza è troppo buona: che bisogno ha di dissimulare il suo odio dal momento che il suo primo ministro non protegge piú la duchessa? Ma soltanto io non voglio che si possa accusarmi di perfidia né, soprattutto, di gelosia: la duchessa l'ho fatta venire io a Parma; e, se Fabrizio muore in fortezza, voi barone non sarete di certo, anzi sarete forse pugnalato. Ma lasciamo queste inezie: l'importante è che ho fatto i miei conti, e che in sostanza io non posseggo che ventimila lire di rendita. Ecco perché vorrei, con tutto il rispetto, presentare al sovrano le mie dimissioni. Ho modo di trovar servizio presso il re di Napoli: e quella grande città può offrirmi distrazioni di cui in questo momento sento la necessità e che non posso procurarmi in questo bugigattolo che si chiama Parma. Insomma, io non rimarrò che nel caso vi riesca di farmi ottenere la mano della principessa Isotta.... La conversazione su questi argomenti non finiva piú: quando il Rassi si alzò, il conte gli disse con indifferenza: — Anche voi lo sapete: s'é detto che Fabrizio m'ingannava, ossia ch'era uno degli amanti della duchessa: io non raccolgo affatto queste dicerie; anzi, per farvi vedere in che conto le tengo, voglio che gli facciate consegnar questa borsa. — Ma, signor conte, — disse il Rassi spaventato e soppesando la borsa — c'é una somma enorme e lei sa che i regolamenti... — Per voi può essere enorme: — riprese il conte guardandolo col piú manifesto disprezzo — un borghese come voi, se ha da mandar denari a un amico in prigione, crede di andare in rovina col tirar fuori dieci zecchini; io voglio che Fabrizio abbia queste seimila lire e voglio che nessuno ne sappia nulla a palazzo. E poiché il Rassi, sgomento, voleva replicare, il conte impazientito gli chiuse la porta in faccia. «Questa gente — disse fra sé — non riconosce il potere se non è accompagnato dall’insolenza!» Detto ciò, il gran ministro si abbandonò tutto ad un'operazione cosí ridicola che proprio ci dispiace di raccontarla. Corse a prendere nella sua scrivania una miniatura della duchessa e la baciò e ribaciò appassionatamente. «Perdonami, angelo mio, se non ho buttato dalla finestra questa canaglia che osa parlare di te con un tono confidenziale: ma io adopero questa pazienza soltanto per obbedirti! lui non perderà nulla, aspettando.» Dopo una lunga conversazione con quel ritratto, il conte, pur con la morte nel cuore, ebbe un'idea buffa e s'affrettò a metterla in atto: Con fanciullesca premura si mise l'uniforme con tutte le decorazioni e andò a far visita alla vecchia principessa Isotta. Non c'era mai stato se non per la cerimonia ufficiale del primo dell'anno. La trovò circondata da una quantità di cani, vestita in pompa magna, come se stesse per andare a Corte. Le espresse il timore d'aver disturbato Sua Altezza che forse era in procinto d'uscire; ma l'Altezza rispose al ministro che una principessa di Parma doveva esser sempre acconciata cosí. Per la prima volta, dopo i guai capitatigli, il conte ebbe un intimo moto di gaiezza. E pensò: «Ho fatto bene a venire; bisogna che oggi stesso le faccia la mia dichiarazione». Dal canto suo, la principessa era felicissima di quell'omaggio del primo ministro e d'un uomo famoso per la sua intelligenza: a visite siffatte la povera zitellona non era avvezza. Il conte cominciò accortamente a dissertare sulla immensa distanza che separerà sempre un semplice gentiluomo dalle persone d'una casa regnante. — Bisogna distinguere: — obbiettò la principessa — per esempio, la figlia d'un re di Francia non può sperar d'arrivar mai alla corona: nella famiglia di Parma le cose non vanno cosí: però noi Farnese dobbiamo tener sempre alto il nostro decoro. Povera principessa come mi vede, io non posso dire assolutamente impossibile che un giorno lei sia il mio primo ministro. L'imprevedibile grottesco di quell'idea procurò al conte un altro attimo di intima ilarità. La principessa si fece di brace nel volto ascoltando il primo ministro che si confessava preso da cosí fervida passione per lei. Questi, all’uscir dalla visita, incontrò uno dei corrieri di palazzo. Il principe lo chiamava d'urgenza. — Sono ammalato — rispose, felice di potergli fare uno sgarbo. «Ah, — pensò — mi mettete fuor de' gangheri e volete poi che vi serva! Ma sappiate, caro il mio principe, che a questi tempi l'aver ricevuta dalla grazia di Dio il potere, non basta piú: per fare il despota ci vuole molta testa e molto carattere!» E dopo aver rimandato il corriere assai scandalizzato dall'ottima salute di quell'ammalato, pensò che sarebbe divertente l'andare a trovar due persone che avevano grande influenza sul general Fabio Conti. Perché ciò che lo atterriva e gli toglieva coraggio era un'accusa poco tempo prima lanciata contro il governatore della cittadella, quella cioé d'essersi liberato di un capitano, suo personale nemico, con l'acquetta di Perugia. Il conte sapeva che da una settimana la duchessa spendeva tesori per guadagnarsi qualcuno della cittadella; ma, secondo lui, con ben scarse speranze. Gli occhi eran tuttavia troppo aperti. Non racconteremo i tentativi di corruzione perpetrati dalla sciagurata signora: era alla disperazione, e agenti d'ogni maniera e tutti fidatissimi l'assecondavano: ma nei piccoli Stati dispotici forse un solo servizio è fatto egregiamente: la custodia dei prigionieri politici. Infatti l'oro della duchessa non valse che a far mandar via dalla cittadella otto o dieci persone di diverso grado ed ufficio.
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