Capitolo 2
"Dopo aver narrato tante storie
tragiche, - dice l'autore del manoscritto fiorentino, - finirò
con quella che più di tutte mi fa pena a raccontare. Parlerò
di quella famosa badessa del convento della Visitazione a Castro,
Elena di Campireali, del cui processo e della cui morte tanto si
parlò nell'alta società romana e italiana.
Verso il 1555 i briganti già
spadroneggiavano nei dintorni di Roma: i magistrati erano venduti
alle famiglie potenti. Nel 1572, che fu l'anno del processo, Gregorio
Tredicesimo, Boncompagni, salì il soglio di Pietro. Questo
santo pontefice riuniva in sé tutte le virtù
apostoliche; ma si è potuta rimproverare qualche debolezza al
suo governo civile: egli non seppe né scegliere giudici
onesti, né reprimere il brigantaggio; s'affliggeva dei delitti
e non aveva la forza di punirli. Gli sembrava che infliggendo la pena
di morte si sarebbe assunto una tremenda responsabilità. Il
risultato di questo modo di pensare fu che un numero quasi infinito
di briganti popolò le strade che menano alla città
eterna. Per viaggiare con una certa sicurezza bisognava esser amico
dei briganti. La foresta della Faiola domina la strada di Napoli che
passa per Albano, e perciò era da un pezzo il quartiere
generale d'un governo in guerra con quello di Sua Santità.
Parecchie volte Roma fu costretta a trattare da potenza a potenza con
Marco Sciarra, uno dei re della foresta. La forza di questi briganti
era nell'amore che avevan per loro i contadini dei dintorni.
"Questa graziosa città
d'Albano, così vicina al quartier generale dei briganti, vide
nascere nel 1542 Elena di Campireali. Suo padre passava per il
patrizio più ricco del paese, e perciò aveva potuto
sposare Vittoria Carafa, che possedeva grandi terre nel regno di
Napoli. Potrei nominare alcuni vecchi che vivono ancora e che hanno
conosciuto bene Vittoria Carafa e la sua figliola. Vittoria fu un
modello di prudenza e d'intelligenza; ma, con tutto il suo genio, non
poté prevenire la rovina della sua famiglia. Strano! Le
spaventose sciagure che saranno il triste argomento della mia
narrazione non possono, a quanto mi sembra, essere rimproverate in
particolare a nessuno dei personaggi che sto per presentare al
lettore: vedo in loro degli sventurati, ma, in verità, in
nessuno posso riconoscere il colpevole. La meravigliosa bellezza e
l'anima così tenera della giovane Elena erano due grandi
pericoli per lei e sono la scusa del suo amante Giulio Branciforte,
proprio come l'assoluta mancanza d'intelligenza di monsignor
Cittadini, vescovo di Castro, può fino a un certo punto
scusarlo. Egli era debitore della sua rapida ascensione nella
carriera degli onori ecclesiastici all'onestà della sua
condotta, e soprattutto all'aspetto più nobile e al volto più
regolarmente bello che non si poteva vederlo senza amarlo.
"Poiché non è mia
intenzione adulare nessuno, non dissimulerò che un santo
monaco del convento di Monte Cavo, il quale spesso era stato sorpreso
nella sua cella sollevato a parecchi piedi dal suolo, come san Paolo,
da non altro che dalla grazia divina sostenuto in quella posizione
straordinaria (Anche oggi le popolazioni della campagna romana
ritengono che questa strana posizione sia un segno certo di santità.
Verso l'anno 1826 un monaco di Albano fu sorpreso più volte
sollevato da terra per grazia divina. Gli furono attribuiti numerosi
miracoli; da luoghi distanti venti leghe la gente accorreva per
riceverne la benedizione; signore della più alta società
lo videro nella sua cella sospeso a tre piedi da terra, poi,
improvvisamente, scomparve), aveva predetto al signor di Campireali
che la sua famiglia si sarebbe spenta con lui e che egli avrebbe
avuto due soli figlioli, i quali perirebbero tutti e due di morte
violenta. Per questa predizione non gli riuscì di ammogliarsi
nel paese e andò a cercare fortuna a Napoli, dove ebbe la
buona sorte di trovare grandi ricchezze e una moglie capace con la
sua intelligenza di mutargli il cattivo destino se una cosa simile
fosse possibile.
Il signor di Campireali aveva fama di
perfetto gentiluomo e faceva grandi elemosine; ma non aveva alcun
ingegno, e per questo a poco a poco cessò di dimorare a Roma e
finì col trascorrere quasi tutto l'anno nel suo palazzo di
Albano. Si dedicava alla coltivazione delle sue terre, situate in
quella ricca pianura che si stende tra la città e il mare. Per
consiglio della moglie fece educare magnificamente il suo figliolo
Fabio, giovane orgogliosissimo della propria nascita, e la sua
figliola Elena, che fu un miracolo di bellezza, come attesta il suo
ritratto che si conserva tuttora nella collezione Farnese. Dopo che
ho incominciato a scrivere questa storia sono andato al palazzo
Farnese per contemplare la veste mortale che il cielo aveva dato a
questa donna, il cui funesto destino levò tanto rumore ai suoi
tempi e occupa ancora la memoria degli uomini. La forma del capo è
un ovale allungato, la fronte è molto ampia, i capelli sono
d'un biondo cupo. La fisionomia è piuttosto lieta. Gli occhi,
grandi, hanno un'espressione profonda, e le sopracciglie castane
formano un arco perfettamente disegnato. Le labbra sono molto sottili
e si direbbe che le linee della bocca sono state disegnate dal famoso
pittore Correggio. Veduta in mezzo ai ritratti che la circondano
nella galleria Farnese, ha l'aspetto d'una regina. Accade molto di
rado che l'aspetto allegro accompagni la maestà.
"Dopo aver passato otto anni
interi nel convento della Visitazione della città di Castro,
ora distrutta, dove erano mandate in quel tempo le fanciulle di quasi
tutti i principi romani, Elena ritornò nel proprio paese, ma
prima di lasciare il convento fece offerta d'uno splendido calice
all'altare maggiore della chiesa. Appena fu ritornata ad Albano, il
padre fece venir da Roma, offrendogli una lauta pensione, il celebre
poeta Cecchino, allora molto avanzato in età. Questi ornò
la memoria di Elena dei più bei versi del divino Virgilio e
dei suoi famosi discepoli, Dante, il Petrarca e l'Ariosto".
Qui il traduttore è costretto
a saltare una lunga dissertazione sui diversi gradi di gloria che il
secolo decimosesto assegnava a questi grandi poeti. Parrebbe che
Elena sapesse il latino. I versi che le facevano imparare a memoria
parlavano d'amore, e di un amore che ci sembrerebbe molto ridicolo se
lo trovassimo in quest'anno di grazia 1839; voglio dire l'amore
appassionato che si nutre di grandi sacrifici, non può
sussistere se non avvolto di mistero ed è sempre vicino alle
sciagure più tremende.
Tale era l'amore che ad Elena appena
diciassettenne seppe ispirare Giulio Branciforte. Era questi uno dei
suoi vicini, poverissimo: abitava una casupola costruita sulla
montagna, a un quarto di lega dalla città, in mezzo alle
rovine dell'antica Alba e sul ciglio di quel precipizio alto
centocinquanta piedi, tappezzato di verdura, che circonda il lago. La
casa, vicinissima alle cupe e magnifiche ombre della foresta della
Faiola, fu poi abbattuta per la costruzione del convento di
Palazzolo. Quel povero giovane non aveva altro bene che il suo
aspetto svelto e vivace e l'indifferenza non simulata con cui
sopportava la sua mala fortuna. Aveva un volto espressivo senza
essere bello, e questo era quanto di meglio si poteva dire in suo
favore. Ma si diceva che aveva combattuto valorosamente al comando
del principe Colonna, tra i suoi "bravi", in due o tre
imprese molto rischiose. Povero, non bello, egli era nondimeno il
cuore di cui le ragazze di Albano avrebbero fatto più
volentieri la conquista. E poiché era ben accolto dappertutto,
Giulio Branciforte non aveva avuto che facili amori fino al momento
in cui Elena ritornò dal convento di Castro.
"Quando, poco dopo, il gran
poeta Cecchino si trasferì da Roma al palazzo Campireali per
insegnare le belle lettere alla fanciulla, Giulio, che lo conosceva,
gli diresse una poesia in latino sulla felicità che la sua
vecchiaia avrebbe avuto nel vedere due occhi così belli fissi
nei suoi e un'anima così pura essere felice quando egli si
fosse degnato di approvarne i pensieri. La gelosia e il dispetto
delle ragazze corteggiate da Giulio prima del ritorno di Elena resero
ben presto inutili tutte le precauzioni a cui egli ricorreva per
tenere nascosta la sua nascente passione, e io devo confessare che i
due giovani innamorati (lui aveva ventidue anni e lei diciassette) si
comportarono da principio in un modo che la prudenza non potrebbe
approvare. Non erano passati tre mesi che il signor di Campireali
s'avvide che Giulio Branciforte passava troppo spesso sotto le
finestre di quel suo palazzo che ancora si vede a metà della
grande strada che sale verso il lago".
La franchezza e la rudezza,
conseguenza naturale della libertà tollerata dalle
repubbliche, e l'abitudine delle libere passioni non ancora represse
dai costumi monarchici, si rivelano appieno nel primo passo del
signor di Campireali. Il giorno stesso in cui fu offeso dalle
frequenti apparizioni del giovane Branciforte lo apostrofò in
questi termini:
- Come osi passare così di
continuo davanti alla mia casa e lanciare occhiate impertinenti alle
finestre di mia figlia, tu che non possiedi nemmeno vestiti per
coprirti? Se non temessi che i vicini giudicassero male la cosa, ti
regalerei tre zecchini d'oro e tu andresti a Roma a comperarti una
tunica più decente. Almeno i miei occhi e quelli di mia figlia
non sarebbero così spesso offesi dalla vista dei tuoi cenci.
Il padre di Elena esagerava: i
vestiti del giovane Branciforte non si potevano dir cenci: erano di
stoffa comune; ma, ancorché ben puliti e spazzolati, bisogna
confessare che apparivano logori per il lungo uso. Giulio fu così
profondamente addolorato per i rimproveri del signor di Campireali
che di giorno non si fece più vedere davanti al palazzo.
Come abbiamo già detto, i due
archi, resti d'un antico acquedotto, che servivano di mura principali
alla casa costruita dal padre del Branciforte e da lui lasciata al
figliolo, non distavano da Albano più di cinque o seicento
passi. Per discendere da quell'alto luogo alla città moderna
Giulio era costretto a passare davanti al palazzo Campireali: Elena
poté dunque notare l'assenza di quello strano giovane che, a
quel che dicevano le sue amiche, aveva tralasciato ogni altra
relazione per darsi tutto alla felicità che pareva provare nel
guardar lei.
Una sera d'estate, verso mezzanotte,
la finestra di Elena era aperta: la fanciulla respirava il venticello
marino che si fa sentire molto bene sulla collina d'Albano, per
quanto tra questa città e il mare si estendano tre leghe di
pianura. La notte era cupa, il silenzio profondo: si sarebbe sentita
cadere una foglia. Elena, affacciata alla finestra, pensava forse a
Giulio, quando intravide qualcosa come l'ala silenziosa d'un uccello
notturno che passava pian piano proprio contro la finestra. Si
ritrasse spaventata. Non le venne l'idea che potesse trattarsi d'un
oggetto offerto da qualche passante: la sua finestra era al secondo
piano del palazzo, a più di cinquanta piedi da terra. Tutt'a
un tratto le parve di riconoscere un mazzo di fiori in quella cosa
strana che nel silenzio profondo passava e ripassava davanti alla
finestra a cui era affacciata. Il cuore le batté con violenza.
Il mazzo di fiori sembrava fissato
all'estremità di due o tre di quelle canne o grandi giunchi,
abbastanza simili al bambù, che crescono nella campagna romana
e danno delle aste lunghe tra i venti e i trenta piedi. La debolezza
delle canne e il vento abbastanza forte facevano sì che Giulio
provasse una certa difficoltà a tenere fermo il suo mazzo di
fiori proprio davanti alla finestra a cui pensava che fosse
affacciata Elena, e d'altra parte la notte era così buia che a
quell'altezza non si poteva scorgere nulla. Immobile davanti alla
finestra, Elena era profondamente agitata. Se avesse preso quel mazzo
di fiori, non sarebbe stata una confessione? D'altra parte ella non
provava nessuno di quei sentimenti che una simile avventura farebbe
nascere oggi in una giovinetta dell'alta società, preparata
alla vita da una raffinata educazione. Poiché suo padre e suo
fratello Fabio erano in casa, il suo primo pensiero fu che il minimo
rumore sarebbe seguito da un colpo d'archibugio sparato contro
Giulio: le venne pietà del pericolo che correva quel povero
giovane. Il suo secondo pensiero fu che questi, benché a lei
quasi ignoto, era però la persona che avesse più cara
al mondo dopo la sua famiglia. Finalmente, dopo qualche minuto
d'esitazione, afferrò il mazzo di fiori e toccando le corolle
nella profonda oscurità sentì che un biglietto era
attaccato a uno stelo. Corse subito sullo scalone del palazzo per
leggere quel biglietto alla luce di una lampada che ardeva davanti
all'immagine della Madonna.
"Imprudente! - si disse quando
le prime righe l'ebbero fatta arrossire di gioia, - se mi vedono sono
perduta, e la mia famiglia non lo perdonerà a questo povero
giovane". Ritornò nella sua camera e accese la lampada.
Quel momento fu delizioso per Giulio, il quale, vergognoso del suo
passo e come per nascondersi nell'oscurità profonda della
notte, s'era stretto al tronco enorme d'uno di quei lecci dalle forme
bizzarre che si vedono anche oggi intorno al palazzo Campireali.
Nella sua lettera Giulio raccontava
con perfetta schiettezza l'umiliante reprimenda che aveva ricevuto
dal padre di Elena.
"Io sono povero, è vero,
- diceva, - e difficilmente voi potreste immaginarvi l'eccesso della
mia povertà. Ho soltanto la mia casa, quella che forse voi
avrete notato sotto le rovine dell'acquedotto di Alba: intorno alla
casa c'è un giardino che io stesso coltivo e con le cui erbe
mi sostento. Posseggo anche una vigna che affitto per trenta scudi
l'anno. In verità io non so perché vi amo: non posso
proporvi di certo di venire a condividere la mia miseria. E tuttavia,
se voi non mi amate, la vita non vale più nulla per me; è
inutile dirvi che sarei pronto a darla mille volte per voi. Eppure,
prima del vostro ritorno dal convento, questa mia vita non era
infelice: era anzi piena delle più splendide fantasticherie.
Posso perciò dirvi che l'aspetto della felicità mi ha
reso infelice. Nessuno al mondo, allora, avrebbe avuto il coraggio di
dirmi le parole con cui vostro padre mi ha umiliato, ché mi
sarei fatto immediatamente giustizia col mio pugnale. In quei giorni,
col mio coraggio e con le mie armi, mi sentivo pari a tutti: nulla mi
mancava. Ora tutto è cambiato: conosco il timore. Ma scrivo
troppo: forse voi mi disprezzate. Se invece avete un po' di
compassione per me, nonostante i poveri vestiti che mi coprono,
osserverete che tutte le sere, quando batte la mezzanotte al convento
dei Cappuccini in cima alla collina, io sono nascosto sotto il gran
leccio di fronte alla finestra che guardo continuamente perché
penso sia quella della vostra camera. Se non mi disprezzate come mi
disprezza vostro padre, gettatemi un fiore del mazzo che vi ho
offerto, ma badate che non cada su una delle cornici o uno dei
balconi del vostro palazzo".
La lettera fu letta parecchie volte,
e a poco a poco gli occhi di Elena si riempirono di lacrime; ella
guardava con tenerezza quel magnifico mazzo di fiori che era legato
con un fil di seta molto forte. Tentò di strapparne un fiore,
ma non ci riuscì; poi il rimorso la prese. Strappare un fiore,
sciupare in un modo qualsiasi un mazzo offerto da un innamorato, per
le ragazze di Roma significava esporsi a far morire quell'amore. Ebbe
timore che Giulio si spazientisse, corse alla finestra; ma sul punto
di affacciarsi pensò che l'avrebbero vista troppo bene, perché
la luce della lampada riempiva la camera. Elena non sapeva più
qual segno potesse permettersi: le sembrava che non ce ne fosse
nessuno che non dicesse troppo.
Tutta vergognosa, rientrò
correndo nella camera. Ma il tempo passava. Le venne un'idea
improvvisa che la gettò in un grande turbamento: Giulio poteva
credere che lei lo disprezzava, come suo padre, perché povero!
S'accorse di un piccolo frammento di marmo prezioso deposto sul suo
tavolino, lo annodò nel fazzoletto, e gettò questo ai
piedi del leccio davanti alla sua finestra. Poi fece segno che
bisognava allontanarsi e sentì che Giulio le ubbidiva, perché,
nell'andarsene, non cercava più di attutire il rumore dei
passi. Quando egli ebbe raggiunto la vetta della cerchia di rocce che
separa il lago dalle ultime case di Albano, Elena sentì che
cantava parole d'amore: gli fece allora dei segni d'addio, questa
volta meno timidi, e poi si rimise a leggere la lettera.
Il giorno dopo, e nei giorni
seguenti, ci furono lettere e colloqui dello stesso genere; ma poiché
in un villaggio italiano vien tutto osservato, e poiché Elena
era il partito di gran lunga più ricco del paese, il signor di
Campireali fu avvertito che tutte le sere dopo la mezzanotte si
vedeva illuminata la finestra della camera di sua figlia, e che la
finestra (cosa ben altrimenti straordinaria) era aperta, ed Elena vi
stava affacciata come se non avesse alcun timore delle zanzare
(insetti molto fastidiosi che sono il guaio delle belle serate nella
campagna romana: ancora una volta devo chiedere venia al lettore:
quando si cerca di conoscere gli usi dei paesi stranieri bisogna
aspettarsi di trovare idee molto strane, diversissime dalle nostre).
Il signor di Campireali preparò il proprio archibugio e quello
del suo figliolo. La sera, quando suonarono le undici e tre quarti,
avvisò Fabio, e tutti e due, facendo il minor rumore
possibile, si mesero in agguato su un grande balcone di pietra al
primo piano del palazzo, proprio sotto la finestra di Elena.
I massicci pilastri della balaustra
di pietra li riparavano fino alla cintola dai colpi d'archibugio che
si sarebbero potuti tirar loro dall'esterno. Suonò la
mezzanotte: il padre e il figlio sentirono qualche piccolo rumore
sotto gli alberi che fiancheggiavano la via di fronte al palazzo; ma,
e la cosa li riempì di stupore, non si vide luce alla finestra
di Elena. La fanciulla, che fino ad allora era stata così
semplice che sembrava una bambina per la vivacità del
carattere, da quando amava era del tutto mutata. Sapeva bene che la
minima imprudenza poteva compromettere la vita del suo innamorato: se
un signore potente come suo padre uccideva un povero diavolo come
Giulio Branciforte, se la cavava con un'assenza di tre mesi che
sarebbe andato a passare a Napoli: intanto i suoi amici di Roma
avrebbero aggiustato la faccenda, e tutto sarebbe finito con
l'offerta d'una lampada d'argento di qualche centinaio di scudi
all'altare della Madonna allora di moda. La mattina, Elena s'era
accorta, dalla fisionomia di suo padre, ch'egli era in gran collera;
e dal modo che la guardava quando credeva di non essere osservato
pensò che in quella collera lei doveva averci una gran parte.
Andò subito a spargere un po' di polvere sul legno dei cinque
magnifici archibugi che il padre teneva appesi vicino al letto, e
ricoprì anche d'un leggero strato di polvere i pugnali e le
spade. Durante tutta la giornata, come presa da una forte allegria,
perlustrò la casa da cima a fondo; in ogni momento
s'avvicinava alle finestre, con la ferma intenzione di fare a Giulio
un segno negativo, se mai avesse la fortuna di scorgerlo. Non le
venne in mente che il povero ragazzo, profondamente umiliato dal
rabbuffo del ricco signor di Campireali, non si faceva mai vedere di
giorno in Albano: la domenica soltanto andava per dovere alla messa
parrocchiale. La madre di Elena, che l'adorava e che non sapeva
rifiutarle nulla, quel giorno uscì tre volte con lei; ma fu
inutile: Elena non incontrò Giulio. Era disperata. E a qual
punto salì la sua disperazione verso sera allorché
esaminando le armi del padre si accorse che due archibugi erano stati
caricati e quasi tutte le spade e i pugnali maneggiati! La sola cosa
che la distraeva dalla sua mortale inquietudine era l'estrema
attenzione con cui badava a non lasciar vedere dagli altri il proprio
stato d'animo. Ritirandosi alle dieci della sera, chiuse a chiave la
porta della sua stanza da letto che dava sull'anticamera della madre:
poi, seduta sul pavimento in modo che non la vedessero dall'esterno,
non si mosse più dalla finestra. Si pensi all'ansia con cui
sentì suonare le ore: non era più questione dei
rimproveri che si faceva per essersi affezionata così presto a
Giulio e mettersi quindi al rischio di apparire meno degna d'amore
agli occhi di lui. Nel cuore di Elena il giovane prese più
posto in quel giorno di quel che avrebbe fatto dopo sei mesi di
costanza e di proteste. "Perché mentire? - si diceva la
giovinetta: - o che forse non l'amo con tutte le forze dell'anima
mia?".
Alle undici e mezzo vide benissimo
suo padre e suo fratello porsi in agguato sotto il balcone di pietra
sopra il quale c'era la sua finestra. Due minuti dopo che la
mezzanotte era suonata al convento dei Cappuccini, sentì il
passo del suo amante, che si fermò sotto la gran quercia. Notò
con gioia che suo padre e suo fratello sembravano non essersi accorti
di nulla: per cogliere un così lieve rumore ci voleva
l'ansietà della passione.
"Ora, - si disse, - verranno ad
uccidermi, ma bisogna impedire ad ogni costo che scoprano la lettera
di questa sera, altrimenti non cesserebbero di perseguitare il povero
Giulio". Si fece il segno della croce e, afferrandosi con una
mano alla ringhiera di ferro si penzolò dalla finestra il più
che poteva. Non era passato un quarto di minuto che il mazzo di fiori
attaccato come al solito alla canna le venne ad urtare il braccio. Lo
afferrò; ma nell'atto di strapparlo alla canna a cui era
attaccato fece urtare questa contro il balcone di pietra.
Istantaneamente partirono due colpi d'archibugio a cui seguì
un gran silenzio. Suo fratello Fabio, non vedendo bene nel buio se
l'oggetto che urtava contro il balcone non fosse per caso una fune
per mezzo della quale Giulio si calasse dalla camera della sorella,
aveva sparato sulla ringhiera. Il giorno dopo Elena trovò il
segno della palla che si era schiacciata contro il ferro. Il signor
di Campireali aveva sparato in strada, sotto il balcone di pietra,
perché Giulio aveva fatto un po' di rumore nel trattenere la
canna che stava per cadere. Giulio, da parte sua, sentendo rumore sul
suo capo, aveva indovinato quel che stava per accadere e s'era messo
al riparo sotto la sporgenza del balcone.
Fabio ricaricò in fretta
l'archibugio e corse, qualsiasi cosa il padre potesse dirgli, nel
giardino della casa, aprì piano una porticina che dava su una
via laterale e camminando con cautela si mise a spiare chi si
trovasse sotto il balcone del palazzo. Giulio, che quella sera era
ben accompagnato, stava in quel momento a venti passi da lui,
appoggiato a un albero. Elena, china alla ringhiera e inquieta per il
suo amante, a voce molto alta rivolse la parola al fratello di cui
aveva avvertito la presenza in strada: gli chiese se aveva ucciso
qualche ladro.
- Non crediate che la vostra perfida
astuzia mi abbia ingannato! - le gridò Fabio, e misurava coi
passi la strada in tutti i sensi. - Ora è il momento di
piangere, perché ammazzerò quell'insolente che ce l'ha
con la vostra finestra.
Non aveva ancora finito di
pronunciare queste parole che Elena sentì sua madre picchiare
alla porta della camera. S'affrettò ad aprire, dicendo di non
riuscire a capire come mai la porta fosse chiusa.
- Non fingere con me, amor mio, - le
disse la madre; - tuo padre è furibondo e forse t'ucciderà;
vieni con me nel mio letto, e se hai una lettera, dammela, la
nasconderò.
- Ecco il mazzo di fiori, - rispose
Elena, - la lettera è nascosta tra i fiori.
La madre e la figlia erano appena a
letto che il signor di Campireali rientrò nella camera della
moglie: ritornava dalla cappella di casa dove s'era messo a cercare e
vi aveva messo tutto sottosopra. Elena fu impressionata soprattutto
dalla lentezza che suo padre, pallido come uno spettro, metteva in
ogni gesto, come chi sa perfettamente quel che deve fare. "Sono
morta!", si disse Elena.
- Noi ci rallegriamo d'avere dei
figli, - disse suo padre passando accanto al letto della moglie per
andare in camera della figlia, e dovremmo invece piangere lacrime di
sangue quando questi figli sono femmine. Gran Dio! è mai
possibile? La loro leggerezza può disonorare uno che in
sessant'anni non ha dato adito alla minima diceria.
Nel dire queste parole entrò
nella camera della figlia.
- Sono perduta, - disse Elena alla
madre, - le lettere sono sotto il piedistallo del crocifisso, vicino
alla finestra.
La madre balzò dal letto e
corse dietro a suo marito: si mise a esporgli le peggiori ragioni che
potesse trovare per farlo andare in bestia, e ci riuscì. Il
vecchio diventò furioso, si mise a fracassare quanto trovava
nella stanza della figlia, e intanto la madre poté portar via
le lettere senza che l'uomo se ne accorgesse. Dopo un'ora, quando il
signor di Campireali si fu ritirato nella sua camera, attigua a
quella della moglie, e nella casa ritornò la calma, la madre
disse ad Elena:
- Ecco le lettere: non voglio
leggerle: pensa a che rischio ci han messo! Fossi te, le brucerei!
Abbracciami, e vattene.
Elena si ritirò nella sua
camera e scoppiò in lacrime: dopo quelle parole di sua madre
le pareva di non amar più Giulio. Si accinse a bruciar le
lettere; ma prima di distruggerle non poté fare a meno di
leggerle ancora una volta. E tanto le lesse e le rilesse che il sole
era già alto all'orizzonte quando si decise finalmente a
seguire il prudente consiglio che le era stato dato. Il giorno dopo
era domenica, ed Elena s'incamminò con la madre verso la
parrocchia. La prima persona che vide in chiesa fu Giulio
Branciforte. Con un'occhiata poté accertarsi che non era
ferito. Si sentì felice: quanto era accaduto nella notte era a
mille leghe dalla sua memoria. Aveva preparato cinque o sei
bigliettini scritti su pezzetti di carta ingiallita e li aveva
imbrattati di mota perché sembrassero di quelle cartacce che
qualche volta si trovano sul pavimento delle chiese. Codesti
bigliettini contenevano tutti lo stesso avvertimento.
"Avevano scoperto tutto, salvo
il suo nome. Non si faccia più vedere per strada. Ci si vedrà
qui, spesso".
Elena lasciò cadere uno di
quei pezzetti di carta, e con un'occhiata avvertì Giulio che
lo raccattò e scomparve. Nel ritornare a casa un'ora dopo,
trovò sulla grande scala del palazzo un frammento di carta che
le diede nell'occhio perché era in tutto e per tutto simile a
quelli di cui s'era servita al mattino. Se ne impadronì, senza
che nemmeno la madre s'accorgesse di nulla, e lesse:
"Fra tre giorni lui ritornerà
da Roma dove è costretto ad andare. In pieno giorno, verso le
dieci, quando ci sarà mercato, si sentirà un canto in
mezzo al frastuono dei contadini".
La partenza per Roma parve strana a
Elena. "Teme forse i colpi d'archibugio di mio fratello?",
si chiedeva tristemente. L'amore perdona tutto, salvo l'assenza
volontaria: questa è il peggiore dei supplizi. Invece di
cullarsi in una dolce fantasticheria e di star lì a pesare una
per una le ragioni che si hanno d'essere innamorata, dubbi crudeli
tormentano il cuore. "Ma, dopo tutto, posso credere che non
m'ami più?", si diceva Elena durante le tre lunghe
giornate dell'assenza del Branciforte. Tutto ad un tratto una folle
gioia dissipò le sue pene: al terzo giorno lo vide in pieno
mezzogiorno che passeggiava davanti al palazzo di suo padre. Aveva un
vestito nuovo, quasi lussuoso. Mai la nobiltà della sua
andatura, la coraggiosa e allegra ingenuità della sua
fisionomia si erano manifestate così a pieno; e mai, prima di
quel giorno, si era parlato così spesso in Albano della
povertà di Giulio. Questa parola crudele era ripetuta dagli
uomini e soprattutto dai giovanotti; ma le donne e soprattutto le
ragazze non finivano di magnificare il suo aspetto.
Giulio in tutta la giornata non fece
altro che andare in su e in giù per la città: gli
pareva di ripagarsi i mesi di reclusione a cui l'aveva costretto la
sua povertà. Come conviene ad un innamorato, era armato di
tutto punto sotto la sua tunica nuova. Oltre la daga e il pugnale,
aveva indossato un "giaco" (specie di lungo panciotto di
maglia di ferro, molto fastidioso a portare, ma molto buono per
guarire i cuori italiani da una triste malattia di cui in quel secolo
si provavano quasi di continuo gli accessi crudeli, vale a dire dalla
paura di essere ucciso al lato della strada da qualcuno dei propri
nemici). Giulio sperava in quel giorno d'intravedere Elena, e
d'altronde gli ripugnava di trovarsi solo con se stesso nella sua
solitaria camera; ed ecco perché: Ranuccio, un vecchio soldato
di suo padre, dopo aver fatto con lui dieci campagne nelle compagnie
di ventura di diversi "condottieri", e da ultimo in quelle
di Marco Sciarra, aveva seguito il proprio capitano quando questi per
le sue ferite era stato costretto a ritirarsi. Il capitano
Branciforte aveva le sue ragioni di non voler vivere a Roma: si
sarebbe messo a rischio d'incontrare i figli di persone uccise da
lui: anche in Albano stava attento a non darsi del tutto in balia
della legittima autorità. Invece di comperare o affittare una
casa in città, preferì costruirne una in un luogo da
dove potesse scorgere di lontano chi venisse a fargli visita. Trovò
un posto magnifico nelle rovine di Alba: da lì, senza esser
visto dai visitatori indiscreti, poteva rifugiarsi nella foresta dove
spadroneggiava il suo antico patrono e amico il principe Fabrizio
Colonna. Il capitano Branciforte s'infischiava del tutto
dell'avvenire di suo figlio. Quando lasciò il servizio, non
più che cinquantenne, ma carico di ferite, calcolò che
gli restavano più o meno una decina d'anni di vita, e una
volta che ebbe costruito la sua casa, spese ogni anno la decima parte
di quanto aveva accumulato nei gloriosi saccheggi di città e
villaggi a cui aveva partecipato.
Egli comperò quella vigna che
rendeva trenta scudi l'anno a suo figlio per rispondere allo scherzo
sgarbato di un borghese di Albano, il quale gli aveva detto, un
giorno che discutevano animatamente sugli interessi e l'onere della
città, che toccava a un ricco proprietario come lui dar
consigli agli "anziani" di Albano. Il capitano comperò
la vigna e annunciò che ne avrebbe comperate molte altre; poi,
un giorno che incontrò in un luogo solitario il sarcastico
borghese, lo freddò con una pistolettata.
Dopo otto anni di questa vita il
capitano morì. Il suo aiutante di campo Ranuccio adorava
Giulio; tuttavia, stanco di stare in ozio, riprese servizio nella
compagnia del principe Colonna. Veniva spesso a vedere quello che
egli chiamava "il suo figliolo Giulio", e una volta, alla
vigilia d'un pericoloso assalto che il principe doveva sostenere
nella sua rocca della Petrella, lo aveva condotto con sé a
combattere. Vedendolo molto coraggioso, gli aveva detto:
- Bisogna che tu sia pazzo e per di
più molto sciocco per vivere così nei dintorni di
Albano come l'ultimo e il più povero abitante di quel paese,
mentre con la bravura che vedo in te e col nome di tuo padre potresti
essere un magnifico soldato di ventura e fare fortuna.
A Giulio quelle parole misero il
diavolo in corpo. Egli sapeva il latino, che gli era stato insegnato
da un prete; ma poiché suo padre s'era sempre burlato di tutto
ciò che il prete diceva oltre il latino, non aveva ricevuto la
minima istruzione. In compenso, disprezzato com'era per la sua
povertà e isolato nella sua casa remota, gli si era sviluppato
un buon senso che per la sua audacia avrebbe riempito di stupore i
dotti. Per esempio, prima di innamorarsi di Elena, e senza sapere il
perché, adorava la guerra, ma gli ripugnava il saccheggio che
agli occhi del capitano suo padre e di Ranuccio, era come la
commediola da ridere che viene dopo la tragedia. Da quando amava
Elena, il buon senso che le riflessioni solitarie avevano sviluppato
in lui faceva il supplizio di Giulio. Quell'anima, così
indifferente, non osava consultare nessuno intorno ai propri dubbi,
ed era tutta passione e dolore. Che cosa direbbe il signor di
Campireali se sapesse ch'era un soldato di ventura? Certo i suoi
rimproveri avrebbero un giusto fondamento. Giulio aveva sempre
contato sul mestiere di soldato, come su un mezzo sicuro per il tempo
in cui avesse speso il danaro che poteva ricavare dalle collane d'oro
e dagli altri gioielli ritrovati nella cassetta di ferro di suo
padre. Se egli non aveva scrupolo a rapire, lui così povero,
la figliola del ricco signor di Campireali, era che in questo tempo i
genitori lasciavano i propri beni a chi gli piacesse, e il signor di
Campireali era padrone di assegnare alla propria figliola un'eredità
di mille scudi soltanto. Su un altro problema si affaticava
l'immaginazione di Giulio: primo, in quale città andare a
vivere con Elena dopo averla sposata e rapita a suo padre? secondo,
con quale danaro le avrebbe procurato da vivere?
Quando il signor di Campireali gli
ebbe fatto il rimprovero sanguinoso che lo aveva fatto soffrire
tanto, Giulio passò due giorni in preda alla rabbia e al
dolore più vivo: non poteva risolversi né ad uccidere
il vecchio insolente, né a lasciarlo vivere. La notte non
faceva altro che piangere. Finalmente decise di consultare Ranuccio,
il solo amico ch'egli avesse in questo mondo; ma l'amico l'avrebbe
compreso? Cercò invano Ranuccio in tutta la foresta della
Faiola: fu costretto a spingersi sulla strada di Napoli, oltre
Velletri, dove Ranuccio capeggiava un'imboscata: aspettavano là,
lui e la sua numerosa banda, il generale spagnolo Ruiz d'Avalos, che
si recava a Roma per via di terra, immemore che di recente egli aveva
parlato con disprezzo, davanti a molte persone, dei soldati di
ventura della compagnia Colonna.
Poiché il suo cappellano gli
ricordò molto a proposito di questo fatto di poca importanza,
Ruiz d'Avalos decise di far armare un bastimento e di venire a Roma
per mare.
Non appena il capitano Ranuccio ebbe
sentito il racconto di Giulio:
- Descrivimi con precisione, - gli
disse, - l'aspetto di codesto signor di Campireali, perché la
sua imprudenza non costi la vita a qualche bravo abitante di Albano.
Appena avremo sbrigato con un sì o con un no la faccenda che
ci trattiene qui, tu te ne andrai a Roma e ti farai vedere a
qualunque ora del giorno negli alberghi e in altri pubblici locali:
bisogna che nessuno sospetti di te per via dell'amore che porti alla
sua figliola.
Giulio durò fatica a sedare la
collera dell'antico compagno di suo padre e finì con
l'offendersi.
- Credi tu, - gli disse finalmente, -
che io voglia ricorrere alla tua spada? Non ho una spada anch'io?
Sono venuto da te per un buon consiglio.
Ranuccio concludeva ogni suo discorso
con queste parole:
- Tu sei giovane, non sei ferito, e
l'insulto è stato pubblico; orbene, un uomo senza onore è
disprezzato dalle donne.
Giulio gli rispose che voleva ancora
riflettere sui propri sentimenti, e per quanto Ranuccio cercasse di
trattenerlo e di convincerlo che prendendo parte all'attacco contro
la scorta del capitano spagnolo si sarebbe fatto onore e avrebbe per
giunta guadagnato dei bravi doppioni d'oro, se ne ritornò solo
alla sua casetta. Fu là che ricevette Ranuccio e il suo
caporale, di ritorno dal Velletrano, proprio il giorno prima che il
signor di Campireali gli tirasse un colpo d'archibugio. Ranuccio
volle vedere per forza la cassetta di ferro in cui il suo padrone, il
capitano Branciforte, chiudeva un tempo le catene d'oro e gli altri
gioielli che non riteneva opportuno di spendere subito dopo una
spedizione. Ci trovò in tutto due scudi.
- Ti consiglio di andare a farti
frate, - disse a Giulio, - hai tutte le virtù che ci vogliono,
cominciando dalla povertà, e qui ce n'è la prova: che
hai l'umiltà si prova dal fatto che ti sei lasciato insultare
sulla pubblica strada da un riccone di Albano: ti mancano soltanto
l'ipocrisia e l'ingordigia.
Ranuccio mise per forza cinquanta
doppioni d'oro nella cassetta di ferro.
- Ti do la mia parola, - disse a
Giulio, - che se di qui a un mese il signor di Campireali non è
sotterrato con tutti gli onori dovuti alla sua nobiltà e alla
sua ricchezza, il mio caporale qui presente verrà qui con
trenta uomini a demolire la tua casetta e a dar fuoco alla tua povera
mobilia. Il figlio del capitano Branciforte non deve fare una brutta
figura così con la scusa che è innamorato.
Quando il signor di Campireali e suo
figlio tirarono i due colpi di archibugio, Ranuccio e il caporale
s'erano appostati sotto il balcone di pietra, e ci volle del bello e
del buono perché Giulio impedisse loro di uccidere Fabio, o
almeno di rapirlo, quando questi, come abbiamo già detto, fece
quell'imprudente sortita dalla parte del giardino. Ranuccio si lasciò
persuadere da questo ragionamento: non bisogna uccidere un giovanotto
che domani può diventare qualcuno ed essere utile, mentre c'è
il vecchio peccatore che è più colpevole di lui e che
non ha da fare altro che andare sotto terra.
Il giorno dopo Ranuccio sparì
nella foresta e Giulio partì per Roma. La gioia che provò
nel comperare dei bei vestiti nuovi coi doppioni datigli da Ranuccio
era crudelmente turbata da questa idea davvero straordinaria in quel
secolo e che annunziava l'alto destino che gli era riservato. Si
diceva: "Bisogna che l'Elena sappia chi sono". Ogni altro
uomo dell'età sua e di quel secolo avrebbe pensato soltanto a
godere del suo amore e a rapire Elena senza curarsi né di ciò
che ella sarebbe divenuta dopo sei mesi né dell'opinione che
la giovane si sarebbe fatta di lui.
Ritornato ad Albano, proprio nel
pomeriggio che si pavoneggiava davanti a tutti nel bel vestito
portato da Roma, seppe dal vecchio Scotti, suo amico, che Fabio era
uscito a cavallo dalla città per recarsi in una terra che suo
padre aveva comprato a tre leghe di là, in riva al mare. Vide
poi il signor di Campireali che in compagnia di due preti si avviava
verso quel magnifico viale di lecci che incorona l'orlo del cratere
nel cui fondo è il lago di Albano. Non erano passati dieci
minuti che una vecchia s'introduceva arditamente nel palazzo
Campireali col pretesto di vendere della bella frutta: la prima
persona nella quale si imbatté fu la piccola camerista
Marietta, confidente intima di Elena, che arrossì fino al
bianco degli occhi nel ricevere un bel mazzo di fiori. C'era nascosta
una lettera che non finiva più; Giulio raccontava tutto quello
che aveva provato a partire dalla notte dei colpi d'archibugio; ma
per uno strano senso di vergogna non osava confessare ciò di
cui sarebbe stato orgoglioso ogni altro giovane di quel tempo, cioè
ch'egli era figlio di un capitano famoso per le sue avventure e che
anche lui si era distinto per il suo coraggio in più di un
combattimento. Il fatto è che pensava sempre alle riflessioni
che quei fatti avrebbero ispirato al vecchio Campireali. Bisogna
sapere che nel secolo quindicesimo le giovinette, più vicine
al buon senso repubblicano, stimavano molto di più un uomo per
ciò che aveva fatto lui stesso che non per le ricchezze
accumulate dai suoi padri o per le famigerate imprese di costoro. Ma
questi erano soprattutto i sentimenti delle giovani popolane. Le
ragazze appartenenti a famiglie ricche o nobili avevano paura dei
briganti e avevano in molta stima, com'è naturale, la nobiltà
e la ricchezza. La lettera di Giulio terminava con queste parole: "Io
non so se i vestiti decenti che ho portato da Roma vi hanno fatto
dimenticare l'ingiuria crudele che una persona da voi rispettata mi
ha fatto recentemente per via del mio miserevole aspetto; avrei
potuto vendicarmi, anzi avrei dovuto, ché l'onore mio lo
esigeva: non l'ho fatto pensando alle lacrime che la mia vendetta
avrebbe fatto spargere agli occhi che adoro. Questo vi provi, se mai
per mia sventura ancora ne dubitiate, che si può esser
poverissimo e avere nobili sentimenti. Devo del resto rivelarvi un
segreto tremendo: non proverei la minima pena nel dirlo a qualunque
altra donna; ma tremo, non so perché, al pensiero di dirlo a
voi. L'amore che voi sentite per me potrebbe essere distrutto in un
solo istante: nessuna protesta da parte vostra potrebbe soddisfarmi.
Voglio vedere nei vostri occhi quale effetto avrà questa
confessione. Uno di questi giorni, al cadere della notte, vi vedrò
nel giardino che è dietro il vostro palazzo. In quel giorno
Fabio e vostro padre saranno assenti: quando avrò acquistato
la certezza che con tutto il loro disprezzo per un povero giovane mal
vestito essi non potranno toglierci tre quarti d'ora o un'ora di
conversazione, si vedrà sotto il vostro palazzo un uomo che
mostrerà ai ragazzi del paese una volpe addomesticata. Più
tardi, quando suonerà l'"Ave Maria", sentirete in
lontananza un colpo d'archibugio: avvicinatevi allora al muro del
giardino e, se non siete sola, mettetevi a cantare. Se non si sentirà
nulla, il vostro schiavo vi si getterà ai piedi tutto tremante
e vi dirà cose che forse vi faranno fremere d'orrore. In
attesa di quel giorno decisivo e tremendo per me, non mi arrischierò
più ad offrirvi dei mazzi di fiori a mezzanotte, ma verso le
due di notte passerò cantando, e chi sa che voi, nascosta nel
gran balcone di pietra, non lasciate cadere un fiore colto da voi
stessa nel vostro giardino. Sarà forse l'ultimo segno
d'affetto che voi darete allo sventurato Giulio".
Tre giorni dopo il padre e il
fratello di Elena si recarono a cavallo in quel loro possedimento
sulla riva del mare: dovevano ripartire prima del tramonto per essere
di ritorno a casa verso le due di notte. Ma al momento di mettersi in
cammino non soltanto i loro cavalli , ma tutti quelli della fattoria
erano scomparsi. Molto meravigliati per un furto così audace,
si misero in cerca dei cavalli; ma questi non furono ritrovati che il
giorno dopo nella foresta d'alto fusto che si trova lungo il mare. I
due Campireali, padre e figlio, furono costretti a ritornare ad
Albano con una vettura campestre trainata da buoi. Quella sera,
quando Giulio si gettò alle ginocchia di Elena, non ci si
vedeva quasi più, e la povera fanciulla fu felice di quel
buio: per la prima volta si trovava alla presenza dell'uomo che ella
amava teneramente, che lo sapeva benissimo, ma a cui non aveva mai
rivolto la parola.
S'accorse che Giulio era più
pallido e tremante di lei, e questo le rese un po' di coraggio. Lo
vedeva ai suoi ginocchi. - Davvero, - egli disse, - non ho la forza
di parlare -. Fu certo un momento di beatitudine: si guardarono l'un
l'altra, ma senza poter articolare una parola, immobili come un
patetico gruppo di marmo. Giulio, inginocchiato, teneva nelle sue una
mano di Elena, e questa, a capo chino, lo fissava attentamente.
Giulio sapeva bene quello che gli
avevano detto certi suoi amici di Roma, giovanotti libertini; che in
momenti simili si deve tentare qualche cosa; ma ebbe orrore di
quell'idea. Un'altra idea venne invece a destarlo da quello stato
d'estasi, che era forse la felicità più viva che
l'amore possa dare, e l'idea era questa: il tempo vola via
rapidamente; i Campireali si avvicinano al palazzo. Si rese conto che
con un'anima scrupolosa come la sua non avrebbe raggiunto una
felicità duratura finché non avesse fatto alla sua
amante quella tremenda confessione che i suoi amici di Roma avrebbero
giudicato una solenne sciocchezza.
- Vi ho parlato d'una confessione che
forse non dovrei farvi, - disse ad Elena.
Diventò pallidissimo e riprese
a fatica, come se gli mancasse il respiro.
- Forse vedrò scomparire
codesti sentimenti nella cui speranza è tutta la mia vita. Voi
mi credete povero; ma questo non è tutto: SONO BRIGANTE E
FIGLIO DI BRIGANTE.
Elena, figlia d'un uomo ricco e che
aveva tutte le paure della sua casta, a queste parole si sentì
mancare: le parve di cadere. "Quale angoscia, - pensava, - ne
avrebbe il povero Giulio! Si crederebbe disprezzato". Egli le
stava inginocchiato dinanzi. Si appoggiò a lui per non cadere
e poco dopo si abbandonò senza conoscenza tra le sue braccia.
Come si vede, nel secolo sedicesimo
le storie d'amore si raccontano con precisione. Il fatto è che
l'ingegno non si esercitava su codeste storie per giudicarle, ma
l'immaginazione le sentiva, e la passione del lettore s'identificava
con quella dei personaggi. I due manoscritti che noi seguiamo, e
segnatamente quello che presenta alcuni giri di frase propri del
parlar fiorentino, narrano fin nei minimi particolari la storia di
tutti gli appuntamenti che tennero dietro a questo primo. Il pericolo
annullava i rimorsi della fanciulla. Spesso i rischi furono estremi;
ma quei due cuori, in cui era gioia ogni sensazione che venisse dal
loro affetto, ne traevano un ardore anche più grande.
Parecchie volte furono sul punto di essere sorpresi da Fabio e dal
padre. Questi erano furibondi, credendosi sfidati: sapevano dalla
voce pubblica che Giulio era l'amante di Elena e tuttavia non
potevano scoprire nulla. Fabio, giovane impetuoso e orgoglioso della
propria nascita, propose al padre di far ammazzare Giulio. - Fino a
quando che rimarrà in questo mondo, - gli diceva, - la vita di
mia sorella corre il più gran pericolo. Chi ci dice che uno di
questi giorni il nostro amore non ci costringerà a bagnare le
mani nel sangue di questa caparbia? E' arrivata a tal punto di
audacia che non nega più il suo amore: voi stesso l'avete
vista rispondere ai vostri rimproveri con un cupo silenzio: ebbene,
quel silenzio è la condanna a morte di Giulio Branciforte.
- Voi sapete chi è stato suo
padre, - rispondeva il signor di Campireali, - certo, non ci sarebbe
difficile andare a passare sei mesi a Roma, e intanto questo
Branciforte scomparirebbe. Ma chi ci dice che suo padre, il quale fu
coraggioso e generoso nonostante tutti i suoi delitti, generoso a tal
segno da arricchire parecchi dei suoi soldati e rimanere povero, chi
ci dice che suo padre non abbia ancora amici sia nella compagnia di
Monte Mariano sia nella compagnia Colonna che occupa spesso i boschi
della Faiola a mezza lega da casa nostra? In tal caso siamo tutti
ammazzati, voi, io e forse anche la vostra sventurata madre.
Questi discorsi del padre e del
figlio rimanevano nascosti solo in parte a Vittoria Carafa, madre di
Elena, e le davano una grande inquietudine. Il risultato delle
discussioni tra Fabio e il padre fu la persuasione in tutti e due che
era un disonore per loro il tollerare pacificamente la continuazione
delle voci che correvano per Albano. Poiché non era prudente
fare scomparire quel giovane Branciforte che si mostrava ogni giorno
più insolente e che ora, magnificamente vestito, si arrogava
il diritto di rivolgere la parola in pubblico sia a Fabio sia allo
stesso signor di Campireali, bisognava risolversi a scegliere uno di
questi due partiti o forse adottarli tutti e due: ritornare tutti a
vivere a Roma e rimandare Elena nel convento della Visitazione a
Castro, dove sarebbe rimasta finché si fosse trovato da
accasarla convenientemente.
Elena non aveva mai confessato il suo
amore alla madre: madre e figlia si amavano teneramente, passavano
insieme le loro giornate, eppure non s'erano dette una sola parola su
quell'argomento che stava a cuore a tutti e due quasi con la stessa
intensità. La comune inquietudine si rivelò per la
prima volta nei loro discorsi quando la madre informò la
figliola che si parlava di andar tutti a stabilirsi a Roma e forse di
rimandare lei per qualche anno al convento di Castro.
Da parte di Vittoria Carafa quella
conversazione era un'imprudenza che si può scusare soltanto
con la grande tenerezza che sentiva per la figliola. Elena, pazza
d'amore, volle provare all'amante che non si vergognava punto della
sua povertà e che aveva una fiducia illimitata nel suo onore.
"Chi lo crederebbe? - esclama lo scrittore fiorentino. - Dopo
tanti convegni, nel giardino paterno e, una volta o due, persino in
camera, a rischio d'incorrere in una morte orrenda, Elena era pura!
Forte della propria virtù,
propose all'amante di uscire verso mezzanotte dal palazzo, passando
dal giardino, e di trascorrere il resto della notte nella casupola
costruita sulle rovine di Alba, vale a dire alla distanza di un
quarto di lega e più. Si mascherarono da frati francescani.
Elena aveva una statura slanciata e vestita a quel modo sembrava un
novizio di diciotto o vent'anni. Ciò che non si crederebbe, e
che attesta la presenza del dito di Dio, è che nello stretto
sentiero scavato nella roccia (quella ancora che si vede lungo il
muro del convento dei Cappuccini) Giulio e la sua amante incontrarono
il signor di Campireali e suo figlio Fabio mentre ritornavano da
Castelgandolfo, borgo situato sulle rive del lago, a poca distanza da
Albano, con la scorta di quattro domestici bene armati e preceduti
dal paggio che portava una torcia accesa.
Per lasciar passare i due amanti, i
Campireali e i loro domestici si collocarono a destra e a sinistra di
quel sentiero scavato nella roccia e che non è più
largo di quattro piedi. Fortunata Elena, se l'avessero riconosciuta
in quel momento! Sarebbe stata uccisa da una pistolettata del padre o
del fratello e il suo supplizio non sarebbe durato che un istante; ma
il Cielo aveva decretato altrimenti (superis aliter visum)".
A proposito di questo memorando
incontro va notata un'altra circostanza che la signora di Campireali,
giunta all'estrema vecchiaia e quasi centenaria, raccontava ancora,
talvolta, dinanzi a gravi personaggi, i quali, molto vecchi anche
loro, me l'hanno riferita quando la mia insaziabile curiosità
li interrogò su quell'argomento e su molti altri.
Fabio di Campireali, che era un
giovane orgoglioso del proprio coraggio e pieno di albagia,
osservando che il più vecchio dei due frati non salutava né
suo padre né lui, nel passare accanto esclamò:
- Guardate che frataccio superbo! Dio
sa che cosa vanno a fare fuori dal convento, lui e il suo compagno, a
quest'ora indebita! Non so chi mi trattiene dal tirar giù
questi loro cappucci: così vedremmo che facce hanno.
A queste parole Giulio afferrò
la daga che portava sotto la tonaca fratesca e s'interpose tra Fabio
ed Elena. Tra lui e Fabio non c'era che un passo in quel momento; ma
il Cielo dispose altrimenti e con un miracolo acquietò il
furore di quei due giovani, che dovevano ben presto trovarsi di
fronte.
Nel processo che fu intentato più
tardi contro Elena di Campireali si pretese che quella passeggiata
notturna era una prova di corruzione. Era bensì il desiderio
di un giovane cuore infiammato da una folle passione, ma quel cuore
era puro.
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