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Stendhal
La badessa di Castro

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  • Capitolo 2
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Capitolo 2

 

"Dopo aver narrato tante storie tragiche, - dice l'autore del manoscritto fiorentino, - finirò con quella che più di tutte mi fa pena a raccontare. Parlerò di quella famosa badessa del convento della Visitazione a Castro, Elena di Campireali, del cui processo e della cui morte tanto si parlò nell'alta società romana e italiana.

Verso il 1555 i briganti già spadroneggiavano nei dintorni di Roma: i magistrati erano venduti alle famiglie potenti. Nel 1572, che fu l'anno del processo, Gregorio Tredicesimo, Boncompagni, salì il soglio di Pietro. Questo santo pontefice riuniva in sé tutte le virtù apostoliche; ma si è potuta rimproverare qualche debolezza al suo governo civile: egli non seppescegliere giudici onesti, né reprimere il brigantaggio; s'affliggeva dei delitti e non aveva la forza di punirli. Gli sembrava che infliggendo la pena di morte si sarebbe assunto una tremenda responsabilità. Il risultato di questo modo di pensare fu che un numero quasi infinito di briganti popolò le strade che menano alla città eterna. Per viaggiare con una certa sicurezza bisognava esser amico dei briganti. La foresta della Faiola domina la strada di Napoli che passa per Albano, e perciò era da un pezzo il quartiere generale d'un governo in guerra con quello di Sua Santità. Parecchie volte Roma fu costretta a trattare da potenza a potenza con Marco Sciarra, uno dei re della foresta. La forza di questi briganti era nell'amore che avevan per loro i contadini dei dintorni.

"Questa graziosa città d'Albano, così vicina al quartier generale dei briganti, vide nascere nel 1542 Elena di Campireali. Suo padre passava per il patrizio più ricco del paese, e perciò aveva potuto sposare Vittoria Carafa, che possedeva grandi terre nel regno di Napoli. Potrei nominare alcuni vecchi che vivono ancora e che hanno conosciuto bene Vittoria Carafa e la sua figliola. Vittoria fu un modello di prudenza e d'intelligenza; ma, con tutto il suo genio, non poté prevenire la rovina della sua famiglia. Strano! Le spaventose sciagure che saranno il triste argomento della mia narrazione non possono, a quanto mi sembra, essere rimproverate in particolare a nessuno dei personaggi che sto per presentare al lettore: vedo in loro degli sventurati, ma, in verità, in nessuno posso riconoscere il colpevole. La meravigliosa bellezza e l'anima così tenera della giovane Elena erano due grandi pericoli per lei e sono la scusa del suo amante Giulio Branciforte, proprio come l'assoluta mancanza d'intelligenza di monsignor Cittadini, vescovo di Castro, può fino a un certo punto scusarlo. Egli era debitore della sua rapida ascensione nella carriera degli onori ecclesiastici all'onestà della sua condotta, e soprattutto all'aspetto più nobile e al volto più regolarmente bello che non si poteva vederlo senza amarlo.

"Poiché non è mia intenzione adulare nessuno, non dissimulerò che un santo monaco del convento di Monte Cavo, il quale spesso era stato sorpreso nella sua cella sollevato a parecchi piedi dal suolo, come san Paolo, da non altro che dalla grazia divina sostenuto in quella posizione straordinaria (Anche oggi le popolazioni della campagna romana ritengono che questa strana posizione sia un segno certo di santità. Verso l'anno 1826 un monaco di Albano fu sorpreso più volte sollevato da terra per grazia divina. Gli furono attribuiti numerosi miracoli; da luoghi distanti venti leghe la gente accorreva per riceverne la benedizione; signore della più alta società lo videro nella sua cella sospeso a tre piedi da terra, poi, improvvisamente, scomparve), aveva predetto al signor di Campireali che la sua famiglia si sarebbe spenta con lui e che egli avrebbe avuto due soli figlioli, i quali perirebbero tutti e due di morte violenta. Per questa predizione non gli riuscì di ammogliarsi nel paese e andò a cercare fortuna a Napoli, dove ebbe la buona sorte di trovare grandi ricchezze e una moglie capace con la sua intelligenza di mutargli il cattivo destino se una cosa simile fosse possibile.

Il signor di Campireali aveva fama di perfetto gentiluomo e faceva grandi elemosine; ma non aveva alcun ingegno, e per questo a poco a poco cessò di dimorare a Roma e finì col trascorrere quasi tutto l'anno nel suo palazzo di Albano. Si dedicava alla coltivazione delle sue terre, situate in quella ricca pianura che si stende tra la città e il mare. Per consiglio della moglie fece educare magnificamente il suo figliolo Fabio, giovane orgogliosissimo della propria nascita, e la sua figliola Elena, che fu un miracolo di bellezza, come attesta il suo ritratto che si conserva tuttora nella collezione Farnese. Dopo che ho incominciato a scrivere questa storia sono andato al palazzo Farnese per contemplare la veste mortale che il cielo aveva dato a questa donna, il cui funesto destino levò tanto rumore ai suoi tempi e occupa ancora la memoria degli uomini. La forma del capo è un ovale allungato, la fronte è molto ampia, i capelli sono d'un biondo cupo. La fisionomia è piuttosto lieta. Gli occhi, grandi, hanno un'espressione profonda, e le sopracciglie castane formano un arco perfettamente disegnato. Le labbra sono molto sottili e si direbbe che le linee della bocca sono state disegnate dal famoso pittore Correggio. Veduta in mezzo ai ritratti che la circondano nella galleria Farnese, ha l'aspetto d'una regina. Accade molto di rado che l'aspetto allegro accompagni la maestà.

"Dopo aver passato otto anni interi nel convento della Visitazione della città di Castro, ora distrutta, dove erano mandate in quel tempo le fanciulle di quasi tutti i principi romani, Elena ritornò nel proprio paese, ma prima di lasciare il convento fece offerta d'uno splendido calice all'altare maggiore della chiesa. Appena fu ritornata ad Albano, il padre fece venir da Roma, offrendogli una lauta pensione, il celebre poeta Cecchino, allora molto avanzato in età. Questi ornò la memoria di Elena dei più bei versi del divino Virgilio e dei suoi famosi discepoli, Dante, il Petrarca e l'Ariosto".

 

Qui il traduttore è costretto a saltare una lunga dissertazione sui diversi gradi di gloria che il secolo decimosesto assegnava a questi grandi poeti. Parrebbe che Elena sapesse il latino. I versi che le facevano imparare a memoria parlavano d'amore, e di un amore che ci sembrerebbe molto ridicolo se lo trovassimo in quest'anno di grazia 1839; voglio dire l'amore appassionato che si nutre di grandi sacrifici, non può sussistere se non avvolto di mistero ed è sempre vicino alle sciagure più tremende.

Tale era l'amore che ad Elena appena diciassettenne seppe ispirare Giulio Branciforte. Era questi uno dei suoi vicini, poverissimo: abitava una casupola costruita sulla montagna, a un quarto di lega dalla città, in mezzo alle rovine dell'antica Alba e sul ciglio di quel precipizio alto centocinquanta piedi, tappezzato di verdura, che circonda il lago. La casa, vicinissima alle cupe e magnifiche ombre della foresta della Faiola, fu poi abbattuta per la costruzione del convento di Palazzolo. Quel povero giovane non aveva altro bene che il suo aspetto svelto e vivace e l'indifferenza non simulata con cui sopportava la sua mala fortuna. Aveva un volto espressivo senza essere bello, e questo era quanto di meglio si poteva dire in suo favore. Ma si diceva che aveva combattuto valorosamente al comando del principe Colonna, tra i suoi "bravi", in due o tre imprese molto rischiose. Povero, non bello, egli era nondimeno il cuore di cui le ragazze di Albano avrebbero fatto più volentieri la conquista. E poiché era ben accolto dappertutto, Giulio Branciforte non aveva avuto che facili amori fino al momento in cui Elena ritornò dal convento di Castro.

 

"Quando, poco dopo, il gran poeta Cecchino si trasferì da Roma al palazzo Campireali per insegnare le belle lettere alla fanciulla, Giulio, che lo conosceva, gli diresse una poesia in latino sulla felicità che la sua vecchiaia avrebbe avuto nel vedere due occhi così belli fissi nei suoi e un'anima così pura essere felice quando egli si fosse degnato di approvarne i pensieri. La gelosia e il dispetto delle ragazze corteggiate da Giulio prima del ritorno di Elena resero ben presto inutili tutte le precauzioni a cui egli ricorreva per tenere nascosta la sua nascente passione, e io devo confessare che i due giovani innamorati (lui aveva ventidue anni e lei diciassette) si comportarono da principio in un modo che la prudenza non potrebbe approvare. Non erano passati tre mesi che il signor di Campireali s'avvide che Giulio Branciforte passava troppo spesso sotto le finestre di quel suo palazzo che ancora si vede a metà della grande strada che sale verso il lago".

 

La franchezza e la rudezza, conseguenza naturale della libertà tollerata dalle repubbliche, e l'abitudine delle libere passioni non ancora represse dai costumi monarchici, si rivelano appieno nel primo passo del signor di Campireali. Il giorno stesso in cui fu offeso dalle frequenti apparizioni del giovane Branciforte lo apostrofò in questi termini:

- Come osi passare così di continuo davanti alla mia casa e lanciare occhiate impertinenti alle finestre di mia figlia, tu che non possiedi nemmeno vestiti per coprirti? Se non temessi che i vicini giudicassero male la cosa, ti regalerei tre zecchini d'oro e tu andresti a Roma a comperarti una tunica più decente. Almeno i miei occhi e quelli di mia figlia non sarebbero così spesso offesi dalla vista dei tuoi cenci.

Il padre di Elena esagerava: i vestiti del giovane Branciforte non si potevano dir cenci: erano di stoffa comune; ma, ancorché ben puliti e spazzolati, bisogna confessare che apparivano logori per il lungo uso. Giulio fu così profondamente addolorato per i rimproveri del signor di Campireali che di giorno non si fece più vedere davanti al palazzo.

Come abbiamo già detto, i due archi, resti d'un antico acquedotto, che servivano di mura principali alla casa costruita dal padre del Branciforte e da lui lasciata al figliolo, non distavano da Albano più di cinque o seicento passi. Per discendere da quell'alto luogo alla città moderna Giulio era costretto a passare davanti al palazzo Campireali: Elena poté dunque notare l'assenza di quello strano giovane che, a quel che dicevano le sue amiche, aveva tralasciato ogni altra relazione per darsi tutto alla felicità che pareva provare nel guardar lei.

Una sera d'estate, verso mezzanotte, la finestra di Elena era aperta: la fanciulla respirava il venticello marino che si fa sentire molto bene sulla collina d'Albano, per quanto tra questa città e il mare si estendano tre leghe di pianura. La notte era cupa, il silenzio profondo: si sarebbe sentita cadere una foglia. Elena, affacciata alla finestra, pensava forse a Giulio, quando intravide qualcosa come l'ala silenziosa d'un uccello notturno che passava pian piano proprio contro la finestra. Si ritrasse spaventata. Non le venne l'idea che potesse trattarsi d'un oggetto offerto da qualche passante: la sua finestra era al secondo piano del palazzo, a più di cinquanta piedi da terra. Tutt'a un tratto le parve di riconoscere un mazzo di fiori in quella cosa strana che nel silenzio profondo passava e ripassava davanti alla finestra a cui era affacciata. Il cuore le batté con violenza.

Il mazzo di fiori sembrava fissato all'estremità di due o tre di quelle canne o grandi giunchi, abbastanza simili al bambù, che crescono nella campagna romana e danno delle aste lunghe tra i venti e i trenta piedi. La debolezza delle canne e il vento abbastanza forte facevano sì che Giulio provasse una certa difficoltà a tenere fermo il suo mazzo di fiori proprio davanti alla finestra a cui pensava che fosse affacciata Elena, e d'altra parte la notte era così buia che a quell'altezza non si poteva scorgere nulla. Immobile davanti alla finestra, Elena era profondamente agitata. Se avesse preso quel mazzo di fiori, non sarebbe stata una confessione? D'altra parte ella non provava nessuno di quei sentimenti che una simile avventura farebbe nascere oggi in una giovinetta dell'alta società, preparata alla vita da una raffinata educazione. Poiché suo padre e suo fratello Fabio erano in casa, il suo primo pensiero fu che il minimo rumore sarebbe seguito da un colpo d'archibugio sparato contro Giulio: le venne pietà del pericolo che correva quel povero giovane. Il suo secondo pensiero fu che questi, benché a lei quasi ignoto, era però la persona che avesse più cara al mondo dopo la sua famiglia. Finalmente, dopo qualche minuto d'esitazione, afferrò il mazzo di fiori e toccando le corolle nella profonda oscurità sentì che un biglietto era attaccato a uno stelo. Corse subito sullo scalone del palazzo per leggere quel biglietto alla luce di una lampada che ardeva davanti all'immagine della Madonna.

"Imprudente! - si disse quando le prime righe l'ebbero fatta arrossire di gioia, - se mi vedono sono perduta, e la mia famiglia non lo perdonerà a questo povero giovane". Ritornò nella sua camera e accese la lampada. Quel momento fu delizioso per Giulio, il quale, vergognoso del suo passo e come per nascondersi nell'oscurità profonda della notte, s'era stretto al tronco enorme d'uno di quei lecci dalle forme bizzarre che si vedono anche oggi intorno al palazzo Campireali.

Nella sua lettera Giulio raccontava con perfetta schiettezza l'umiliante reprimenda che aveva ricevuto dal padre di Elena.

"Io sono povero, è vero, - diceva, - e difficilmente voi potreste immaginarvi l'eccesso della mia povertà. Ho soltanto la mia casa, quella che forse voi avrete notato sotto le rovine dell'acquedotto di Alba: intorno alla casa c'è un giardino che io stesso coltivo e con le cui erbe mi sostento. Posseggo anche una vigna che affitto per trenta scudi l'anno. In verità io non so perché vi amo: non posso proporvi di certo di venire a condividere la mia miseria. E tuttavia, se voi non mi amate, la vita non vale più nulla per me; è inutile dirvi che sarei pronto a darla mille volte per voi. Eppure, prima del vostro ritorno dal convento, questa mia vita non era infelice: era anzi piena delle più splendide fantasticherie. Posso perciò dirvi che l'aspetto della felicità mi ha reso infelice. Nessuno al mondo, allora, avrebbe avuto il coraggio di dirmi le parole con cui vostro padre mi ha umiliato, ché mi sarei fatto immediatamente giustizia col mio pugnale. In quei giorni, col mio coraggio e con le mie armi, mi sentivo pari a tutti: nulla mi mancava. Ora tutto è cambiato: conosco il timore. Ma scrivo troppo: forse voi mi disprezzate. Se invece avete un po' di compassione per me, nonostante i poveri vestiti che mi coprono, osserverete che tutte le sere, quando batte la mezzanotte al convento dei Cappuccini in cima alla collina, io sono nascosto sotto il gran leccio di fronte alla finestra che guardo continuamente perché penso sia quella della vostra camera. Se non mi disprezzate come mi disprezza vostro padre, gettatemi un fiore del mazzo che vi ho offerto, ma badate che non cada su una delle cornici o uno dei balconi del vostro palazzo".

La lettera fu letta parecchie volte, e a poco a poco gli occhi di Elena si riempirono di lacrime; ella guardava con tenerezza quel magnifico mazzo di fiori che era legato con un fil di seta molto forte. Tentò di strapparne un fiore, ma non ci riuscì; poi il rimorso la prese. Strappare un fiore, sciupare in un modo qualsiasi un mazzo offerto da un innamorato, per le ragazze di Roma significava esporsi a far morire quell'amore. Ebbe timore che Giulio si spazientisse, corse alla finestra; ma sul punto di affacciarsi pensò che l'avrebbero vista troppo bene, perché la luce della lampada riempiva la camera. Elena non sapeva più qual segno potesse permettersi: le sembrava che non ce ne fosse nessuno che non dicesse troppo.

Tutta vergognosa, rientrò correndo nella camera. Ma il tempo passava. Le venne un'idea improvvisa che la gettò in un grande turbamento: Giulio poteva credere che lei lo disprezzava, come suo padre, perché povero! S'accorse di un piccolo frammento di marmo prezioso deposto sul suo tavolino, lo annodò nel fazzoletto, e gettò questo ai piedi del leccio davanti alla sua finestra. Poi fece segno che bisognava allontanarsi e sentì che Giulio le ubbidiva, perché, nell'andarsene, non cercava più di attutire il rumore dei passi. Quando egli ebbe raggiunto la vetta della cerchia di rocce che separa il lago dalle ultime case di Albano, Elena sentì che cantava parole d'amore: gli fece allora dei segni d'addio, questa volta meno timidi, e poi si rimise a leggere la lettera.

Il giorno dopo, e nei giorni seguenti, ci furono lettere e colloqui dello stesso genere; ma poiché in un villaggio italiano vien tutto osservato, e poiché Elena era il partito di gran lunga più ricco del paese, il signor di Campireali fu avvertito che tutte le sere dopo la mezzanotte si vedeva illuminata la finestra della camera di sua figlia, e che la finestra (cosa ben altrimenti straordinaria) era aperta, ed Elena vi stava affacciata come se non avesse alcun timore delle zanzare (insetti molto fastidiosi che sono il guaio delle belle serate nella campagna romana: ancora una volta devo chiedere venia al lettore: quando si cerca di conoscere gli usi dei paesi stranieri bisogna aspettarsi di trovare idee molto strane, diversissime dalle nostre). Il signor di Campireali preparò il proprio archibugio e quello del suo figliolo. La sera, quando suonarono le undici e tre quarti, avvisò Fabio, e tutti e due, facendo il minor rumore possibile, si mesero in agguato su un grande balcone di pietra al primo piano del palazzo, proprio sotto la finestra di Elena.

I massicci pilastri della balaustra di pietra li riparavano fino alla cintola dai colpi d'archibugio che si sarebbero potuti tirar loro dall'esterno. Suonò la mezzanotte: il padre e il figlio sentirono qualche piccolo rumore sotto gli alberi che fiancheggiavano la via di fronte al palazzo; ma, e la cosa li riempì di stupore, non si vide luce alla finestra di Elena. La fanciulla, che fino ad allora era stata così semplice che sembrava una bambina per la vivacità del carattere, da quando amava era del tutto mutata. Sapeva bene che la minima imprudenza poteva compromettere la vita del suo innamorato: se un signore potente come suo padre uccideva un povero diavolo come Giulio Branciforte, se la cavava con un'assenza di tre mesi che sarebbe andato a passare a Napoli: intanto i suoi amici di Roma avrebbero aggiustato la faccenda, e tutto sarebbe finito con l'offerta d'una lampada d'argento di qualche centinaio di scudi all'altare della Madonna allora di moda. La mattina, Elena s'era accorta, dalla fisionomia di suo padre, ch'egli era in gran collera; e dal modo che la guardava quando credeva di non essere osservato pensò che in quella collera lei doveva averci una gran parte. Andò subito a spargere un po' di polvere sul legno dei cinque magnifici archibugi che il padre teneva appesi vicino al letto, e ricoprì anche d'un leggero strato di polvere i pugnali e le spade. Durante tutta la giornata, come presa da una forte allegria, perlustrò la casa da cima a fondo; in ogni momento s'avvicinava alle finestre, con la ferma intenzione di fare a Giulio un segno negativo, se mai avesse la fortuna di scorgerlo. Non le venne in mente che il povero ragazzo, profondamente umiliato dal rabbuffo del ricco signor di Campireali, non si faceva mai vedere di giorno in Albano: la domenica soltanto andava per dovere alla messa parrocchiale. La madre di Elena, che l'adorava e che non sapeva rifiutarle nulla, quel giorno uscì tre volte con lei; ma fu inutile: Elena non incontrò Giulio. Era disperata. E a qual punto salì la sua disperazione verso sera allorché esaminando le armi del padre si accorse che due archibugi erano stati caricati e quasi tutte le spade e i pugnali maneggiati! La sola cosa che la distraeva dalla sua mortale inquietudine era l'estrema attenzione con cui badava a non lasciar vedere dagli altri il proprio stato d'animo. Ritirandosi alle dieci della sera, chiuse a chiave la porta della sua stanza da letto che dava sull'anticamera della madre: poi, seduta sul pavimento in modo che non la vedessero dall'esterno, non si mosse più dalla finestra. Si pensi all'ansia con cui sentì suonare le ore: non era più questione dei rimproveri che si faceva per essersi affezionata così presto a Giulio e mettersi quindi al rischio di apparire meno degna d'amore agli occhi di lui. Nel cuore di Elena il giovane prese più posto in quel giorno di quel che avrebbe fatto dopo sei mesi di costanza e di proteste. "Perché mentire? - si diceva la giovinetta: - o che forse non l'amo con tutte le forze dell'anima mia?".

Alle undici e mezzo vide benissimo suo padre e suo fratello porsi in agguato sotto il balcone di pietra sopra il quale c'era la sua finestra. Due minuti dopo che la mezzanotte era suonata al convento dei Cappuccini, sentì il passo del suo amante, che si fermò sotto la gran quercia. Notò con gioia che suo padre e suo fratello sembravano non essersi accorti di nulla: per cogliere un così lieve rumore ci voleva l'ansietà della passione.

"Ora, - si disse, - verranno ad uccidermi, ma bisogna impedire ad ogni costo che scoprano la lettera di questa sera, altrimenti non cesserebbero di perseguitare il povero Giulio". Si fece il segno della croce e, afferrandosi con una mano alla ringhiera di ferro si penzolò dalla finestra il più che poteva. Non era passato un quarto di minuto che il mazzo di fiori attaccato come al solito alla canna le venne ad urtare il braccio. Lo afferrò; ma nell'atto di strapparlo alla canna a cui era attaccato fece urtare questa contro il balcone di pietra. Istantaneamente partirono due colpi d'archibugio a cui seguì un gran silenzio. Suo fratello Fabio, non vedendo bene nel buio se l'oggetto che urtava contro il balcone non fosse per caso una fune per mezzo della quale Giulio si calasse dalla camera della sorella, aveva sparato sulla ringhiera. Il giorno dopo Elena trovò il segno della palla che si era schiacciata contro il ferro. Il signor di Campireali aveva sparato in strada, sotto il balcone di pietra, perché Giulio aveva fatto un po' di rumore nel trattenere la canna che stava per cadere. Giulio, da parte sua, sentendo rumore sul suo capo, aveva indovinato quel che stava per accadere e s'era messo al riparo sotto la sporgenza del balcone.

Fabio ricaricò in fretta l'archibugio e corse, qualsiasi cosa il padre potesse dirgli, nel giardino della casa, aprì piano una porticina che dava su una via laterale e camminando con cautela si mise a spiare chi si trovasse sotto il balcone del palazzo. Giulio, che quella sera era ben accompagnato, stava in quel momento a venti passi da lui, appoggiato a un albero. Elena, china alla ringhiera e inquieta per il suo amante, a voce molto alta rivolse la parola al fratello di cui aveva avvertito la presenza in strada: gli chiese se aveva ucciso qualche ladro.

- Non crediate che la vostra perfida astuzia mi abbia ingannato! - le gridò Fabio, e misurava coi passi la strada in tutti i sensi. - Ora è il momento di piangere, perché ammazzerò quell'insolente che ce l'ha con la vostra finestra.

Non aveva ancora finito di pronunciare queste parole che Elena sentì sua madre picchiare alla porta della camera. S'affrettò ad aprire, dicendo di non riuscire a capire come mai la porta fosse chiusa.

- Non fingere con me, amor mio, - le disse la madre; - tuo padre è furibondo e forse t'ucciderà; vieni con me nel mio letto, e se hai una lettera, dammela, la nasconderò.

- Ecco il mazzo di fiori, - rispose Elena, - la lettera è nascosta tra i fiori.

La madre e la figlia erano appena a letto che il signor di Campireali rientrò nella camera della moglie: ritornava dalla cappella di casa dove s'era messo a cercare e vi aveva messo tutto sottosopra. Elena fu impressionata soprattutto dalla lentezza che suo padre, pallido come uno spettro, metteva in ogni gesto, come chi sa perfettamente quel che deve fare. "Sono morta!", si disse Elena.

- Noi ci rallegriamo d'avere dei figli, - disse suo padre passando accanto al letto della moglie per andare in camera della figlia, e dovremmo invece piangere lacrime di sangue quando questi figli sono femmine. Gran Dio! è mai possibile? La loro leggerezza può disonorare uno che in sessant'anni non ha dato adito alla minima diceria.

Nel dire queste parole entrò nella camera della figlia.

- Sono perduta, - disse Elena alla madre, - le lettere sono sotto il piedistallo del crocifisso, vicino alla finestra.

La madre balzò dal letto e corse dietro a suo marito: si mise a esporgli le peggiori ragioni che potesse trovare per farlo andare in bestia, e ci riuscì. Il vecchio diventò furioso, si mise a fracassare quanto trovava nella stanza della figlia, e intanto la madre poté portar via le lettere senza che l'uomo se ne accorgesse. Dopo un'ora, quando il signor di Campireali si fu ritirato nella sua camera, attigua a quella della moglie, e nella casa ritornò la calma, la madre disse ad Elena:

- Ecco le lettere: non voglio leggerle: pensa a che rischio ci han messo! Fossi te, le brucerei! Abbracciami, e vattene.

Elena si ritirò nella sua camera e scoppiò in lacrime: dopo quelle parole di sua madre le pareva di non amar più Giulio. Si accinse a bruciar le lettere; ma prima di distruggerle non poté fare a meno di leggerle ancora una volta. E tanto le lesse e le rilesse che il sole era già alto all'orizzonte quando si decise finalmente a seguire il prudente consiglio che le era stato dato. Il giorno dopo era domenica, ed Elena s'incamminò con la madre verso la parrocchia. La prima persona che vide in chiesa fu Giulio Branciforte. Con un'occhiata poté accertarsi che non era ferito. Si sentì felice: quanto era accaduto nella notte era a mille leghe dalla sua memoria. Aveva preparato cinque o sei bigliettini scritti su pezzetti di carta ingiallita e li aveva imbrattati di mota perché sembrassero di quelle cartacce che qualche volta si trovano sul pavimento delle chiese. Codesti bigliettini contenevano tutti lo stesso avvertimento.

"Avevano scoperto tutto, salvo il suo nome. Non si faccia più vedere per strada. Ci si vedrà qui, spesso".

Elena lasciò cadere uno di quei pezzetti di carta, e con un'occhiata avvertì Giulio che lo raccattò e scomparve. Nel ritornare a casa un'ora dopo, trovò sulla grande scala del palazzo un frammento di carta che le diede nell'occhio perché era in tutto e per tutto simile a quelli di cui s'era servita al mattino. Se ne impadronì, senza che nemmeno la madre s'accorgesse di nulla, e lesse:

"Fra tre giorni lui ritornerà da Roma dove è costretto ad andare. In pieno giorno, verso le dieci, quando ci sarà mercato, si sentirà un canto in mezzo al frastuono dei contadini".

La partenza per Roma parve strana a Elena. "Teme forse i colpi d'archibugio di mio fratello?", si chiedeva tristemente. L'amore perdona tutto, salvo l'assenza volontaria: questa è il peggiore dei supplizi. Invece di cullarsi in una dolce fantasticheria e di star a pesare una per una le ragioni che si hanno d'essere innamorata, dubbi crudeli tormentano il cuore. "Ma, dopo tutto, posso credere che non m'ami più?", si diceva Elena durante le tre lunghe giornate dell'assenza del Branciforte. Tutto ad un tratto una folle gioia dissipò le sue pene: al terzo giorno lo vide in pieno mezzogiorno che passeggiava davanti al palazzo di suo padre. Aveva un vestito nuovo, quasi lussuoso. Mai la nobiltà della sua andatura, la coraggiosa e allegra ingenuità della sua fisionomia si erano manifestate così a pieno; e mai, prima di quel giorno, si era parlato così spesso in Albano della povertà di Giulio. Questa parola crudele era ripetuta dagli uomini e soprattutto dai giovanotti; ma le donne e soprattutto le ragazze non finivano di magnificare il suo aspetto.

Giulio in tutta la giornata non fece altro che andare in su e in giù per la città: gli pareva di ripagarsi i mesi di reclusione a cui l'aveva costretto la sua povertà. Come conviene ad un innamorato, era armato di tutto punto sotto la sua tunica nuova. Oltre la daga e il pugnale, aveva indossato un "giaco" (specie di lungo panciotto di maglia di ferro, molto fastidioso a portare, ma molto buono per guarire i cuori italiani da una triste malattia di cui in quel secolo si provavano quasi di continuo gli accessi crudeli, vale a dire dalla paura di essere ucciso al lato della strada da qualcuno dei propri nemici). Giulio sperava in quel giorno d'intravedere Elena, e d'altronde gli ripugnava di trovarsi solo con se stesso nella sua solitaria camera; ed ecco perché: Ranuccio, un vecchio soldato di suo padre, dopo aver fatto con lui dieci campagne nelle compagnie di ventura di diversi "condottieri", e da ultimo in quelle di Marco Sciarra, aveva seguito il proprio capitano quando questi per le sue ferite era stato costretto a ritirarsi. Il capitano Branciforte aveva le sue ragioni di non voler vivere a Roma: si sarebbe messo a rischio d'incontrare i figli di persone uccise da lui: anche in Albano stava attento a non darsi del tutto in balia della legittima autorità. Invece di comperare o affittare una casa in città, preferì costruirne una in un luogo da dove potesse scorgere di lontano chi venisse a fargli visita. Trovò un posto magnifico nelle rovine di Alba: da , senza esser visto dai visitatori indiscreti, poteva rifugiarsi nella foresta dove spadroneggiava il suo antico patrono e amico il principe Fabrizio Colonna. Il capitano Branciforte s'infischiava del tutto dell'avvenire di suo figlio. Quando lasciò il servizio, non più che cinquantenne, ma carico di ferite, calcolò che gli restavano più o meno una decina d'anni di vita, e una volta che ebbe costruito la sua casa, spese ogni anno la decima parte di quanto aveva accumulato nei gloriosi saccheggi di città e villaggi a cui aveva partecipato.

Egli comperò quella vigna che rendeva trenta scudi l'anno a suo figlio per rispondere allo scherzo sgarbato di un borghese di Albano, il quale gli aveva detto, un giorno che discutevano animatamente sugli interessi e l'onere della città, che toccava a un ricco proprietario come lui dar consigli agli "anziani" di Albano. Il capitano comperò la vigna e annunciò che ne avrebbe comperate molte altre; poi, un giorno che incontrò in un luogo solitario il sarcastico borghese, lo freddò con una pistolettata.

Dopo otto anni di questa vita il capitano morì. Il suo aiutante di campo Ranuccio adorava Giulio; tuttavia, stanco di stare in ozio, riprese servizio nella compagnia del principe Colonna. Veniva spesso a vedere quello che egli chiamava "il suo figliolo Giulio", e una volta, alla vigilia d'un pericoloso assalto che il principe doveva sostenere nella sua rocca della Petrella, lo aveva condotto con sé a combattere. Vedendolo molto coraggioso, gli aveva detto:

- Bisogna che tu sia pazzo e per di più molto sciocco per vivere così nei dintorni di Albano come l'ultimo e il più povero abitante di quel paese, mentre con la bravura che vedo in te e col nome di tuo padre potresti essere un magnifico soldato di ventura e fare fortuna.

A Giulio quelle parole misero il diavolo in corpo. Egli sapeva il latino, che gli era stato insegnato da un prete; ma poiché suo padre s'era sempre burlato di tutto ciò che il prete diceva oltre il latino, non aveva ricevuto la minima istruzione. In compenso, disprezzato com'era per la sua povertà e isolato nella sua casa remota, gli si era sviluppato un buon senso che per la sua audacia avrebbe riempito di stupore i dotti. Per esempio, prima di innamorarsi di Elena, e senza sapere il perché, adorava la guerra, ma gli ripugnava il saccheggio che agli occhi del capitano suo padre e di Ranuccio, era come la commediola da ridere che viene dopo la tragedia. Da quando amava Elena, il buon senso che le riflessioni solitarie avevano sviluppato in lui faceva il supplizio di Giulio. Quell'anima, così indifferente, non osava consultare nessuno intorno ai propri dubbi, ed era tutta passione e dolore. Che cosa direbbe il signor di Campireali se sapesse ch'era un soldato di ventura? Certo i suoi rimproveri avrebbero un giusto fondamento. Giulio aveva sempre contato sul mestiere di soldato, come su un mezzo sicuro per il tempo in cui avesse speso il danaro che poteva ricavare dalle collane d'oro e dagli altri gioielli ritrovati nella cassetta di ferro di suo padre. Se egli non aveva scrupolo a rapire, lui così povero, la figliola del ricco signor di Campireali, era che in questo tempo i genitori lasciavano i propri beni a chi gli piacesse, e il signor di Campireali era padrone di assegnare alla propria figliola un'eredità di mille scudi soltanto. Su un altro problema si affaticava l'immaginazione di Giulio: primo, in quale città andare a vivere con Elena dopo averla sposata e rapita a suo padre? secondo, con quale danaro le avrebbe procurato da vivere?

Quando il signor di Campireali gli ebbe fatto il rimprovero sanguinoso che lo aveva fatto soffrire tanto, Giulio passò due giorni in preda alla rabbia e al dolore più vivo: non poteva risolversi né ad uccidere il vecchio insolente, né a lasciarlo vivere. La notte non faceva altro che piangere. Finalmente decise di consultare Ranuccio, il solo amico ch'egli avesse in questo mondo; ma l'amico l'avrebbe compreso? Cercò invano Ranuccio in tutta la foresta della Faiola: fu costretto a spingersi sulla strada di Napoli, oltre Velletri, dove Ranuccio capeggiava un'imboscata: aspettavano , lui e la sua numerosa banda, il generale spagnolo Ruiz d'Avalos, che si recava a Roma per via di terra, immemore che di recente egli aveva parlato con disprezzo, davanti a molte persone, dei soldati di ventura della compagnia Colonna.

Poiché il suo cappellano gli ricordò molto a proposito di questo fatto di poca importanza, Ruiz d'Avalos decise di far armare un bastimento e di venire a Roma per mare.

Non appena il capitano Ranuccio ebbe sentito il racconto di Giulio:

- Descrivimi con precisione, - gli disse, - l'aspetto di codesto signor di Campireali, perché la sua imprudenza non costi la vita a qualche bravo abitante di Albano. Appena avremo sbrigato con un sì o con un no la faccenda che ci trattiene qui, tu te ne andrai a Roma e ti farai vedere a qualunque ora del giorno negli alberghi e in altri pubblici locali: bisogna che nessuno sospetti di te per via dell'amore che porti alla sua figliola.

Giulio durò fatica a sedare la collera dell'antico compagno di suo padre e finì con l'offendersi.

- Credi tu, - gli disse finalmente, - che io voglia ricorrere alla tua spada? Non ho una spada anch'io? Sono venuto da te per un buon consiglio.

Ranuccio concludeva ogni suo discorso con queste parole:

- Tu sei giovane, non sei ferito, e l'insulto è stato pubblico; orbene, un uomo senza onore è disprezzato dalle donne.

Giulio gli rispose che voleva ancora riflettere sui propri sentimenti, e per quanto Ranuccio cercasse di trattenerlo e di convincerlo che prendendo parte all'attacco contro la scorta del capitano spagnolo si sarebbe fatto onore e avrebbe per giunta guadagnato dei bravi doppioni d'oro, se ne ritornò solo alla sua casetta. Fu che ricevette Ranuccio e il suo caporale, di ritorno dal Velletrano, proprio il giorno prima che il signor di Campireali gli tirasse un colpo d'archibugio. Ranuccio volle vedere per forza la cassetta di ferro in cui il suo padrone, il capitano Branciforte, chiudeva un tempo le catene d'oro e gli altri gioielli che non riteneva opportuno di spendere subito dopo una spedizione. Ci trovò in tutto due scudi.

- Ti consiglio di andare a farti frate, - disse a Giulio, - hai tutte le virtù che ci vogliono, cominciando dalla povertà, e qui ce n'è la prova: che hai l'umiltà si prova dal fatto che ti sei lasciato insultare sulla pubblica strada da un riccone di Albano: ti mancano soltanto l'ipocrisia e l'ingordigia.

Ranuccio mise per forza cinquanta doppioni d'oro nella cassetta di ferro.

- Ti do la mia parola, - disse a Giulio, - che se di qui a un mese il signor di Campireali non è sotterrato con tutti gli onori dovuti alla sua nobiltà e alla sua ricchezza, il mio caporale qui presente verrà qui con trenta uomini a demolire la tua casetta e a dar fuoco alla tua povera mobilia. Il figlio del capitano Branciforte non deve fare una brutta figura così con la scusa che è innamorato.

Quando il signor di Campireali e suo figlio tirarono i due colpi di archibugio, Ranuccio e il caporale s'erano appostati sotto il balcone di pietra, e ci volle del bello e del buono perché Giulio impedisse loro di uccidere Fabio, o almeno di rapirlo, quando questi, come abbiamo già detto, fece quell'imprudente sortita dalla parte del giardino. Ranuccio si lasciò persuadere da questo ragionamento: non bisogna uccidere un giovanotto che domani può diventare qualcuno ed essere utile, mentre c'è il vecchio peccatore che è più colpevole di lui e che non ha da fare altro che andare sotto terra.

Il giorno dopo Ranuccio sparì nella foresta e Giulio partì per Roma. La gioia che provò nel comperare dei bei vestiti nuovi coi doppioni datigli da Ranuccio era crudelmente turbata da questa idea davvero straordinaria in quel secolo e che annunziava l'alto destino che gli era riservato. Si diceva: "Bisogna che l'Elena sappia chi sono". Ogni altro uomo dell'età sua e di quel secolo avrebbe pensato soltanto a godere del suo amore e a rapire Elena senza curarsi né di ciò che ella sarebbe divenuta dopo sei mesi né dell'opinione che la giovane si sarebbe fatta di lui.

Ritornato ad Albano, proprio nel pomeriggio che si pavoneggiava davanti a tutti nel bel vestito portato da Roma, seppe dal vecchio Scotti, suo amico, che Fabio era uscito a cavallo dalla città per recarsi in una terra che suo padre aveva comprato a tre leghe di , in riva al mare. Vide poi il signor di Campireali che in compagnia di due preti si avviava verso quel magnifico viale di lecci che incorona l'orlo del cratere nel cui fondo è il lago di Albano. Non erano passati dieci minuti che una vecchia s'introduceva arditamente nel palazzo Campireali col pretesto di vendere della bella frutta: la prima persona nella quale si imbatté fu la piccola camerista Marietta, confidente intima di Elena, che arrossì fino al bianco degli occhi nel ricevere un bel mazzo di fiori. C'era nascosta una lettera che non finiva più; Giulio raccontava tutto quello che aveva provato a partire dalla notte dei colpi d'archibugio; ma per uno strano senso di vergogna non osava confessare ciò di cui sarebbe stato orgoglioso ogni altro giovane di quel tempo, cioè ch'egli era figlio di un capitano famoso per le sue avventure e che anche lui si era distinto per il suo coraggio in più di un combattimento. Il fatto è che pensava sempre alle riflessioni che quei fatti avrebbero ispirato al vecchio Campireali. Bisogna sapere che nel secolo quindicesimo le giovinette, più vicine al buon senso repubblicano, stimavano molto di più un uomo per ciò che aveva fatto lui stesso che non per le ricchezze accumulate dai suoi padri o per le famigerate imprese di costoro. Ma questi erano soprattutto i sentimenti delle giovani popolane. Le ragazze appartenenti a famiglie ricche o nobili avevano paura dei briganti e avevano in molta stima, com'è naturale, la nobiltà e la ricchezza. La lettera di Giulio terminava con queste parole: "Io non so se i vestiti decenti che ho portato da Roma vi hanno fatto dimenticare l'ingiuria crudele che una persona da voi rispettata mi ha fatto recentemente per via del mio miserevole aspetto; avrei potuto vendicarmi, anzi avrei dovuto, ché l'onore mio lo esigeva: non l'ho fatto pensando alle lacrime che la mia vendetta avrebbe fatto spargere agli occhi che adoro. Questo vi provi, se mai per mia sventura ancora ne dubitiate, che si può esser poverissimo e avere nobili sentimenti. Devo del resto rivelarvi un segreto tremendo: non proverei la minima pena nel dirlo a qualunque altra donna; ma tremo, non so perché, al pensiero di dirlo a voi. L'amore che voi sentite per me potrebbe essere distrutto in un solo istante: nessuna protesta da parte vostra potrebbe soddisfarmi. Voglio vedere nei vostri occhi quale effetto avrà questa confessione. Uno di questi giorni, al cadere della notte, vi vedrò nel giardino che è dietro il vostro palazzo. In quel giorno Fabio e vostro padre saranno assenti: quando avrò acquistato la certezza che con tutto il loro disprezzo per un povero giovane mal vestito essi non potranno toglierci tre quarti d'ora o un'ora di conversazione, si vedrà sotto il vostro palazzo un uomo che mostrerà ai ragazzi del paese una volpe addomesticata. Più tardi, quando suonerà l'"Ave Maria", sentirete in lontananza un colpo d'archibugio: avvicinatevi allora al muro del giardino e, se non siete sola, mettetevi a cantare. Se non si sentirà nulla, il vostro schiavo vi si getterà ai piedi tutto tremante e vi dirà cose che forse vi faranno fremere d'orrore. In attesa di quel giorno decisivo e tremendo per me, non mi arrischierò più ad offrirvi dei mazzi di fiori a mezzanotte, ma verso le due di notte passerò cantando, e chi sa che voi, nascosta nel gran balcone di pietra, non lasciate cadere un fiore colto da voi stessa nel vostro giardino. Sarà forse l'ultimo segno d'affetto che voi darete allo sventurato Giulio".

Tre giorni dopo il padre e il fratello di Elena si recarono a cavallo in quel loro possedimento sulla riva del mare: dovevano ripartire prima del tramonto per essere di ritorno a casa verso le due di notte. Ma al momento di mettersi in cammino non soltanto i loro cavalli , ma tutti quelli della fattoria erano scomparsi. Molto meravigliati per un furto così audace, si misero in cerca dei cavalli; ma questi non furono ritrovati che il giorno dopo nella foresta d'alto fusto che si trova lungo il mare. I due Campireali, padre e figlio, furono costretti a ritornare ad Albano con una vettura campestre trainata da buoi. Quella sera, quando Giulio si gettò alle ginocchia di Elena, non ci si vedeva quasi più, e la povera fanciulla fu felice di quel buio: per la prima volta si trovava alla presenza dell'uomo che ella amava teneramente, che lo sapeva benissimo, ma a cui non aveva mai rivolto la parola.

S'accorse che Giulio era più pallido e tremante di lei, e questo le rese un po' di coraggio. Lo vedeva ai suoi ginocchi. - Davvero, - egli disse, - non ho la forza di parlare -. Fu certo un momento di beatitudine: si guardarono l'un l'altra, ma senza poter articolare una parola, immobili come un patetico gruppo di marmo. Giulio, inginocchiato, teneva nelle sue una mano di Elena, e questa, a capo chino, lo fissava attentamente.

Giulio sapeva bene quello che gli avevano detto certi suoi amici di Roma, giovanotti libertini; che in momenti simili si deve tentare qualche cosa; ma ebbe orrore di quell'idea. Un'altra idea venne invece a destarlo da quello stato d'estasi, che era forse la felicità più viva che l'amore possa dare, e l'idea era questa: il tempo vola via rapidamente; i Campireali si avvicinano al palazzo. Si rese conto che con un'anima scrupolosa come la sua non avrebbe raggiunto una felicità duratura finché non avesse fatto alla sua amante quella tremenda confessione che i suoi amici di Roma avrebbero giudicato una solenne sciocchezza.

- Vi ho parlato d'una confessione che forse non dovrei farvi, - disse ad Elena.

Diventò pallidissimo e riprese a fatica, come se gli mancasse il respiro.

- Forse vedrò scomparire codesti sentimenti nella cui speranza è tutta la mia vita. Voi mi credete povero; ma questo non è tutto: SONO BRIGANTE E FIGLIO DI BRIGANTE.

Elena, figlia d'un uomo ricco e che aveva tutte le paure della sua casta, a queste parole si sentì mancare: le parve di cadere. "Quale angoscia, - pensava, - ne avrebbe il povero Giulio! Si crederebbe disprezzato". Egli le stava inginocchiato dinanzi. Si appoggiò a lui per non cadere e poco dopo si abbandonò senza conoscenza tra le sue braccia.

 

Come si vede, nel secolo sedicesimo le storie d'amore si raccontano con precisione. Il fatto è che l'ingegno non si esercitava su codeste storie per giudicarle, ma l'immaginazione le sentiva, e la passione del lettore s'identificava con quella dei personaggi. I due manoscritti che noi seguiamo, e segnatamente quello che presenta alcuni giri di frase propri del parlar fiorentino, narrano fin nei minimi particolari la storia di tutti gli appuntamenti che tennero dietro a questo primo. Il pericolo annullava i rimorsi della fanciulla. Spesso i rischi furono estremi; ma quei due cuori, in cui era gioia ogni sensazione che venisse dal loro affetto, ne traevano un ardore anche più grande. Parecchie volte furono sul punto di essere sorpresi da Fabio e dal padre. Questi erano furibondi, credendosi sfidati: sapevano dalla voce pubblica che Giulio era l'amante di Elena e tuttavia non potevano scoprire nulla. Fabio, giovane impetuoso e orgoglioso della propria nascita, propose al padre di far ammazzare Giulio. - Fino a quando che rimarrà in questo mondo, - gli diceva, - la vita di mia sorella corre il più gran pericolo. Chi ci dice che uno di questi giorni il nostro amore non ci costringerà a bagnare le mani nel sangue di questa caparbia? E' arrivata a tal punto di audacia che non nega più il suo amore: voi stesso l'avete vista rispondere ai vostri rimproveri con un cupo silenzio: ebbene, quel silenzio è la condanna a morte di Giulio Branciforte.

- Voi sapete chi è stato suo padre, - rispondeva il signor di Campireali, - certo, non ci sarebbe difficile andare a passare sei mesi a Roma, e intanto questo Branciforte scomparirebbe. Ma chi ci dice che suo padre, il quale fu coraggioso e generoso nonostante tutti i suoi delitti, generoso a tal segno da arricchire parecchi dei suoi soldati e rimanere povero, chi ci dice che suo padre non abbia ancora amici sia nella compagnia di Monte Mariano sia nella compagnia Colonna che occupa spesso i boschi della Faiola a mezza lega da casa nostra? In tal caso siamo tutti ammazzati, voi, io e forse anche la vostra sventurata madre.

Questi discorsi del padre e del figlio rimanevano nascosti solo in parte a Vittoria Carafa, madre di Elena, e le davano una grande inquietudine. Il risultato delle discussioni tra Fabio e il padre fu la persuasione in tutti e due che era un disonore per loro il tollerare pacificamente la continuazione delle voci che correvano per Albano. Poiché non era prudente fare scomparire quel giovane Branciforte che si mostrava ogni giorno più insolente e che ora, magnificamente vestito, si arrogava il diritto di rivolgere la parola in pubblico sia a Fabio sia allo stesso signor di Campireali, bisognava risolversi a scegliere uno di questi due partiti o forse adottarli tutti e due: ritornare tutti a vivere a Roma e rimandare Elena nel convento della Visitazione a Castro, dove sarebbe rimasta finché si fosse trovato da accasarla convenientemente.

Elena non aveva mai confessato il suo amore alla madre: madre e figlia si amavano teneramente, passavano insieme le loro giornate, eppure non s'erano dette una sola parola su quell'argomento che stava a cuore a tutti e due quasi con la stessa intensità. La comune inquietudine si rivelò per la prima volta nei loro discorsi quando la madre informò la figliola che si parlava di andar tutti a stabilirsi a Roma e forse di rimandare lei per qualche anno al convento di Castro.

Da parte di Vittoria Carafa quella conversazione era un'imprudenza che si può scusare soltanto con la grande tenerezza che sentiva per la figliola. Elena, pazza d'amore, volle provare all'amante che non si vergognava punto della sua povertà e che aveva una fiducia illimitata nel suo onore. "Chi lo crederebbe? - esclama lo scrittore fiorentino. - Dopo tanti convegni, nel giardino paterno e, una volta o due, persino in camera, a rischio d'incorrere in una morte orrenda, Elena era pura!

Forte della propria virtù, propose all'amante di uscire verso mezzanotte dal palazzo, passando dal giardino, e di trascorrere il resto della notte nella casupola costruita sulle rovine di Alba, vale a dire alla distanza di un quarto di lega e più. Si mascherarono da frati francescani. Elena aveva una statura slanciata e vestita a quel modo sembrava un novizio di diciotto o vent'anni. Ciò che non si crederebbe, e che attesta la presenza del dito di Dio, è che nello stretto sentiero scavato nella roccia (quella ancora che si vede lungo il muro del convento dei Cappuccini) Giulio e la sua amante incontrarono il signor di Campireali e suo figlio Fabio mentre ritornavano da Castelgandolfo, borgo situato sulle rive del lago, a poca distanza da Albano, con la scorta di quattro domestici bene armati e preceduti dal paggio che portava una torcia accesa.

Per lasciar passare i due amanti, i Campireali e i loro domestici si collocarono a destra e a sinistra di quel sentiero scavato nella roccia e che non è più largo di quattro piedi. Fortunata Elena, se l'avessero riconosciuta in quel momento! Sarebbe stata uccisa da una pistolettata del padre o del fratello e il suo supplizio non sarebbe durato che un istante; ma il Cielo aveva decretato altrimenti (superis aliter visum)".

A proposito di questo memorando incontro va notata un'altra circostanza che la signora di Campireali, giunta all'estrema vecchiaia e quasi centenaria, raccontava ancora, talvolta, dinanzi a gravi personaggi, i quali, molto vecchi anche loro, me l'hanno riferita quando la mia insaziabile curiosità li interrogò su quell'argomento e su molti altri.

Fabio di Campireali, che era un giovane orgoglioso del proprio coraggio e pieno di albagia, osservando che il più vecchio dei due frati non salutava né suo padre né lui, nel passare accanto esclamò:

- Guardate che frataccio superbo! Dio sa che cosa vanno a fare fuori dal convento, lui e il suo compagno, a quest'ora indebita! Non so chi mi trattiene dal tirar giù questi loro cappucci: così vedremmo che facce hanno.

A queste parole Giulio afferrò la daga che portava sotto la tonaca fratesca e s'interpose tra Fabio ed Elena. Tra lui e Fabio non c'era che un passo in quel momento; ma il Cielo dispose altrimenti e con un miracolo acquietò il furore di quei due giovani, che dovevano ben presto trovarsi di fronte.

Nel processo che fu intentato più tardi contro Elena di Campireali si pretese che quella passeggiata notturna era una prova di corruzione. Era bensì il desiderio di un giovane cuore infiammato da una folle passione, ma quel cuore era puro.

 

 

 




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