Capitolo 7
Sembrava che tutto dunque andasse
bene in quell'immenso monastero, abitato da più di trecento
donne curiose. Nessuno aveva visto nulla, nessuno aveva sentito
nulla. Ma accadde che la badessa diede al medico alcune manate di
zecchini coniati di recente nella zecca di Roma. Il medico a sua
volta diede parecchie di quelle monete alla moglie del fornaio. La
donna era graziosa e il marito geloso: questi le frugò nella
valigia, ci trovò quelle belle monete d'oro tutte lucenti, e
credendo che fosse il prezzo del suo disonore costrinse la moglie,
col coltello alla gola, a dirgli da chi le aveva avute. Dopo molte
tergiversazioni, la donna confessò la verità, e la pace
fu fatta. I due sposi passarono a discutere sull'uso che potevano
fare d'una tal somma. La fornaia voleva pagare certi debiti; ma il
marito pensò che era meglio comperare un mulo, e così
fecero. Quel mulo fece scandalo nel vicinato, che conosceva bene la
povertà dei due sposi. Tutte le comari della città,
amiche e nemiche, venivano le une dopo le altre a chiedere alla
moglie del fornaio quale amante generoso l'aveva messa in condizioni
di comperare un mulo, e la donna, irritata, qualche volta rispondeva
dicendo la verità. Un giorno che Cesare del Bene era andato a
vedere il bambino e ritornava a rendere conto della sua visita alla
badessa, questa, benché indisposta, venne fino alla grata, e
gli fece rimproveri sulla poca discrezione usata dagli agenti di cui
egli s'era servito. Il vescovo, da parte sua, cadde ammalato per la
paura, e scrisse ai suoi fratelli di Milano per raccontare l'ingiusta
accusa che gli facevano e per invitarli a venire in suo aiuto. Benché
gravemente ammalato, decise di lasciare Castro; ma prima di partire
scrisse alla badessa:
"Saprete già che la gente
sa tutto. Perciò, se avete interesse a mettere in salvo non
solo la mia reputazione, ma anche la mia vita e se volete evitare un
più grave scandalo, potete incolpare Giambattista Doleri,
morto da qualche giorno. Se con questo mezzo non provvedete al vostro
onore, il mio almeno non correrà più alcun pericolo".
Il vescovo chiamò don Luigi,
il confessore del monastero di Castro.
- Consegnate questa lettera, - gli
disse, - nelle mani della signora badessa.
Questa, dopo aver ricevuto l'infame
biglietto, esclamò davanti a tutte le persone che erano nella
stanza:
- Così meritano d'essere
trattate le vergini folli che preferiscono la bellezza del corpo a
quella dell'anima!
Notizia di quanto avveniva a Castro
giunse rapidamente alle orecchie del "terribile" cardinale
Farnese che da qualche tempo aveva assunto quel tal carattere perché
sperava di avere nel prossimo conclave l'appoggio dei cardinali
zelanti. Il podestà di Castro ebbe subito l'ordine di fare
arrestare il vescovo Cittadini. Tutti i suoi domestici, per lo
spavento d'esser messi alla tortura, presero la fuga. Il solo Cesare
del Bene restò fedele al suo padrone e gli giurò che
sarebbe morto fra i tormenti piuttosto che confessare cosa che
potesse nuocergli. Monsignor Cittadini, vedendo il suo palazzo
circondato di guardie, scrisse di nuovo ai suoi fratelli che
arrivarono da Milano in tutta fretta. Lo trovarono chiuso nella
prigione di Ronciglione.
Raccolgo dal primo interrogatorio che
la badessa, pur confessando la propria colpa, negò di aver
avuto rapporti con monsignor vescovo: il suo complice era stato
Giambattista Doleri, avvocato del convento.
Il 9 settembre 1573 Gregorio
tredicesimo ordinò che il processo fosse fatto in tutta fretta
e col massimo rigore. Un giudice criminale, un fiscale e un
commissario si recarono a Castro e a Ronciglione. Cesare del Bene,
primo cameriere del vescovo, confessa soltanto d'aver portato un
bambino presso una balia. E' messo a confronto con le signore
Vittoria e Bernarda. Torturato per due giorni di seguito, soffre
orribilmente; ma fedele alla sua parola, non confessa se non quanto è
impossibile negare, e il fiscale non può trargli nulla di
bocca.
Quando viene la volta delle signore
Vittoria e Bernarda, che avevano assistito alle torture inflitte a
Cesare, le stesse confessano quanto hanno fatto. Tutte le religiose
sono interrogate circa il nome dell'autore del delitto: quasi tutte
rispondono di avere sentito dire che è monsignor vescovo. Una
delle suore portinaie riferisce le parole oltraggiose che la badessa
aveva rivolto al vescovo nel metterlo alla porta della chiesa. E
aggiunse:
"Quando si parla con un tono
simile, gli è che da un pezzo si amoreggia. Infatti monsignor
vescovo, che di solito era pieno di sicumera, nell'uscir di chiesa
era tutto vergognoso".
Una delle religiose, interrogata
davanti allo strumento di tortura, risponde che l'autore del delitto
dev'essere il gatto, perché la badessa se lo tiene sempre in
grembo e lo accarezza molto. Un'altra religiosa pretende che l'autore
del delitto dev'essere il vento, perché nelle giornate
ventose, la badessa è felice e di buon umore e si espone
all'azione del vento su un belvedere che ha fatto costruire apposta;
e quando si va a chiederle là una grazia, non la rifiuta mai.
La moglie del fornaio, la balia, le comari di Montefiascone,
spaventate dalle torture che avevano visto infliggere a Cesare,
dicono la verità.
Il giovane vescovo era malato o si
fingeva malato a Ronciglione; e questo diede occasione ai suoi
fratelli, aiutati dal credito e dall'alta posizione della signora di
Campireali, di gettarsi più volte ai piedi del Papa, e di
chiedergli che la procedura fosse sospesa finché il vescovo
non si fosse ristabilito in salute. Il terribile cardinale Farnese
accrebbe allora il numero dei soldati che ne vigilavano la prigione.
Non potendo il vescovo essere interrogato, i commissari
incominciavano tutte le loro sedute facendo subire un nuovo
interrogatorio alla badessa. Un giorno che la madre le aveva fatto
dire di tenere duro e continuare a negare tutto, lei confessò
ogni cosa.
- Perché da principio avete
accusato Giambattista Doleri?
- Perché la viltà del
vescovo mi faceva pena, e d'altra parte se egli riesce a salvar la
pelle, potrà curarsi di mio figlio.
Dopo questa confessione, la badessa
fu chiusa in una stanza del convento di Castro, le cui mura, come la
volta, avevano la grossezza di otto piedi. Le monache parlavano con
orrore di quella cella, conosciuta col nome di stanza dei monaci. La
badessa era guardata a vista da tre donne.
Poiché la salute del vescovo
migliorò un poco, trecento sbirri o soldati andarono a
prenderlo a Ronciglione, lo trasportarono a Roma in lettiga, e lo
deposero nella prigione chiamata Corte Savella. Pochi giorni dopo
anche le religiose furono condotte a Roma: la badessa fu chiusa nel
monastero di Santa Marta. Quattro erano le accusate: le signore
Vittoria e Bernarda, la guardiana e la portinaia che aveva sentito le
parole oltraggiose rivolte al vescovo dalla badessa.
Il vescovo fu interrogato
dall'uditore della Camera Apostolica, uno dei primi personaggi
dell'ordine giudiziario. Fu nuovamente sottoposto alla tortura il
povero Cesare del Bene, il quale non solo non confessò nulla,
ma disse cose che "dispiacquero al Pubblico Ministero", e
questo si vendicò con un'altra applicazione della tortura.
Anche alle signore Vittoria e Bernarda fu inflitto questo supplizio
supplementare. Il vescovo negava tutto scioccamente, ma con
coraggiosa ostinatezza: dava conto, fin nei minimi particolari, di
quanto aveva fatto nelle tre serate che evidentemente aveva trascorso
con la badessa.
Finalmente furono messi a confronto
la badessa di Castro e il vescovo, e benché la badessa dicesse
costantemente la verità, fu sottoposta alla tortura. Poiché
ripeteva quel che aveva sempre detto dopo la sua prima confessione,
il vescovo, conforme alla propria indole, le rivolse ingiurie. Dopo
parecchie altre misure, ragionevoli in fondo, ma ispirate da quella
crudeltà che prevaleva troppo spesso nei tribunali italiani,
dopo il regno di Carlo Quinto e di Filippo Secondo, il vescovo fu
condannato alla prigione perpetua in Castel Sant'Angelo e la badessa
a passare tutta la vita in quel convento di Santa Marta dove era
stata condotta. Ma l'attività della signora di Campireali non
si fermava dinanzi ad alcun ostacolo: essa aveva incominciato a far
scavare un passaggio sotterraneo per salvare la figlia.
Il passaggio partiva da una di quelle
fogne aperte dalla magnificenza degli antichi Romani e sboccava in
una profonda cripta dove si deponevano le spoglie mortali delle
religiose di Santa Marta. Largo due piedi all'incirca, il passaggio
aveva pareti di tavole per arginare la terra a destra e a sinistra, e
via via che si procedeva nello scavo gli si costruiva sopra una
specie di volta con due tavole convergenti come le gambe di una A
maiuscola.
Lo scavo era press'a poco a trenta
piedi di profondità. Il difficile stava nel dargli la
direzione giusta: ogni momento s'incontravano pozzi o fondamenta di
antichi edifici che costringevano gli operai a deviare. Un'altra
grande difficoltà consisteva nell'ingombro della terra
scavata, di cui non si sapeva cosa fare: sembra che di notte la
trasportassero fuori e la spargessero qua e là in tutte le vie
di Roma. La gente si meravigliava di tutta quella gran quantità
di terra che sembrava piovuta dal cielo.
La signora di Campireali spendeva
denari a piene mani, perché adorava la figlia, nonostante le
osservazioni che s'era permessa di farle. Eppure, con tutto il genio
che non le contestano i vecchi che l'hanno conosciuta e da cui ho
saputo questi curiosi particolari, il suo passaggio sotterraneo
sarebbe stato senza dubbio scoperto.
Ma il papa Gregorio tredicesimo venne
a morire nel 1585, e con la sede vacante incominciò il regno
del disordine.
Elena era trattata molto male nel
convento dov'era stata rinchiusa. Si può facilmente immaginare
con quale zelo semplici religiose piuttosto povere com'erano quelle
di Santa Marta tormentavano una badessa molto ricca e rea confessa
d'un tal delitto. Elena aspettava ansiosa il risultato dei lavori
intrapresi dalla madre. Ma improvvisamente il suo cuore ebbe strane
emozioni. Già da sei mesi Fabrizio Colonna, prevedendo la
prossima morte di Gregorio tredicesimo, formava grandi progetti per
l'interregno: egli aveva mandato uno dei suoi ufficiali da Giulio
Branciforte, ormai ben conosciuto nell'esercito spagnolo sotto il
nome di colonnello Lizzara, per richiamarlo in Italia. Giulio, che
ardeva dal desiderio di rivedere il suo paese, sbarcò con un
falso nome a Pescara, piccolo porto dell'Adriatico sotto Chieti in
Abbruzzo, e attraverso le montagne arrivò fino alla Petrella.
La gioia che n'ebbe il principe fece stupire tutti. Egli disse a
Giulio che l'aveva fatto chiamare per nominarlo suo successore e
affidargli il comando delle sue truppe. Il Branciforte gli rispose
che l'impresa, militarmente parlando, non valeva nulla, e glielo
provò facilmente: se la Spagna l'avesse voluto sul serio, in
pochi mesi e con poca fatica, avrebbe potuto distruggere tutti i
soldati di ventura d'Italia.
- Ma insomma, - aggiunse il giovane
Branciforte, - se tale è la vostra volontà, principe,
eccomi pronto a marciare. In me voi troverete sempre il successore
del bravo Ranuccio ucciso ai Ciampi.
Prima dell'arrivo di Giulio, il
principe aveva ordinato, come sapeva ordinar lui, che nessuno, alla
Petrella, si lasciasse andare a parlare di Castro e del processo
della badessa: la minima chiacchiera sarebbe stata punita con la pena
di morte, inesorabilmente. Tra le calde dimostrazioni di amicizia con
cui accolse il Branciforte, lo pregò di non recarsi ad Albano
se non con lui, e prima d'intraprendere il viaggio fece occupare la
città da mille dei suoi uomini e collocarne milleduecento in
avanguardia sulla strada di Roma.
Si pensi a quel che provò
Giulio quando il principe, dopo aver fatto venire il vecchio Scotti,
che viveva ancora, nella casa dove aveva collocato il proprio
quartiere generale, lo fece salire nella camera dov'era lui col
Branciforte. Dopo che i due amici si furono gettati l'uno nelle
braccia dell'altro, disse:
- E ora, povero colonnello, aspettati
quel che ci può essere di peggio.
Spenta la candela, chiuse a chiave i
due amici nella stanza e se ne andò.
Il giorno dopo Giulio non volle
uscire dalla sua camera e fece chiedere al principe il permesso di
ritornare alla Petrella e di non vederlo per qualche giorno. Gli fu
riferito che il principe era scomparso con le sue truppe: gli era
giunta nella notte la notizia della morte di Gregorio Tredicesimo, e
dimentico del suo amico Giulio batteva la campagna. Con Giulio erano
rimasti soltanto una trentina di uomini appartenenti all'antica
compagnia di Ranuccio. E' noto che allora le leggi erano lettera
morta in tempo di sede vacante: ognuno pensava a sfogare la proprie
passioni, e non c'era altra forza che la forza. Perciò, prima
che finisse quel giorno, il principe Colonna aveva fatto impiccare
più di cinquanta dei suoi nemici. Quanto a Giulio, benché
avesse con sé meno di quaranta uomini, osò marciare
verso Roma.
Tutti i domestici della badessa di
Castro le erano rimasti fedeli, e avevano preso alloggio nelle
casupole vicine al convento di Santa Marta. L'agonia di Gregorio
Tredicesimo s'era prolungata per più d'una settimana. La
signora di Campireali aspettava con impazienza le giornate di
disordini che dovevano seguire alla morte del papa per fare scavare
gli ultimi cinquanta passi del suo sotterraneo. Ma poiché
bisognava attraversare le cantine di parecchie case abitate, temeva
molto di non potere nascondere al pubblico la fine della sua impresa.
Due giorni dopo l'arrivo del
Branciforte alla Petrella, i tre vecchi "bravi" di Giulio,
che Elena aveva preso a servizio, sembravano impazziti. Benché
tutti sapessero benissimo che lei viveva nella più assoluta
reclusione, vigilata a vista da religiose che l'odiavano, Ugone, uno
dei "bravi", picchiò alla porta del convento e
insisté stranamente perché gli fosse concesso di vedere
la sua padrona... e subito. Fu respinto e messo alla porta.
Disperato, l'uomo rimase lì, e dava un "baiocco" (un
soldo) a ognuno dei domestici del convento che entravano e uscivano,
dicendo loro queste precise parole:
- Rallegratevi con me, il signor
Giulio Branciforte è arrivato, è vivo: ditelo ai vostri
amici.
I due camerati di Ugone passarono la
giornata a portargli dei baiocchi, e continuarono a distribuirli
giorno e notte dicendo sempre le stesse parole finché non ne
rimase loro neppure uno. Ma i tre "bravi", dandosi il
turno, continuarono lo stesso a montar la guardia davanti alla porta
del convento di Santa Marta, e a ripetere ai passanti le stesse
parole con grandi gesti di saluto: - Il signor Giulio è
arrivato, eccetera.
L'idea di questa brava gente ebbe un
felice successo: meno di trentasei ore dopo che il primo baiocco era
stato distribuito, la povera Elena sapeva nel fondo della sua segreta
che Giulio era vivo: quelle parole le diedero una sorta di frenesia:
- O mamma! - esclamava, - quanto male mi avete fatto!
Qualche ora più tardi la
stupefacente notizia le fu confermata dalla piccola Marietta, che
sacrificando tutti i suoi gioielli d'oro ottenne di seguire la suora
guardiana incaricata di portare i pasti alla prigioniera. Elena le si
gettò tra le braccia piangendo di gioia.
- Sembra un sogno, - le disse, - ma
io non rimarrò più a lungo con te.
- S'intende! - le disse Marietta. -
Sono certa che non passerà il tempo di questo conclave senza
che la vostra prigione sia commutata in un semplice esilio.
- Ah! cara, rivedere Giulio! e
rivederlo, colpevole come sono!
Nella terza notte dopo questo
colloquio, una parte del pavimento della chiesa sprofondò con
un gran rumore: le religiose di Santa Marta credettero che il
convento stesse per crollare. Ci fu un grandissimo turbamento: tutti
gridavano al terremoto. Un'ora dopo la caduta del pavimento di marmo
della chiesa, la signora di Campireali, preceduta dai tre "bravi"
al servizio di Elena, entrò nella segreta per via sotterranea.
- Vittoria, vittoria, signora! -
gridavano i "bravi". Elena ebbe uno spavento mortale:
credette che Giulio Branciforte fosse con loro. Si rassicurò
ben presto, e i lineamenti del suo volto ripresero la consueta
espressione severa, quando gli uomini le dissero che con loro c'era
soltanto la signora di Campireali e che Giulio era ancora ad Albano,
occupata da lui con parecchie migliaia di soldati.
Dopo qualche minuto apparve la
signora di Campireali: camminava con molta fatica, appoggiata al
braccio del suo scudiero, che era in gran costume e con la spada al
fianco, ma con quel magnifico costume tutto sudicio di terra.
- Elena mia! vengo a salvarti! -
esclamò la signora di Campireali.
- E chi vi dice che io voglia essere
salvata?
La signora di Campireali, stupita,
guardava la figlia con occhi spalancati: sembrava presa da una grande
agitazione.
- Ebbene, Elena mia, - disse
finalmente, - il destino mi sforza a confessarti un'azione forse
molto naturale, dopo le sventure che un giorno hanno colpito la
nostra famiglia; ma non me ne pento, e ti prego di perdonarmi:
Giulio... Branciforte... è vivo...
- E proprio perché vive io non
voglio vivere.
La signora di Campireali da principio
non comprendeva quel che la figliola volesse dire. Si mise a
supplicarla teneramente, ma non ottenne nessuna risposta. Elena s'era
voltata verso il suo crocifisso e pregava senza ascoltarla. Invano,
per un'ora intera, la signora di Campireali fece di tutto per
ottenere una parola o uno sguardo. Finalmente, spazientita, la figlia
le disse:
- Le sue lettere erano nascoste sotto
il marmo di questo crocifisso, nella mia cameretta di Albano: sarebbe
stato meglio lasciare che mio padre mi pugnalasse! Uscite, e
lasciatemi del danaro.
La signora di Campireali voleva
parlare ancora alla figlia, malgrado i segni che le faceva lo
scudiero impaurito, ma Elena proruppe:
- Lasciatemi almeno un'ora di
libertà: mi avete avvelenato la vita e ora volete avvelenarmi
anche la morte.
- Saremo padroni del sotterraneo
ancora per due o tre ore: spero che ti ricrederai! - esclamò
la signora di Campireali tutta in lacrime.
E riprese la via del sotterraneo.
- Ugone, resta qui con me, - disse
Elena a uno dei suoi "bravi", e sii bene armato, ragazzo
mio, perché forse bisognerà difendermi. Vediamo la tua
daga, la tua spada, il tuo pugnale!
Il vecchio soldato le mostrò
le sue armi, che erano in buono stato.
- Ebbene, tieniti lì sulla
porta della prigione. Io scriverò una lunga lettera a Giulio
che tu stesso gli consegnerai: voglio che passi soltanto per le tue
mani, perché non ho nulla per sigillarla. Tu puoi leggerla
tutta. Mettiti in tasca queste monete d'oro che mia madre ha
lasciato. Per me non ho bisogno che di cinquanta zecchini: mettili
sul mio letto.
Dopo queste parole. Elena si mise a
scrivere.
"Non dubito di te, Giulio mio:
se me ne vado, è perché morirei di dolore tra le tue
braccia vedendo quale sarebbe la mia felicità se non avessi
commesso una colpa. Non credere che io abbia amato un altro al mondo
dopo di te. Anzi il mio cuore era pieno del più vivo disprezzo
per l'uomo che ammettevo nella mia camera. La mia è una colpa
nata soltanto dalla noia: una colpa, se si vuole, di libertinaggio.
Pensa che il mio animo, molto indebolito dopo l'ultimo tentativo
della Petrella, quando ebbi una così crudele accoglienza dal
principe che veneravo perché tu l'amavi, pensa, dico, che il
mio animo molto indebolito durante dodici anni di menzogne, fu come
assediato. Tutto quel che mi circondava era falsità e inganno,
e io lo sapevo. Ebbi da principio una trentina di lettere da te:
pensa con quale impeto di passione aprii le prime! Ma, via via che
leggevo, il cuore mi si agghiacciava. Esaminavo quella scrittura: ci
riconoscevo la tua mano, ma non il tuo cuore. Pensa che quel primo
inganno ha sconvolto a tal punto l'essenza della mia vita che potevo
aprire senza gioia una lettera scritta da te! Il tremendo annuncio
della tua morte finì di uccidere quanto sopravviveva in me
della nostra felice giovinezza. Il mio primo pensiero, come tu ben
comprenderai, fu quello di visitare e toccare con le mie mani la
spiaggia messicana dove si diceva che i selvaggi t'avevano ucciso. Se
avessi seguito quel pensiero... ora saremmo felici, perché a
Madrid, per numerose e furbe che fossero le spie messemi alle
calcagna da chi vigilava su di me, avrei tratto dalla mia tutte le
anime in cui resta ancora un po' di compassione e di bontà, e
probabilmente sarei arrivata a sapere la verità. Già il
tuo valore, Giulio mio, aveva richiamato su te l'attenzione del
mondo, e forse a Madrid qualcuno sapeva che tu ti chiamavi
Branciforte. Vuoi che ti dica quel che impedì la nostra
felicità? Prima di tutto, il ricordo dell'atroce e umiliante
accoglienza che ebbi dal principe alla Petrella: quanti e quali
ostacoli avrei dovuto affrontare per andare da Castro al Messico!
Come tu vedi, l'energia della mia anima già incominciava a
scemare. Mi venne poi una tentazione di vanità. Avevo fatto
fare delle grandi costruzioni nel convento per trasformare in camera
da letto per me lo stanzino della suora guardiana, dove tu ti eri
rifugiato nella notte del combattimento. Guardavo un giorno quella
terra che tu avevi bagnato del tuo sangue, per me; ed ecco che mi
giunse all'orecchio una parola sprezzante: levai il capo, e vidi
delle facce cattive: volli esser badessa per vendicarmi. Mia madre,
che sapeva bene che tu eri vivo, fece cose eroiche per ottenere una
nomina così stravagante. L'alto grado non fu per me che una
fonte di guai: finì di avvilirmi l'anima. Sentivo piacere
nell'esercitare il mio potere a danno delle altre: fui ingiusta. Mi
vedevo a trent'anni virtuosa agli occhi del mondo, ricca, rispettata,
e nondimeno profondamente infelice. Allora si presentò quel
pover'uomo, che era la bontà stessa, ma anche la dabbenaggine
in persona. Proprio grazie a quella dabbenaggine diedi ascolto alle
sue prime parole. La mia anima era così addolorata da tutto
quel che mi circondava dopo la tua partenza che non aveva più
la forza di resistere alla minima tentazione. Ti confesserò
una cosa molto sconveniente? Ma pensa che a una morta tutto è
permesso. Quando leggerai queste righe, i vermi divoreranno questa
bellezza che avrebbe dovuto essere soltanto tua. Ma insomma devo dire
questa cosa che mi fa tanto pena: non capivo perché non avrei
gustato anch'io, come tutte le dame di Roma, l'amore grossolano. Ebbi
un pensiero licenzioso, ma non ho potuto mai darmi a quell'uomo senza
provare un senso di disgusto e di orrore che annullava ogni piacere.
Ti vedevo sempre vicino a me, nel nostro giardino di Albano, quando
la Madonna t'ispirò quel pensiero apparentemente generoso, ma
che pure, dopo mia madre, è stata la disgrazia della nostra
vita. Non eri minaccioso, ma tenero e buono come sei stato sempre: mi
guardavi; e io allora avevo degli impeti di collera contro
quell'altro e arrivavo al punto di batterlo con tutte le mie forze.
Ecco tutta la verità, Giulio mio: non volevo morire senza
dirtela, e pensavo anche che questa conversazione con te avrebbe
allontanata da me l'idea della morte. Ora vedo anche meglio quale
sarebbe stata la mia gioia nel rivederti, se mi fossi mantenuta degna
di te. Ti ordino di vivere e di seguitare codesta carriera militare
che mi ha dato tanta gioia quando ho saputo dei tuoi primi felici
successi. Che cosa sarebbe accaduto, gran Dio! se avessi ricevuto le
tue lettere, soprattutto dopo la battaglia di Achenne! Vivi, e
conserva memoria di Ranuccio, ucciso ai Ciampi, e di Elena, che per
non vedere un rimprovero nei tuoi occhi, è morta a Santa
Marta".
Dopo che ebbe scritto, Elena si
avvicinò al vecchio soldato e vide che dormiva. Gli tolse la
daga, senza ch'egli se ne avvedesse, e lo svegliò.
- Ho finito, - disse, - temo che i
nostri nemici s'impadroniscano del sotterraneo. Corri in fretta a
prender la lettera sulla tavola e consegnala tu stesso a Giulio: TU
STESSO, hai capito? Dagli anche questo fazzoletto: digli che l'amo in
questo momento come l'ho sempre amato, SEMPRE, hai ben capito?
Ugone, in piedi, non se ne andava.
- Vattene, dunque!
- Signora, avete riflettuto bene? Il
signor Giulio vi ama tanto!
- Anch'io l'amo: prendi la lettera e
dagliela tu stesso.
- Ebbene, che Dio vi benedica: siete
così buona!
Ugone si mosse per andar via, poi
ritornò in fretta e trovò Elena morta: aveva la daga
nel cuore.
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