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Stendhal La badessa di Castro IntraText CT - Lettura del testo |
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Capitolo 7
Sembrava che tutto dunque andasse bene in quell'immenso monastero, abitato da più di trecento donne curiose. Nessuno aveva visto nulla, nessuno aveva sentito nulla. Ma accadde che la badessa diede al medico alcune manate di zecchini coniati di recente nella zecca di Roma. Il medico a sua volta diede parecchie di quelle monete alla moglie del fornaio. La donna era graziosa e il marito geloso: questi le frugò nella valigia, ci trovò quelle belle monete d'oro tutte lucenti, e credendo che fosse il prezzo del suo disonore costrinse la moglie, col coltello alla gola, a dirgli da chi le aveva avute. Dopo molte tergiversazioni, la donna confessò la verità, e la pace fu fatta. I due sposi passarono a discutere sull'uso che potevano fare d'una tal somma. La fornaia voleva pagare certi debiti; ma il marito pensò che era meglio comperare un mulo, e così fecero. Quel mulo fece scandalo nel vicinato, che conosceva bene la povertà dei due sposi. Tutte le comari della città, amiche e nemiche, venivano le une dopo le altre a chiedere alla moglie del fornaio quale amante generoso l'aveva messa in condizioni di comperare un mulo, e la donna, irritata, qualche volta rispondeva dicendo la verità. Un giorno che Cesare del Bene era andato a vedere il bambino e ritornava a rendere conto della sua visita alla badessa, questa, benché indisposta, venne fino alla grata, e gli fece rimproveri sulla poca discrezione usata dagli agenti di cui egli s'era servito. Il vescovo, da parte sua, cadde ammalato per la paura, e scrisse ai suoi fratelli di Milano per raccontare l'ingiusta accusa che gli facevano e per invitarli a venire in suo aiuto. Benché gravemente ammalato, decise di lasciare Castro; ma prima di partire scrisse alla badessa:
"Saprete già che la gente sa tutto. Perciò, se avete interesse a mettere in salvo non solo la mia reputazione, ma anche la mia vita e se volete evitare un più grave scandalo, potete incolpare Giambattista Doleri, morto da qualche giorno. Se con questo mezzo non provvedete al vostro onore, il mio almeno non correrà più alcun pericolo".
Il vescovo chiamò don Luigi, il confessore del monastero di Castro. - Consegnate questa lettera, - gli disse, - nelle mani della signora badessa. Questa, dopo aver ricevuto l'infame biglietto, esclamò davanti a tutte le persone che erano nella stanza: - Così meritano d'essere trattate le vergini folli che preferiscono la bellezza del corpo a quella dell'anima! Notizia di quanto avveniva a Castro giunse rapidamente alle orecchie del "terribile" cardinale Farnese che da qualche tempo aveva assunto quel tal carattere perché sperava di avere nel prossimo conclave l'appoggio dei cardinali zelanti. Il podestà di Castro ebbe subito l'ordine di fare arrestare il vescovo Cittadini. Tutti i suoi domestici, per lo spavento d'esser messi alla tortura, presero la fuga. Il solo Cesare del Bene restò fedele al suo padrone e gli giurò che sarebbe morto fra i tormenti piuttosto che confessare cosa che potesse nuocergli. Monsignor Cittadini, vedendo il suo palazzo circondato di guardie, scrisse di nuovo ai suoi fratelli che arrivarono da Milano in tutta fretta. Lo trovarono chiuso nella prigione di Ronciglione.
Raccolgo dal primo interrogatorio che la badessa, pur confessando la propria colpa, negò di aver avuto rapporti con monsignor vescovo: il suo complice era stato Giambattista Doleri, avvocato del convento. Il 9 settembre 1573 Gregorio tredicesimo ordinò che il processo fosse fatto in tutta fretta e col massimo rigore. Un giudice criminale, un fiscale e un commissario si recarono a Castro e a Ronciglione. Cesare del Bene, primo cameriere del vescovo, confessa soltanto d'aver portato un bambino presso una balia. E' messo a confronto con le signore Vittoria e Bernarda. Torturato per due giorni di seguito, soffre orribilmente; ma fedele alla sua parola, non confessa se non quanto è impossibile negare, e il fiscale non può trargli nulla di bocca. Quando viene la volta delle signore Vittoria e Bernarda, che avevano assistito alle torture inflitte a Cesare, le stesse confessano quanto hanno fatto. Tutte le religiose sono interrogate circa il nome dell'autore del delitto: quasi tutte rispondono di avere sentito dire che è monsignor vescovo. Una delle suore portinaie riferisce le parole oltraggiose che la badessa aveva rivolto al vescovo nel metterlo alla porta della chiesa. E aggiunse: "Quando si parla con un tono simile, gli è che da un pezzo si amoreggia. Infatti monsignor vescovo, che di solito era pieno di sicumera, nell'uscir di chiesa era tutto vergognoso". Una delle religiose, interrogata davanti allo strumento di tortura, risponde che l'autore del delitto dev'essere il gatto, perché la badessa se lo tiene sempre in grembo e lo accarezza molto. Un'altra religiosa pretende che l'autore del delitto dev'essere il vento, perché nelle giornate ventose, la badessa è felice e di buon umore e si espone all'azione del vento su un belvedere che ha fatto costruire apposta; e quando si va a chiederle là una grazia, non la rifiuta mai. La moglie del fornaio, la balia, le comari di Montefiascone, spaventate dalle torture che avevano visto infliggere a Cesare, dicono la verità. Il giovane vescovo era malato o si fingeva malato a Ronciglione; e questo diede occasione ai suoi fratelli, aiutati dal credito e dall'alta posizione della signora di Campireali, di gettarsi più volte ai piedi del Papa, e di chiedergli che la procedura fosse sospesa finché il vescovo non si fosse ristabilito in salute. Il terribile cardinale Farnese accrebbe allora il numero dei soldati che ne vigilavano la prigione. Non potendo il vescovo essere interrogato, i commissari incominciavano tutte le loro sedute facendo subire un nuovo interrogatorio alla badessa. Un giorno che la madre le aveva fatto dire di tenere duro e continuare a negare tutto, lei confessò ogni cosa. - Perché da principio avete accusato Giambattista Doleri? - Perché la viltà del vescovo mi faceva pena, e d'altra parte se egli riesce a salvar la pelle, potrà curarsi di mio figlio. Dopo questa confessione, la badessa fu chiusa in una stanza del convento di Castro, le cui mura, come la volta, avevano la grossezza di otto piedi. Le monache parlavano con orrore di quella cella, conosciuta col nome di stanza dei monaci. La badessa era guardata a vista da tre donne. Poiché la salute del vescovo migliorò un poco, trecento sbirri o soldati andarono a prenderlo a Ronciglione, lo trasportarono a Roma in lettiga, e lo deposero nella prigione chiamata Corte Savella. Pochi giorni dopo anche le religiose furono condotte a Roma: la badessa fu chiusa nel monastero di Santa Marta. Quattro erano le accusate: le signore Vittoria e Bernarda, la guardiana e la portinaia che aveva sentito le parole oltraggiose rivolte al vescovo dalla badessa. Il vescovo fu interrogato dall'uditore della Camera Apostolica, uno dei primi personaggi dell'ordine giudiziario. Fu nuovamente sottoposto alla tortura il povero Cesare del Bene, il quale non solo non confessò nulla, ma disse cose che "dispiacquero al Pubblico Ministero", e questo si vendicò con un'altra applicazione della tortura. Anche alle signore Vittoria e Bernarda fu inflitto questo supplizio supplementare. Il vescovo negava tutto scioccamente, ma con coraggiosa ostinatezza: dava conto, fin nei minimi particolari, di quanto aveva fatto nelle tre serate che evidentemente aveva trascorso con la badessa. Finalmente furono messi a confronto la badessa di Castro e il vescovo, e benché la badessa dicesse costantemente la verità, fu sottoposta alla tortura. Poiché ripeteva quel che aveva sempre detto dopo la sua prima confessione, il vescovo, conforme alla propria indole, le rivolse ingiurie. Dopo parecchie altre misure, ragionevoli in fondo, ma ispirate da quella crudeltà che prevaleva troppo spesso nei tribunali italiani, dopo il regno di Carlo Quinto e di Filippo Secondo, il vescovo fu condannato alla prigione perpetua in Castel Sant'Angelo e la badessa a passare tutta la vita in quel convento di Santa Marta dove era stata condotta. Ma l'attività della signora di Campireali non si fermava dinanzi ad alcun ostacolo: essa aveva incominciato a far scavare un passaggio sotterraneo per salvare la figlia. Il passaggio partiva da una di quelle fogne aperte dalla magnificenza degli antichi Romani e sboccava in una profonda cripta dove si deponevano le spoglie mortali delle religiose di Santa Marta. Largo due piedi all'incirca, il passaggio aveva pareti di tavole per arginare la terra a destra e a sinistra, e via via che si procedeva nello scavo gli si costruiva sopra una specie di volta con due tavole convergenti come le gambe di una A maiuscola. Lo scavo era press'a poco a trenta piedi di profondità. Il difficile stava nel dargli la direzione giusta: ogni momento s'incontravano pozzi o fondamenta di antichi edifici che costringevano gli operai a deviare. Un'altra grande difficoltà consisteva nell'ingombro della terra scavata, di cui non si sapeva cosa fare: sembra che di notte la trasportassero fuori e la spargessero qua e là in tutte le vie di Roma. La gente si meravigliava di tutta quella gran quantità di terra che sembrava piovuta dal cielo. La signora di Campireali spendeva denari a piene mani, perché adorava la figlia, nonostante le osservazioni che s'era permessa di farle. Eppure, con tutto il genio che non le contestano i vecchi che l'hanno conosciuta e da cui ho saputo questi curiosi particolari, il suo passaggio sotterraneo sarebbe stato senza dubbio scoperto. Ma il papa Gregorio tredicesimo venne a morire nel 1585, e con la sede vacante incominciò il regno del disordine. Elena era trattata molto male nel convento dov'era stata rinchiusa. Si può facilmente immaginare con quale zelo semplici religiose piuttosto povere com'erano quelle di Santa Marta tormentavano una badessa molto ricca e rea confessa d'un tal delitto. Elena aspettava ansiosa il risultato dei lavori intrapresi dalla madre. Ma improvvisamente il suo cuore ebbe strane emozioni. Già da sei mesi Fabrizio Colonna, prevedendo la prossima morte di Gregorio tredicesimo, formava grandi progetti per l'interregno: egli aveva mandato uno dei suoi ufficiali da Giulio Branciforte, ormai ben conosciuto nell'esercito spagnolo sotto il nome di colonnello Lizzara, per richiamarlo in Italia. Giulio, che ardeva dal desiderio di rivedere il suo paese, sbarcò con un falso nome a Pescara, piccolo porto dell'Adriatico sotto Chieti in Abbruzzo, e attraverso le montagne arrivò fino alla Petrella. La gioia che n'ebbe il principe fece stupire tutti. Egli disse a Giulio che l'aveva fatto chiamare per nominarlo suo successore e affidargli il comando delle sue truppe. Il Branciforte gli rispose che l'impresa, militarmente parlando, non valeva nulla, e glielo provò facilmente: se la Spagna l'avesse voluto sul serio, in pochi mesi e con poca fatica, avrebbe potuto distruggere tutti i soldati di ventura d'Italia. - Ma insomma, - aggiunse il giovane Branciforte, - se tale è la vostra volontà, principe, eccomi pronto a marciare. In me voi troverete sempre il successore del bravo Ranuccio ucciso ai Ciampi. Prima dell'arrivo di Giulio, il principe aveva ordinato, come sapeva ordinar lui, che nessuno, alla Petrella, si lasciasse andare a parlare di Castro e del processo della badessa: la minima chiacchiera sarebbe stata punita con la pena di morte, inesorabilmente. Tra le calde dimostrazioni di amicizia con cui accolse il Branciforte, lo pregò di non recarsi ad Albano se non con lui, e prima d'intraprendere il viaggio fece occupare la città da mille dei suoi uomini e collocarne milleduecento in avanguardia sulla strada di Roma. Si pensi a quel che provò Giulio quando il principe, dopo aver fatto venire il vecchio Scotti, che viveva ancora, nella casa dove aveva collocato il proprio quartiere generale, lo fece salire nella camera dov'era lui col Branciforte. Dopo che i due amici si furono gettati l'uno nelle braccia dell'altro, disse: - E ora, povero colonnello, aspettati quel che ci può essere di peggio. Spenta la candela, chiuse a chiave i due amici nella stanza e se ne andò. Il giorno dopo Giulio non volle uscire dalla sua camera e fece chiedere al principe il permesso di ritornare alla Petrella e di non vederlo per qualche giorno. Gli fu riferito che il principe era scomparso con le sue truppe: gli era giunta nella notte la notizia della morte di Gregorio Tredicesimo, e dimentico del suo amico Giulio batteva la campagna. Con Giulio erano rimasti soltanto una trentina di uomini appartenenti all'antica compagnia di Ranuccio. E' noto che allora le leggi erano lettera morta in tempo di sede vacante: ognuno pensava a sfogare la proprie passioni, e non c'era altra forza che la forza. Perciò, prima che finisse quel giorno, il principe Colonna aveva fatto impiccare più di cinquanta dei suoi nemici. Quanto a Giulio, benché avesse con sé meno di quaranta uomini, osò marciare verso Roma. Tutti i domestici della badessa di Castro le erano rimasti fedeli, e avevano preso alloggio nelle casupole vicine al convento di Santa Marta. L'agonia di Gregorio Tredicesimo s'era prolungata per più d'una settimana. La signora di Campireali aspettava con impazienza le giornate di disordini che dovevano seguire alla morte del papa per fare scavare gli ultimi cinquanta passi del suo sotterraneo. Ma poiché bisognava attraversare le cantine di parecchie case abitate, temeva molto di non potere nascondere al pubblico la fine della sua impresa. Due giorni dopo l'arrivo del Branciforte alla Petrella, i tre vecchi "bravi" di Giulio, che Elena aveva preso a servizio, sembravano impazziti. Benché tutti sapessero benissimo che lei viveva nella più assoluta reclusione, vigilata a vista da religiose che l'odiavano, Ugone, uno dei "bravi", picchiò alla porta del convento e insisté stranamente perché gli fosse concesso di vedere la sua padrona... e subito. Fu respinto e messo alla porta. Disperato, l'uomo rimase lì, e dava un "baiocco" (un soldo) a ognuno dei domestici del convento che entravano e uscivano, dicendo loro queste precise parole: - Rallegratevi con me, il signor Giulio Branciforte è arrivato, è vivo: ditelo ai vostri amici. I due camerati di Ugone passarono la giornata a portargli dei baiocchi, e continuarono a distribuirli giorno e notte dicendo sempre le stesse parole finché non ne rimase loro neppure uno. Ma i tre "bravi", dandosi il turno, continuarono lo stesso a montar la guardia davanti alla porta del convento di Santa Marta, e a ripetere ai passanti le stesse parole con grandi gesti di saluto: - Il signor Giulio è arrivato, eccetera. L'idea di questa brava gente ebbe un felice successo: meno di trentasei ore dopo che il primo baiocco era stato distribuito, la povera Elena sapeva nel fondo della sua segreta che Giulio era vivo: quelle parole le diedero una sorta di frenesia: - O mamma! - esclamava, - quanto male mi avete fatto! Qualche ora più tardi la stupefacente notizia le fu confermata dalla piccola Marietta, che sacrificando tutti i suoi gioielli d'oro ottenne di seguire la suora guardiana incaricata di portare i pasti alla prigioniera. Elena le si gettò tra le braccia piangendo di gioia. - Sembra un sogno, - le disse, - ma io non rimarrò più a lungo con te. - S'intende! - le disse Marietta. - Sono certa che non passerà il tempo di questo conclave senza che la vostra prigione sia commutata in un semplice esilio. - Ah! cara, rivedere Giulio! e rivederlo, colpevole come sono! Nella terza notte dopo questo colloquio, una parte del pavimento della chiesa sprofondò con un gran rumore: le religiose di Santa Marta credettero che il convento stesse per crollare. Ci fu un grandissimo turbamento: tutti gridavano al terremoto. Un'ora dopo la caduta del pavimento di marmo della chiesa, la signora di Campireali, preceduta dai tre "bravi" al servizio di Elena, entrò nella segreta per via sotterranea. - Vittoria, vittoria, signora! - gridavano i "bravi". Elena ebbe uno spavento mortale: credette che Giulio Branciforte fosse con loro. Si rassicurò ben presto, e i lineamenti del suo volto ripresero la consueta espressione severa, quando gli uomini le dissero che con loro c'era soltanto la signora di Campireali e che Giulio era ancora ad Albano, occupata da lui con parecchie migliaia di soldati. Dopo qualche minuto apparve la signora di Campireali: camminava con molta fatica, appoggiata al braccio del suo scudiero, che era in gran costume e con la spada al fianco, ma con quel magnifico costume tutto sudicio di terra. - Elena mia! vengo a salvarti! - esclamò la signora di Campireali. - E chi vi dice che io voglia essere salvata? La signora di Campireali, stupita, guardava la figlia con occhi spalancati: sembrava presa da una grande agitazione. - Ebbene, Elena mia, - disse finalmente, - il destino mi sforza a confessarti un'azione forse molto naturale, dopo le sventure che un giorno hanno colpito la nostra famiglia; ma non me ne pento, e ti prego di perdonarmi: Giulio... Branciforte... è vivo... - E proprio perché vive io non voglio vivere. La signora di Campireali da principio non comprendeva quel che la figliola volesse dire. Si mise a supplicarla teneramente, ma non ottenne nessuna risposta. Elena s'era voltata verso il suo crocifisso e pregava senza ascoltarla. Invano, per un'ora intera, la signora di Campireali fece di tutto per ottenere una parola o uno sguardo. Finalmente, spazientita, la figlia le disse: - Le sue lettere erano nascoste sotto il marmo di questo crocifisso, nella mia cameretta di Albano: sarebbe stato meglio lasciare che mio padre mi pugnalasse! Uscite, e lasciatemi del danaro. La signora di Campireali voleva parlare ancora alla figlia, malgrado i segni che le faceva lo scudiero impaurito, ma Elena proruppe: - Lasciatemi almeno un'ora di libertà: mi avete avvelenato la vita e ora volete avvelenarmi anche la morte. - Saremo padroni del sotterraneo ancora per due o tre ore: spero che ti ricrederai! - esclamò la signora di Campireali tutta in lacrime. E riprese la via del sotterraneo. - Ugone, resta qui con me, - disse Elena a uno dei suoi "bravi", e sii bene armato, ragazzo mio, perché forse bisognerà difendermi. Vediamo la tua daga, la tua spada, il tuo pugnale! Il vecchio soldato le mostrò le sue armi, che erano in buono stato. - Ebbene, tieniti lì sulla porta della prigione. Io scriverò una lunga lettera a Giulio che tu stesso gli consegnerai: voglio che passi soltanto per le tue mani, perché non ho nulla per sigillarla. Tu puoi leggerla tutta. Mettiti in tasca queste monete d'oro che mia madre ha lasciato. Per me non ho bisogno che di cinquanta zecchini: mettili sul mio letto. Dopo queste parole. Elena si mise a scrivere. "Non dubito di te, Giulio mio: se me ne vado, è perché morirei di dolore tra le tue braccia vedendo quale sarebbe la mia felicità se non avessi commesso una colpa. Non credere che io abbia amato un altro al mondo dopo di te. Anzi il mio cuore era pieno del più vivo disprezzo per l'uomo che ammettevo nella mia camera. La mia è una colpa nata soltanto dalla noia: una colpa, se si vuole, di libertinaggio. Pensa che il mio animo, molto indebolito dopo l'ultimo tentativo della Petrella, quando ebbi una così crudele accoglienza dal principe che veneravo perché tu l'amavi, pensa, dico, che il mio animo molto indebolito durante dodici anni di menzogne, fu come assediato. Tutto quel che mi circondava era falsità e inganno, e io lo sapevo. Ebbi da principio una trentina di lettere da te: pensa con quale impeto di passione aprii le prime! Ma, via via che leggevo, il cuore mi si agghiacciava. Esaminavo quella scrittura: ci riconoscevo la tua mano, ma non il tuo cuore. Pensa che quel primo inganno ha sconvolto a tal punto l'essenza della mia vita che potevo aprire senza gioia una lettera scritta da te! Il tremendo annuncio della tua morte finì di uccidere quanto sopravviveva in me della nostra felice giovinezza. Il mio primo pensiero, come tu ben comprenderai, fu quello di visitare e toccare con le mie mani la spiaggia messicana dove si diceva che i selvaggi t'avevano ucciso. Se avessi seguito quel pensiero... ora saremmo felici, perché a Madrid, per numerose e furbe che fossero le spie messemi alle calcagna da chi vigilava su di me, avrei tratto dalla mia tutte le anime in cui resta ancora un po' di compassione e di bontà, e probabilmente sarei arrivata a sapere la verità. Già il tuo valore, Giulio mio, aveva richiamato su te l'attenzione del mondo, e forse a Madrid qualcuno sapeva che tu ti chiamavi Branciforte. Vuoi che ti dica quel che impedì la nostra felicità? Prima di tutto, il ricordo dell'atroce e umiliante accoglienza che ebbi dal principe alla Petrella: quanti e quali ostacoli avrei dovuto affrontare per andare da Castro al Messico! Come tu vedi, l'energia della mia anima già incominciava a scemare. Mi venne poi una tentazione di vanità. Avevo fatto fare delle grandi costruzioni nel convento per trasformare in camera da letto per me lo stanzino della suora guardiana, dove tu ti eri rifugiato nella notte del combattimento. Guardavo un giorno quella terra che tu avevi bagnato del tuo sangue, per me; ed ecco che mi giunse all'orecchio una parola sprezzante: levai il capo, e vidi delle facce cattive: volli esser badessa per vendicarmi. Mia madre, che sapeva bene che tu eri vivo, fece cose eroiche per ottenere una nomina così stravagante. L'alto grado non fu per me che una fonte di guai: finì di avvilirmi l'anima. Sentivo piacere nell'esercitare il mio potere a danno delle altre: fui ingiusta. Mi vedevo a trent'anni virtuosa agli occhi del mondo, ricca, rispettata, e nondimeno profondamente infelice. Allora si presentò quel pover'uomo, che era la bontà stessa, ma anche la dabbenaggine in persona. Proprio grazie a quella dabbenaggine diedi ascolto alle sue prime parole. La mia anima era così addolorata da tutto quel che mi circondava dopo la tua partenza che non aveva più la forza di resistere alla minima tentazione. Ti confesserò una cosa molto sconveniente? Ma pensa che a una morta tutto è permesso. Quando leggerai queste righe, i vermi divoreranno questa bellezza che avrebbe dovuto essere soltanto tua. Ma insomma devo dire questa cosa che mi fa tanto pena: non capivo perché non avrei gustato anch'io, come tutte le dame di Roma, l'amore grossolano. Ebbi un pensiero licenzioso, ma non ho potuto mai darmi a quell'uomo senza provare un senso di disgusto e di orrore che annullava ogni piacere. Ti vedevo sempre vicino a me, nel nostro giardino di Albano, quando la Madonna t'ispirò quel pensiero apparentemente generoso, ma che pure, dopo mia madre, è stata la disgrazia della nostra vita. Non eri minaccioso, ma tenero e buono come sei stato sempre: mi guardavi; e io allora avevo degli impeti di collera contro quell'altro e arrivavo al punto di batterlo con tutte le mie forze. Ecco tutta la verità, Giulio mio: non volevo morire senza dirtela, e pensavo anche che questa conversazione con te avrebbe allontanata da me l'idea della morte. Ora vedo anche meglio quale sarebbe stata la mia gioia nel rivederti, se mi fossi mantenuta degna di te. Ti ordino di vivere e di seguitare codesta carriera militare che mi ha dato tanta gioia quando ho saputo dei tuoi primi felici successi. Che cosa sarebbe accaduto, gran Dio! se avessi ricevuto le tue lettere, soprattutto dopo la battaglia di Achenne! Vivi, e conserva memoria di Ranuccio, ucciso ai Ciampi, e di Elena, che per non vedere un rimprovero nei tuoi occhi, è morta a Santa Marta". Dopo che ebbe scritto, Elena si avvicinò al vecchio soldato e vide che dormiva. Gli tolse la daga, senza ch'egli se ne avvedesse, e lo svegliò. - Ho finito, - disse, - temo che i nostri nemici s'impadroniscano del sotterraneo. Corri in fretta a prender la lettera sulla tavola e consegnala tu stesso a Giulio: TU STESSO, hai capito? Dagli anche questo fazzoletto: digli che l'amo in questo momento come l'ho sempre amato, SEMPRE, hai ben capito? Ugone, in piedi, non se ne andava. - Vattene, dunque! - Signora, avete riflettuto bene? Il signor Giulio vi ama tanto! - Anch'io l'amo: prendi la lettera e dagliela tu stesso. - Ebbene, che Dio vi benedica: siete così buona! Ugone si mosse per andar via, poi ritornò in fretta e trovò Elena morta: aveva la daga nel cuore.
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