La donna e i suoi rapporti sociali
è, dopo l'operetta giovanile La masque de fer, 4 atti in francese
scritti per il teatro a 18 anni, il primo libro di A. M. Mozzoni, stampato a
Milano nel 1864 dalla Tipografia Sociale.
È anche il suo lavoro più
lungo, scritto prima che l'interesse politico la portasse a tradurre in termini
di attualità i diversi aspetti della questione femminile.
Come si noterà, l'espressione
usata nel testo è «il risorgimento della donna», tratta dal linguaggio dei
gruppi democratici dell'epoca, come del resto il titolo; ma, in entrambi i
casi, si avverte una concezione del problema diversa da quella tradizionale,
dato che i mazziniani dicevano di solito «missione», per indicare il fine delle
loro organizzazioni femminili, che avevano di mira non il mutamento della
società, ma l'educazione delle donne.
Sono state riportate parti
dell'Introduzione e di ciascun capitolo, tranne l'ultimo, molto breve,
riportato per intero.
Lo scritto fu spedito agli
abbonati del giornale «Il dovere» di Genova, come omaggio per l'anno 1865,
insieme a un opuscolo di Osvaldo Gnocchi Viani, Questioni sociali.
Mentre i miei deboli sforzi
dirigo all'utile della femminil gioventú e, tracciando alla donna i suoi
doveri, e rivendicando i suoi diritti, tento sollevarla all'altezza della
missione, alla quale Dio e la natura la sortivano adornandola d'intelligenza e
di sentimento, io non posso porre in migliore accordo coll'argomento la mia
mente ed il mio cuore che a Te consacrando questa mia fatica.
A Te, che al venerando e santo
carattere materno sí degnamente rendi l'onore, che ne ricevi;
a Te, che il comun pregiudizio
non dividesti che alla donna interdice il libero pensiero; a Te, che vita mi
desti, latte ed insegnamento, questa mia dedica è tutt'insieme debito ed
omaggio.
Da tutt'altri implorerei
indulgenza e generosa venia alle molte imperfezioni del mio lavoro; ma dal cuor
di madre è colpa dubitare, non altrimenti che dalla divina illimitata bontà;
laonde aspetto nel Tuo aggradimento l'ampia mercede al mio buon volere.
L'affezionatissima tua Figlia
A. MARIA
Alle Giovani Donne
La revisione del Codice Civile
Italiano per opera del parlamento nazionale mi poneva fra le mani un argomento
- La donna, per vieto costume esclusa dai consigli delle nazioni, ha sempre
subíto la legge senza concorrere a farla, ha sempre colla sua proprietà e col
suo lavoro contribuito alla pubblica bisogna, e sempre senza compenso.
Per lei le imposte, ma non per
lei l'istruzione; per lei i sacrificii, ma non per lei gl'impieghi; per lei la
severa virtú, ma non per lei gli onori; per lei la concorrenza alle spese nella
famiglia, ma non per lei neppur il possesso di sé medesima; per lei la capacità
che la fa punire, ma non per lei la capacità che la fa indipendente; forte
abbastanza per essere oppressa sotto un cumulo di penosi doveri, abbastanza
debole per non poter reggersi da sé stessa...
... Se non che prevedo
l'obiezione, che mi può esser fatta anche da qualche amico generoso della
redenzione femminile; che cioè in mano all'ignorante ed al pregiudicato
potrebbe assai facilmente servire il diritto ad uccidere il diritto; che pur
troppo al dí che corre, subendo la donna le antiche influenze, e né potendo
d'un tratto diradarsi dinnanzi gli occhi la fitta tenebría di sessanta secoli,
essa finirebbe o per non comprendere il suo diritto e trascurarlo o, che peggio
è, per mal applicarlo, non altrimenti che un coltello, utilissimo arnese in
mano al savio ed all'adulto, si fa pericoloso e funesto fra mani al bambino od
al mentecatto.
Nulla di piú vero, e di piú
giusto in verità, che siffatto timore; laonde ciò considerando risolsi di
rivolgere a voi, giovani donne, il mio libro, e parlare a voi dei vostri doveri
prima, poscia dei vostri diritti, né passerò a parlar di questi, se non quando
mi lusingherò di avervi a sufficienza provato che il diritto sul dovere si
fonda, non altro quello essendo che lo strumento col quale questo si compie.
Ognun vede e sa, che potente ed
efficace si è destato il bisogno d'istruzione nella donna in questo quinquennio
di libera vita. Ognun vide l'entusiasmo che la donna italiana portò nel patrio
risorgimento, la devozione sua agli interessi nazionali, i sacrificii che lieta
compí sull'altare dei patrii bisogni.
Se ciò tutto non rivela massima
intelligenza della pubblica cosa; se l'avere scossa l'inconscia pace
dell'ignoranza; se il suo caldo parteggiare per cose, per individui o per
principii, non prova ampiamente in lei sazietà della vieta apatia, e bisogno
supremo di nuova vita, di piú libera atmosfera e di piú ampio orizzonte; se ciò
non è, dico, allora noi assistiamo ad un fenomeno che non ha ragione d'essere,
epperò non possibile soluzione.
Negare alla donna una completa
riforma nella sua educazione, negarle piú ampii confini alla istruzione,
negarle un lavoro, negarle una esistenza nella città, una vita nella nazione,
una importanza nella opinione non è ormai piú cosa possibile; e gli interessi
ostili al suo risorgimento potranno bensí ritardarlo con una lotta ingenerosa,
ma non mai impedirlo.
Ma ogni ragione e l'esperienza
di tutti i secoli prova che l'iniziativa d'ogni redenzione incombe all'oppresso
medesimo; epperò è d'uopo, studii la donna il suo terreno, e sciolgasi prima ad
un tratto da ogni influenza che tenti piegarla e formarla ad interessi non
suoi; ed ecco ragion per cui io tento riscattarla dai vieti principii d'una
morale relativa per sostituirvi una morale assoluta, che non già sé stessa, ma
le sole forme sue modifica in faccia ai rapporti...
... Ma aborrendo per natura
dalla polemica pura che le passioni solleva e poco giova all'argomento;
convinta che, piú col fatto che colla parola si trionfa dei secolari
pregiudizii se, come questo, basati su numerosi e forti interessi; desiderosa
prima, e sovra tutto, d'esservi utile, persuasa che il conquisto del bene esige
sforzo e violenza, ammaestrata dalla storia, che diritto ed importanza mai non
si concedono gratuitamente, ma fa d'uopo conquistarseli; io mi rivolsi a voi,
onde incoraggiarvi a tentare l'impresa; onde esortarvi a chiarire coi fatti
quanto s'ingannino coloro, che bassamente di voi pensarono, che vi credettero
incapaci di applicare lo innato ingegno a studii utili e severi, che crearono
per voi una morale relativa, la quale vi pieghi ad interessi speciali, che non
altro sembrano vedere in voi d'amabile se non ciò che non è vostro ma dono
gratuito della natura, che di niuna influenza vi credono potenti oltre quella
che sui ciechi istinti si fonda; dottrine queste che non è d'uopo mostrarvi
come al nulla vi riducano quando, per fatto di natura matrigna, o d'età, o di
circostanze, cessate d'essere oggetto di passione e di simpatia.
E tanto basti per chiarirvi il
punto mio di partenza - Il mio lavoro, siccome diretto all'utile vostro
materiale e morale, e tendendo ad affermare il vostro individualismo, era
d'uopo cominciasse per mostrarvi quali siete e non attraverso le lenti della
opinione.
Dalle leggi eterne della morale
all'infuori non v'ha arbitrato che pesi sulle umane azioni, il quale non sia
continuamente modificato da circostanze di luogo, di tempo, di condizione e di
persona, e capovolto affatto talora dai progressi della civiltà e
dell'intelligenza. Un secolo fa, l'immortale Molière, colle sue Preziose
Ridicole, faceva argomento al sarcasmo la dottrina femminile; ed il
pubblico francese applaudiva freneticamente all'autore, all'opera,
all'argomento; in oggi l'istruzione femminile ha avanzato. Sovente la donna
dirige al pubblico la parola, ed è volentieri sentita e spesso lodata - Ecco
l'opinione.
È evidente che talune dovettero
per prime affrontarla, ma siccome desse non gettavano il guanto che al
pregiudizio, questo dovette pur far posto alla ragione...
... Ed ecco in qual modo, sollevando
la donna dall'opinione, intendo avviarla alla morale.
La religione fu sempre e
dovunque potentissimo mezzo a dominare la donna, e sta bene; ma io vorrei che
questo sentimento, ch'è in lei tanto sentito e dominante, non in mano altrui
fosse, ma in sua mano; non diretto a farla schiava perpetua dell'altrui avviso,
epperò dell'interesse altrui talora cieco strumento, ma sollievo le fosse e
guida attraverso i delirii dell'umana mente e gli errori d'una peranco non
adulta filosofia.
Gli è in vista di ciò che,
partendo io dalla semplice ragione religiosa ad appagamento dello intelletto
(dacché voi a qualunque culto apparteniate siete in possesso delle religiose
dottrine), piú che della teoria, della pratica applicazione mi sollecito di
questo nobilissimo fra i sentimenti dell'anima umana. Laonde non sopíto e
latente vorrei rimanesse in voi, oppure sterilmente espresso con atti esterni
convenzionali che, per quanto moltiplicantisi, poco costano all'uomo, e meno
onorano Iddio.
Il dovere, fonte del diritto, è
cosa santa ed equa, ma il dovere solo è schiavitú ed oppressione.
Tutte le rivoluzioni sociali,
politiche, religiose, tutte ebbero, o segreta o palese, sempre però una movenza
interessata. Non si accagioni dunque per avventura la donna di strettezza di cuore
se chiede il suo diritto.
Ogni lavoro vuol la mercede,
ogni martirio vuol la corona; l'uomo ha proceduto per questa via al conquisto
della sua libertà, non v'ha ragione che ne escluda la donna.
Ed eccomi perciò a considerarla
in faccia al diritto parziale ed al Codice Civile Sardo dopo averla guardata in
faccia al diritto primitivo ed ingenito, davanti al quale ogni veduta
d'interesse, di convenienza, d'opportunità, deve tacere, e la parzialità della
legge non iscusa, né la debolezza del muscolo che non sarà mai equa base di
diritto, né l'ignoranza che si può vincere, né l'incapacità ch'è sempre
affermata, provata non mai.
Ché se talora, discutendo lo
spirito delle nostre istituzioni avverrà che la penna distilli qualche
amarezza, dichiaro anticipatamente non aver io rancore con niuna personalità al
mondo, ma scaturire queste involontarie dal vedere quanto sia impossibile
all'uomo astrarre da' suoi personali interessi anche quando si dà ad intendere
di far di proposito della giustizia, e questo spirito d'egoismo salire fino a
mala fede, quando l'essere che si afferma debole ed incapace per ispogliarsi di
diritti, si riconosce forte e responsabile per gravarsi di pene e di doveri...
... Le considerazioni fatte
sulla situazione creata alla donna da leggi, che ancor troppo risentono lo
spirito del secolo che precedette il 1789, mi conducono naturalmente a chiedere
delle riforme che, se sono limitate, hanno in compenso il vantaggio di essere
possibili, ed è in me profonda la convinzione che un miglioramento nelle
condizioni presenti della donna non è vantaggio suo soltanto, ma altrettanto e
piú dell'umanità, che in tanta parte della donna si compone ed in altrettanta
da lei dipende ed è influenzata...
... I tempi avanzano. Il vecchio
edificio del dispotismo, che tutto l'uomo incatena dal piú intimo escogitato
dell'anima fino al piú indifferente degli atti umani, scricchiola sui cardini,
scrolla e rovina. Pochi giorni ancora e lo spirito del cristianesimo
sfolgorante della nuova sua luce, l'amore universale, precetto unico e nuovo,
il raggio della sapienza, diffuso come lo spirito di Dio sulla faccia della
terra, raccogliendo sulle ceneri di quello spento l'ultima zolla di terra, gli
diranno, parce sepultis.
1. La donna e l'opinione
«Anima
che per biasmo si dibassa
O
per lode s'innalza è debil canna
Cui
move a scherzo il venticel che passa»
Molti e molti parlarono della
donna, i quali anche pretesero parlarne seriamente, ma io non istimo che il
difficile problema ch'ella presenta, all'uomo, alla famiglia, alla società,
svolto sí dottamente e finamente da tanti, in epoche diverse, e svariate
località, abbia tutti interi raccolti i dati onde completi ne risultino i
criterii; oserei anzi asserire che niun scrittore forse trovossi, parmi, fin
qui che, se uomo, sapesse appieno dimenticar le passioni, se donna,
gl'interessi, onde sarei per dire desiderabile cosa nell'ardua tesi un criterio
neutro affatto che, non punto interessato ad esagerare i vizii o i pregi del
sesso femminile, né a coprirli, ce ne desse la pittura imparziale e con essa i
dati e gli estremi ove basare un solido raziocinio, a derivarne poi analoghe ed
assennate le istituzioni che debbono moderarne le condizioni e gl'interessi.
Dissi vizii o pregi, se pur tali
possono esattamente chiamarsi le attribuzioni, o meglio, i naturali elementi,
costituenti in un complesso logico, ed omogeneo, una natura ordinata ad un dato
scopo, elementi tutti concomitanti e necessarii a far della donna un essere
essenzialmente distinto dall'uomo, ed in pari tempo destinato a vivergli a
fianco sempre utile e necessario, a somministrargli i proprii mezzi
arricchendolo cosí d'un'altra potenza senza sommarsi con lui, identificarsi
nelle sue viste e ne' suoi interessi per modo da essergli un alter ego senza
cessare d'esser da lui distintissimo a perpetuare quella simpatica attrazione,
che distingue i rapporti dell'uomo colla donna e li fa cosí soavi sopra ogni
altro vincolo sociale, e che sparirebbero in una completa fusione.
G. G. Rousseau considerò la
donna in natura; Balzac ne disse dal punto di vista degli interessi virili; La Bruyère l'assoggettò a
fina analisi senza che da questa si curasse poi derivarne riforma alcuna in lei
od attorno a lei; Madame Neker non la vide che dal punto di vista di istituzioni
locali, facenti spesso a pugni colla vera natura degli esseri e delle cose.
Nessuno, fra tanti, studiò di proposito l'influenza delle istituzioni sul suo
carattere e sulle sue condizioni.2
Tutti i poeti, dai grandi ai
piccoli, dagli immortali ai pria morti che nati, la cantarono in ogni
tono, e in ogni metro, vedendola ora colle traveggole del delirio amoroso, ora
coi lividi occhiali dell'orgoglio e dell'odio per affetti incorrisposti od
incompresi.
Tutte le filosofie, tutti i
sistemi se ne occuparono e tutti i legislatori. E chi pretese esser ella la
pura e semplice femmina dell'uomo, e non dover egli perciò conservarla che nei
soli interessi della generazione, deplorando di non poter precorrere il tempo
del suo sviluppo e non disfarsene dappoi. Altri considerando invece che la
donna non è atta alla generazione che in una fase relativamente avanzata della
sua vita, e vedendola sopravvivere tanto tempo al disimpegno delle materne cure
ne derivarono, non fosse con quelle la sua missione esaurita, e pensarono
potesse nelle cose del mondo portare la sua influenza, ed intervenire siccome
essere intelligente e volitivo, potente di mezzi proprii. Di qui la gelosa
insistenza di tutte le leggi sovente ad impedire, e sempre a sfavorire
implicitamente sí, ma non meno potentemente, il sapere ed i mezzi del sapere
alla donna.
Molti scrittori capirono il
programma di convenienza del sesso virile, raccolsero al volo la segreta
parola, e maestri dalle cattedre, oratori dai pergami, giudici dal tribunale
dell'opinione, ganimedi dagli eleganti e voluttuosi gabinetti, padri con
affettuosi sermoni, predicarono quotidianamente alla donna non convenirle la
scienza.
Tu non sei capace di lunghi e
severi studii, le disse lo scienziato, e le dimostrava, come due e due fanno
quattro, che la conformazione del suo cervello, la delicatezza de' suoi
tessuti, la debolezza della sua fibra, la molteplicità de' suoi bisogni, la
dimostrano irrecusabilmente non nata alla scienza; ed ella si volse alla
teologia. Non ti è lecito, rispose questa, sta contro te l'opinione della sacra
serie dei piú illustri padri della Chiesa cominciando da S. Paolo fino al
sacrosanto Concilio Tridentino. D'altronde, qual bisogno hai tu di sapere?
Credi ciò ch'io ti dico, e basta; la debolezza della tua mente non s'attenti di
fissar lo sguardo nelle sacre cose; astienti anzi del tutto anche dalle profane
et non plus sapere quam oportet. Ed ella si volse all'opinione. Questa,
simile alla liquida massa dell'Oceano, ora spinge i suoi flutti come adamantini
proiettili sino al cielo, ora li preme fino all'abisso; fluttuante sempre, è
determinata dai piú, ed è sempre indipendente da ogni pressione che non sia
numero. Le sue risposte sono categoriche; ella non si crede in dovere di
motivare, non si dà pena di far analisi, di stabilir confronti, non si cura di
premesse, non pensa a conseguenze, ed ella rispose alla donna, non voglio, non
mi piace. Ed ella si volse a chi l'amava, ed egli le rispose: Come! Tu dunque
disconosci tanto i vezzi di che ti forní natura da voler andar in cerca d'altri
meno attraenti? Lascia ad una bocca meno piccola della tua la difficile
articolazione di barbari paroloni, e non voler annuvolare il liscio marmo della
tua fronte colle rughe dei calcoli, né voler perdere il tuo celeste sorriso fra
le gravi meditazioni, né impallidir le rose del viso fra le veglie prolungate.
Natura t'informò con tale studio, e di tal predilezione ti amò, che fece in te
pregio l'ignoranza, e tu tutto sai, nulla sapendo. Era quasi convinta, pur
s'attentò a scartabellar qualche volume della paterna biblioteca; ed ecco
radunarsi a grave consiglio la famiglia ed il suo capo decidere che, consultata
la religione, il costume e l'opinione, che esser debbono e sono, con ragione o
senza, i tre padroni assoluti sotto i quali la donna stupida od intelligente,
volente o non volente, deve piegare la testa; tutti ad unanimità decisero che
la donna, se povera all'ago, se ricca all'ozio, passi la vita, ed altro scopo
alla sua esistenza non cerchi oltre quello della femmina; che se poi
s'annoiasse, libero a lei di sbadigliare a tutto suo agio.
Esclusa dal sapere, la donna,
rimaneva esclusa eziandio dal potere; ed eccola ridotta a passività assoluta, cosa
e non essere, di maggiore o minor valore relativo, di nessun valore
intrinseco, orba d'ogni coscienza di sé, ch'è la prima ragione d'ogni forza.
Sostituitosi, collo stabilimento del cristianesimo, il
regno della intelligenza a quello della forza bruta, la donna divenne strumento
tuttora vitale e poderoso alla politica sacerdotale.
I religiosi terrori, certi
affetti artificiali, specie di aberrazioni, di sovreccitazioni nervose, ibride
creazioni del misticismo, furono allora poste in opera dai ministri di
religione per averla piedi e mani legate, cieco e docile strumento ad ogni esorbitanza.
E, per mezzo suo, Stati e famiglie posti a soqquadro, fatalmente compromessi e
scalzati dalle radici rimangono nella storia a documento imperituro del quanto
siano funeste la ignoranza e la morale passività nella donna.
E sgraziatamente eravamo al
punto in cui questa ignoranza e passività, non piú un puro fatto era, ma era
sistema. L'uomo aveva riescito a convincerla non esserle lecito formare il
minimo criterio, né possibile formarne alcuno assennato, in base a che, avea
ella abbandonato ogni studio siccome a lei improba quanto vana fatica; e questa
estrema risultanza dello egoismo d'un sesso e dell'ignoranza dell'altro,
diveniva alfine la pubblica opinione, assicurando al primo un tranquillo
dominio.
Ma ecco ai nostri tempi sorgere
col programma di tutte le possibili libertà anche alla donna un'era novella, ed
in mezzo ad assennate e serie riforme affacciarsi le umoristiche esorbitanze
inseparabili da ogni epoca di transizione; e tornar in campo, sublime per
idealismo siccome venerata per vetustà di concetto, la repubblica platoniana.
Ed ecco che, mentre l'orientalismo proclama la donna puro stromento di piacere,
il cattolicismo la vuole serva rispettata, la cavalleria scopo delle imprese e
premio dei tornei, la teologia, come il vasaio colla sua creta, ne fa vasi
d'onore e d'obbrobrio,3 la poesia il bersaglio a tutte le sue
esagerazioni, il nostro secolo un'addizione al sesso virile; che fa la donna?
La donna, siccome un attore che si orna per la scena, deve chiedersi ogni
giorno qual commedia si rappresenti e davanti a qual pubblico, per sapere qual
piú le s'addica di tutti i costumi di che si vorrebbe coperta. Nessuna lusinga
per lei d'uscirne coll'unanime aggradimento. Condannata ad esser relativa ai
tempi, ai costumi, ai luoghi, agli individui, curva sotto il ponderoso fardello
dei pregiudizii sociali, portando sola, la pena della licenza e degli errori
dell'altro sesso, è, e sarà, finché non si desti alla coscienza di sé, il paria
fra gli esseri viventi.
Ma ecco il tempo di domandarci
la ragione di sí svariati giudizii sulla donna, mentre i rapporti, che la
accostano all'uomo, sono semplici, sono costanti. Il senno e la buona fede, che
alcuni scrittori usarono scrivendo di lei, pare avrebbero dovuto condurli a
conclusioni piú assennate e meno ingenerose. Ciò accusa una viziatura di
sistema forse piú che non passione di dominio o gelosia di proprietà: ed il
secolo, che aspira al conquisto d'ogni ragionevole libertà, non troverà
esorbitante che la donna cerchi e studii il modo per dove iniziare la
propria...
... Tale è la legge fatale del
progresso, legge che non mai tanto apparve come a dí nostri per la portentosa
facilità delle comunicazioni, ed il generale sviluppo della vigente generazione
sensibile, operosa e concitata...
... Se all'ignoranza delle
verità morali e speculative avvien che s'aggiunga la ignoranza della storia e
degli usi e costumi di tutti i popoli (che maggior estensione suol dare alle
idee, e maggior quantità di dati presenta all'esattezza del giudizio come per
lo piú nelle masse), allora l'opinione pubblica diviene non già organo
d'intelligenza, ma misura d'ignoranza.
Basta la piú leggiera tinta di
storia per provarci quanto siano fluttuanti e precarie le opinioni, che non si
fondano sui semplici e sovrani emanati della ragione; e siccome di assai poche
verità assiomatiche trovasi l'uomo in possesso, cosí veggiamo lo spirito d'un
secolo e d'una generazione differire enormemente dalle antecedenti e dalle
susseguenti, adottarsi e ripudiarsi i sistemi, modificarsi assiduamente usi,
costumi, ed istituzioni ormeggiando lente, ma indefesse il progressivo sviluppo
dei popoli, il quale, attraverso a queste molteplici e svariate gradazioni
morali, per legge fatale di natura e di provvidenza, sempre sale verso il
meglio.
Da tutto il fin qui detto emerge
che questo formidabile fantasma della opinione vuol essere guardato in faccia
senza timore, e ben disquisito vuol essere, ed analizzato prima di accettarlo
ed inchinarcegli siccome a supremo arbitrato. Esaminiamo se le forme solenni,
che assume, siano per avventura il puntello di interessi parziali, la tonaca
lunga ed affibbiata dell'ipocrisia, la legge caduca della forza, o il
semplicissimo cosí facea mio padre, tanto potente sulle masse incolte
che un bello spirito non chiamava senza ragione animal d'abitudine. Ben sovente
ci accadrà di trovarci di fronte ad un colosso dal piè d'argilla; e le mie
parole vi si appaleseranno ben vere, se riflettiate un istante ad un fatto
gigante, che veggiamo svolgersi sotto late dimensioni nella nostra Italia in un
solo quinquennio di libera vita.
Ché se a' pii esercizii
rivolgerai l'animo a pietà inchinevole, sarai tosto nello spirito del volgo
ipocrita o bigotta; se agli studii addestrar vorrai lo innato ingegno, sarai
pedante; se alla tavoletta intenta le lunghe ore ogni cura adoprerai ad esser
bella, sarai tosto leggiera e vanerella; se del moto o del passeggio bisognosa
ed amante, di spirito ozioso e svagato avrai la fama; se società raccogli nelle
tue interne sale e di frequente sarai nei teatri vista, mille, più o men veri,
galanti aneddoti circoleran sul conto tuo; se, della prole amante e del
consorte, trarrai oscura e laboriosa vita fra domestici affetti e doveri, non
mancherà chi a difetto di spirito e d'attrattiva la volontaria solitudine attribuisca.
Se, bella essendo e corteggiata, sarai costretta per genio o per dovere a chi
il cuore negare, a chi la mano, di superba o di fiera t'acquisterai rinomanza.
Se natura avesti matrigna e di bellezza manchi e d'attrattive, per ciò solo
d'imperdonabile delitto sei già rea, e la grazia sarà per te affettazione, la
dignità pretesa, smodato sfarzo la decenza, ogni virtú ti scemerà di pregio, ed
ogni neo salirà fino a deformità mostruosa.
Laonde, a premunire dalla
ingiusta e dolorosa pressione di sí sventati e crudeli giudizii, la donna, che
per la natía timidezza dell'animo già li soffre e li teme (e per la sua
debolezza è ben già di soverchio esposta agli oltraggi) ben lunge dal curvarle
vieppiú la testa sotto il giogo ingeneroso, che il filosofo ginevrino si
affatica a premerle sul collo, io le fo coraggio e le ripeto:
«Anima che per
biasmo si dibassa
E per lode
s'innalza è debil canna
Cui muove a
scherzo il venticel che passa.»
Epperò informata alle
imprescrittibili leggi della morale, non d'altri schiava che del principio che
a guida togliesti del tuo operare, coll'occhio fiso al nobile fine che
programma facesti della tua vita, l'occhio e l'orecchio chiudi alle migliaia
che tutti importisi vorrebbero a legislatori e tiranni, e fa
«Come il Villan
che posto in mezzo
Al rumor delle
stridule cicale
Senza curare il
rauco strido loro
Segue
tranquillamente il suo lavoro.»
2. La donna e la religione
Dilicatissimo e difficoltoso
argomento è questo che imprendo a trattare, e tanto piú oggidí in cui, questioni
vitali si agitano nel paese in cui io scrivo, questioni di vita e di morte per
tutta una casta che il proprio parziale carattere ne ritrae, questione
interessantissima ad ogni regione del globo, ad ogni popolo, ad ogni intelletto
che si travagli nelle filosofiche disquisizioni, ad ogni cuore che palpiti
nella incertezza degli umani destini oltre la tomba.
Come procedere senza sollevare
obiezioni, senza sconcertare credenze, senza urtare suscettibilità, senza
sconcertare interessi? Come non cozzare qui colla sistematica negazione, là
colla gratuita asserzione, a diritta colle astrazioni di Fourier, di Leroux, a
manca con De l'Orgue e De Maîstre, davanti con Reynaud, dietro con tutta la
miriade degli ascetici? E davvero assai peritosa e timida stommi del come mi
condurrò, del punto da cui partirò nel vastissimo terreno che mi si apre a
discorrere, della scelta che far convienmi fra le idee che copiose invadono la
mente, dell'arte con cui eviterò l'urto dei triboli e la puntura delle spine in
una strada che tutta l'umanità percorre, eppure, piú fu battuta, e meno si fa
praticabile a chi non voglia sollevarsi di fronte una guerra di scandali e di
pregiudizii che piú lacera il cuore, che non guerra di spade.
Non si tratta per me di
persuadere ad altrui le convinzioni mie: non intendendo fare né polemiche né
controversie. Io parlo alla donna d'ogni paese, ma specialmente italiana, e
parlo alla sua indipendente ragione, al suo libero intelletto, per cui, a
partire da basi concordi ed a meglio comprenderci, dal fatto partiremo e dallo
assioma.
La religione, metafisicamente
considerata, è il sentimento innato della divinità. Essa fu siccome tale
sentita da tutti i popoli e da tutti i tempi; e che ciò sia stato, lo provano
gli innumerevoli monumenti e le tradizioni che la primigenia umanità legava
alle posteriori generazioni; le quali poi a loro volta, anziché sperdere quelle
tradizioni e quei monumenti della fede dei padri loro, come fatto avrebbero
quando non ne avessero ampiamente accolto il legato, altri ne aggiunsero, ed
ogni generazione accrebbe cosí alle vegnenti il patrimonio delle credenze.
Questo fatto che, siccome basato
sulla semplice autorità, poco proverebbe se chiamato fosse a stabilire la
verità d'una scientifica sposizione, od a convalidare la solidità d'un
raziocinio che a sé stesso non basti (avvegnaché e storia e filosofia cospirino
a non ammettere l'umanità degradata sibbene primitivamente ignorante), questo
fatto, dico, diviene categorico e perentorio quando a provare la generalità e
costanza di tal sentimento lo indirizziamo.
Ora, siccome è vero che,
l'effetto non nasce che dalla causa, la conseguenza tradisce la premessa, lo
edificio rivela l'architetto, cosí l'universo predica una ragion prima. Il caso,
che l'ateo volle a ragione di questo fatto, se è per lui ragione sufficiente,
per lui il caso è Dio, e non v'è fra lui e il general sentimento che una
questione di vocaboli; ma s'egli la considera siccome ragione accidentale egli
da sé bene inesperto si proclama, avvegnaché, sopra qualunque cosa egli
esperimenti le combinazioni del caso, sempre le avrà avvertite, vaghe,
disordinate e soprattutto incostanti; cosicché il comun senso definisce col
vocabolo caso ogni combinazione, che manca affatto d'ordine, di durata e
di leggi; il ché senza impugnare il testimonio della scienza (che va ogni dí
scoprendo la ragion delle forze nel meccanismo universo, e potentemente le
applica), senza rifiutare in ogni filosofia il supremo emanato della ragione
fatto eminentemente ordinato, senza accagionare di allucinazione i nostri sensi
tuttodí colpiti dall'armonia inalterabile della natura, sarebbe deplorabile
follia diniegare...
... Ammessa l'esistenza della
divinità, l'uomo le deve omaggio e riconoscenza, ed ecco sorgere la religione
donde i culti ed i riti; ammessa l'immortalità, ecco sorgere con essa
l'infinito progresso; ammesso il premio e la pena, ecco sorgere la ragione
della morale, donde la sociale felicità.
Premesse queste poche parole a
prevenire le nostre lettrici del punto da cui partiamo, né potendo noi piú
inoltrarci nelle religiose teorie senza specializzare, epperò renderci a molte
impossibile (e non trovando pur necessario il farlo dacché abbiam già trovato
la ragione religiosa), passiamo a disquisirne i caratteri, segnalarne le
viziose applicazioni e le vere.
Essenzial carattere
dell'ossequio, che l'uomo prestar deve alla divinità, è l'esser questo
ragionevole, essendo ragionevole chi lo presta, e verità assoluta, e ragion
d'ogni cosa, l'essere supremo a cui è rivolto; perciò l'assurdo è insulto a
Dio, né può essere scusato che dall'invincibile ignoranza. Assurdo perciò non
potea ch'essere, a mo' d'esempio, il sacrificio, il quale intendeva onorar Dio
col distruggere la sua fattura: ciò non potea scusarsi che dall'ignoranza, ma
il sacerdote il quale godeva le parti comestibili delle vittime sacrificate,
epperò eccitava continuamente i popoli ai sacrificii, non era piú ignorante,
era furbo; e l'iterato fumo de' suoi incensi non era che un insulto a Dio, ch'egli
faceva servire a suoi interessi.
Piú d'una vedrà forse altra
cosa, che l'infanzia dello spirito umano, in questi riti dell'umanità
primitiva, ma noi risponderemo con una sola osservazione. I sacrificii cruenti,
criminosi, se di vittime umane, assurdi se di ostie brutali, cessarono sotto
l'impero di due autorità. La prima fu il Vangelo, che promulgò la piú razionale
delle religioni; la seconda fu il progresso della civilizzazione, che chiarí
allo spirito umano la vanità di cotali ossequi e la loro assurdità. Ora se i
progressi della ragione resero incompatibile il sacrificio, ciò basta per dare
il nome alla cosa.
Dovendo l'umano ossequio alla
divinità essere razionale, ne emerge di natural conseguenza, che non debbano le
esterne sue manifestazioni superchiare agli occhi nostri in importanza l'intimo
sentimento che li produce...
... L'umanità bambina che,
simile all'uomo di poco tempo, era incapace d'un lavoro affatto speculativo, ma
trovavasi tuttavia sotto il dominio delle sensazioni, avendo col senso morale
l'idea della virtú, ammirava però maggiormente quelle doti di natura e di
fortuna, per le quali un uomo sugli altri acquista materiale e sensibile
superiorità. Laonde meglio che la mitezza era stimato il coraggio, meglio che
il generoso perdono la valorosa vendetta, piú che la sublime lealtà dell'anima,
l'astuzia feconda di mezzi e ricca di successi, piú che riverenza dei diritti,
il feroce sterminio e la prepotente conquista; piú che la castigata verecondia,
la dissoluta e facile bellezza. Di tal maniera di giudizio dell'antica umanità
hassi pena più presto a sceverarne le troppe prove che ad adunarle. Tutto ce lo
insegna, dall'Iliade d'Omero fino ai sontuosi monumenti alle ceneri di
Pitionice, fino agli incensi bruciati ad Alessandro, fino al divinizzamento dei
Cesari.
Queste dottrine vellicanti le
passioni, e cosí ben maritate agli interessi, non potevano che condurre di
ragione il mondo ad una general corruzione di cuore e depravazione di mente, di
cui la storia ci ripete il racconto dalla caduta della Romana Repubblica in
poi.
Era ben logico e voluto dalla
natura delle cose che là come dovunque, il riparo ormeggiasse dappresso il
male; e sorsero in allora le dottrine a cui accennavamo; dottrine che lottavano
colle passioni corpo a corpo, e disputavano palmo a palmo il terreno agli
interessi, isolando l'uomo dal contagioso contatto dei suoi simili, livellando
le caste, staccando dalle perniciose ricchezze mezzi di feroce dispotismo, e
sforzandosi di spiritualizzare l'uomo degradato per corruzione fino ai bruti
tutta la sua vita concentrando nell'espiazione di un male divenuto ormai sí
radicale ed universo, che impotente affatto era contro di lui l'opera dello
individuo. Nulla di meglio infatti resta a farsi al sano, frammezzo alli
appestati, che trarsi in disparte fin quando la scienza non ha ancor provvisto
ai malati.
Quelle dottrine ci vennero
dall'Oriente e più precisamente dalle Indie, e dal loro istitutore si
chiamarono Buddismo.
Nell'epoca in cui le leggi e le
istituzioni dei Bramini erano in maggior forza, e s'erano diffuse in tutto il
paese senza eccezione, sorse dalla casta dei guerrieri, e dalla famiglia dei
Sackija, Gautama, detto poi Budda (lo suscitato), figlio di re. Nacque egli nel
628 avanti Cristo. Si uní, secondo il costume del paese, a tre mogli; ma a 29
anni abbandonò padre, mogli ed un figlio, non che ogni diritto di successione
al trono, e si ritirò nel deserto per darsi tutto a penitenza alla guisa dei
Bramini. Rimase colà 6 anni e superò nella rigidezza della vita tutti coloro. A
36 anni sorse a predicare, e scorse fino agli 85 tutta l'India.
Educato nella solitudine dei
deserti, alla meditazione ed alla penitenza, dotato di sommi talenti, concepí
l'ardito pensiero che il Braminismo, d'assurdi ripieno, se forse bastava fino
allora all'India, non certo al resto del mondo. Primo nell'antichità superò i
pregiudizii della nazionalità, e concepì l'idea dell'universale rigenerazione
del mondo corrotto, e parlò di partecipare altrui il proprio bene.
Il Buddismo sorse circa nel
tempo in cui la Giudea
diveniva provincia romana e con essa si eclissava la mosaica religione.
«In quel tempo», dice Costantino
Hofler nella Storia universale, «si nota nell'Oriente un sentimento di
dolore e direi quasi di disperazione come se la sua vita fosse finita.»
Nell'India la predicazione di
Budda addita al mondo la cagione di tal disperazione nella nullità delle cose,
e riduce lo scopo della vita alla distruzione di noi stessi. - (A ché
altro si riduce l'ascetica cattolica dei nostri giorni?)
In massima le sue dottrine non
differivano punto da quelle dei Bramini; ma differivano in questo, doversi da
tutti, senza distinzione, raggiungere lo scopo della vita, come avendo egli pel
primo superato i pregiudizii di caste e di nazionalità.
Non occorrevano per Budda le
divisioni di quelle (prima politica braminiana), né le opprimenti leggi
ch'erano di quella politica i naturali corollarii; tutti, senza eccezione,
erano chiamati alla cognizione della verità, a tutti libero quindi di togliersi
al giogo braminico.
Egli, poi Budda, era stato dal
cielo mandato a segnarne la via.
«La vita è un sogno», dicea
Budda. «Quanto piú l'uomo lavora colla propria distruzione alla propria
santificazione, e tanto più scioglie il legame che tiene avvinto il mondo alla
colpa.» - Notisi il desolante ed antifilosofico concetto che il mondo sia
fatalmente portato alla colpa, quasi l'umano arbitrio, donde l'umana
responsabilità, non esistesse. - Senza questo concetto dominante sarebbe stato
impossibile chiamare l'uomo all'isolamento ed alla propria distruzione. Solo
l'universale corruzione dei tempi, la ferocia dei costumi, il degradamento cui
era scesa l'umana progenie, poteva ispirare una simile filosofia...
... Certo le dottrine
buddistiche erano un gran passo in quei tempi oltre misura materializzati e
corrotti, ed ebbero appunto in quelle condizioni la loro ragion d'essere; ma
venne il Cristo ad aprire all'umanità una nuova fase, ed allora principiarono
ad essere spostate e retrive.
Chiamati gli uomini ad amarsi ed
a soccorrersi, iniziata la dottrina della giustizia e del perdono, costituita
l'umanità in una repubblica di fratelli che altro dottore, altro maestro,
altro signore non riconosce che la verità predicata dal Cristo colla
luce della ragione, colla mite ma vittoriosa forza della persuasione;
eguagliati i doveri ed i diritti, chiamati tutti al lavoro ed alla cooperazione
al comun bene, proclamato ogni uomo al suo simile solidale col precetto
dell'amore e della diffusione; chiamato l'amico a dar per l'amico la vita, ed a
beneficare al nemico; udita, ammirata ed accolta questa dottrina dal mondo,
tenuta salda contro le lotte, uscita vittoriosa da secolari battaglie, la
vecchia dottrina dell'isolamento, e della distruzione dell'uomo, non aveva piú
ragion d'essere ed era condannata a perire. Dopo aver demolito era ben d'uopo
riedificare.
Il risorgimento, la vita, la
libertà, lo sviluppo di tutte le forze morali, i collettivi conati delle masse
verso il bene comune, ecco il programma del Cristo, ed ecco la fase che ora
percorre l'umanità.
L'amore universale, precetto unico
e nuovo, nel quale quella dottrina si compendia, importa a natural
conseguenza il compatimento, la tolleranza, la vicendevole riverenza, e pone al
bando dell'umanità ogni dispotismo di fatto e di sistema, ogni autorità che si
erge al dissopra della forza delle cose, dell'unanime consenso, del generale
interesse.
Ora la cattolica ascetica, che
tante forze isola e paralizza, che tante intelligenze riduce a schiavitú, che
tanti fervori raffredda, che tanti nobili slanci raffrena, che tanti generosi
entusiasmi riveste delle grette forme del partito, che tante esistenze si tiene
eternamente oscillanti e dubitative sul grave problema d'un moto primo, d'un
estemporaneo escogitato, orbo di conseguenza perché intimo, di un motto oziosamente
ed inavvertitamente sfuggito, d'uno svagamento intempestivo anche, ma tutto
proprio della mobilità dell'organo pensante, tutto questo sistema non vi par
egli, ditelo voi, roba da bambini e compassionevole miseria?...
... Laonde, tutto il fin qui
detto in poche parole riassumendo; il culto che alla divinità si deve, vuol
essere razionale, sendo il rapporto d'un ente ragionevole colla ragion suprema
di tutto; dignitoso, come lo esige riverenza dell'essere infinitamente
superiore; intimo, siccome trovando nello spirito la sua ragione, nel cuore
l'innato suo sentimento...
... E veramente quel giorno
preconizzato dal Cristo è giunto, e quelle sue parole, allora incomprese, sono
nel nostro secolo un aperto programma.
Lo ridestarsi dei popoli oppressi,
la caduta imminente d'ogni tirannide, l'affermazione di tutti i diritti, lo
sollevarsi delle caste, la coscienza dei doveri, il progresso
dell'umanitarismo, la emancipazione delle intelligenze, l'amplesso fraterno che
lega gli uomini d'ogni regione, la nausea del gratuito, il culto profondo del
vero, questi dogmi del nostro secolo hanno staccato l'uomo dalle illusorie e
speciose dottrine, dal culto della forza e dell'autorità, dai vieti pregiudizii
di caste, di nazionalità, di confessioni e lo portano potentemente e fatalmente
al vero, all'equo, al morale, alla sintesi del divino concetto creativo, al
culto in ispirito e verità.
Ed ecco il programma che deve la
donna capire ed abbracciare e a non inceppare il comune lavoro, e non
disconoscere il concetto della provvidenza, e discostare egualmente e
l'ipocrisia ed il pregiudizio, che, emanati da diverse fonti, si accordano in
questo, nel preferire la forma all'ente, la corteccia al midollo...
... Cadono e sorgono popoli ed imperi, fra loro contrastano
i principi e le genti, leggi e sistemi veggono la luce a tempo loro, regnano e
muoiono; grandi unità, unità colossali attraversano qua e colà l'orizzonte
della storia, segnandovi come luminose meteore una striscia di luce, e
frattanto Iddio vede dall'alto svolgersi il dramma umano, conta i dolori e le
gioie, compatisce agli errori, ed il suo sole sui buoni fa risplendere e sui
malvagi, la terra tutta del suo fervido raggio rallegra, e tutti i viventi
paternamente riscalda.
Imitiamolo, anziché imporre leggi
alla sua giustizia, segnar confini alla sua bontà e farci appo i nostri simili
feroci zelatori di interessi che gli supponiamo, od interpreti di passioni che
son tutte nostre.
L'amore unisce ed armonizza, il
terrore divide ed uccide; la bontà compra, seduce, trascina; lo esclusivismo
discosta, irrita, reagisce; la religione può fargli uomini nemici e può farli
fratelli; tocca alla nostra ragione ed al nostro cuore giudicare quale Iddio
voglia di questi due risultati, e quale dei due l'umanità conduca al benessere
ed alla perfettibilità.
3. La donna e la famiglia
Sendo questa mia fatica diretta
all'utile insegnamento della femminil gioventú, non sarà affatto inutile,
cred'io, uno sguardo retrospettivo onde disquisire, donde ci venga la famiglia,
che cosa sia, in qual modo s'è formata, qual parte vi tocchi alla donna di
diritti e di doveri, poiché la famiglia, siccome tutte l'altre istituzioni, si
modificò, seguendo le fasi descritte dalla civiltà e dall'intelligenza umana.
Laonde sarete già convinte, lettrici mie gentili, ch'io non intendo farvi una
poetica apologia della famiglia, ma una semplice argomentazione sui rapporti
ch'ella crea, seguendo l'ordine naturale delle cose, nel quale il sentimento
scaturisce dal vedere e dal comprendere. E un tal sistema sembrami tanto piú
utile in quanto che tutti coloro, che della donna scrissero, tutti ripeterono
in coro e fino alla nausea, che la donna sente piú che non pensi, asserzione
che, per vero dire, mi è sempre sembrata un terribile assurdo, non potendosi in
buona logica né amare, né temere, né riverire, né odiare cosa, della quale non
si apprezzino i pregi, o non si vedano i pericoli, non si riconosca la
superiorità, o non si stimino i difetti; per cui il sentire è per lo appunto
l'effetto necessario del vedere e del comprendere.
Oltre allo avere influito sulla
famiglia il carattere dei tempi e delle nazioni, si occuparono di lei, e ne
moderarono le sorti, le leggi e la teologia, la timidezza ed i pregiudizii
nella donna, il troppo facile abuso della forza e l'arbitrio nell'uomo, la
barbarie, gl'interessi e le passioni. Grazie alla filosofia, la mente, nella
sua piena emancipazione, può oggi collocarsi ad un alto punto di veduta e
portar libero ed imparziale giudizio sul lavoro di tanti secoli.
È passato il tempo nel quale non
la ragione, ma un'autorità qualunque diceva all'uomo, maschio o femmina,
giovine o vecchio, principe o plebeo, «è cosí perché te lo dico io; e, dacché
io te lo dico, non è, e non può essere altrimenti». La verità predicata oggidí,
sotto forma d'oracolo fa poca breccia; ed anziché muoverne querela cogli
uomini, coi tempi e coi costumi, come avviene a certi spiriti, non puri per
avventura da segrete movenze d'interessi (i quali vorrebbero fosse l'umano
spirito di piú facile accontentatura) parmi meglio d'assai congratularsene
coll'umanità negli interessi della verità, che non mai tanto fulgida emerge
quanto dalla libera discussione, non altrimenti che dallo atrito si sviluppa
fosforica la scintilla.
Divise sono le opinioni, se la
famiglia dalla natura ci venga e sia originaria creazione di Dio, o se siasi
svolta dalle umane istituzioni. I primi uomini doveano propagarsi per tutta la
faccia della terra, epperò doveano scindersi continuamente le famiglie; laonde
non altre donne s'aveano che le prime che incontravano, costume che oggidí
conservasi ancora presso diverse selvaggie tribú; e questo fatto appoggia la
seconda di quelle opinioni.
Comunque sia la origine di
questo fatto, che ha ora innegabilmente ricevuto la sanzione dei secoli, certo
è ch'egli presenta alla filosofia ed alla legislazione un quesito di grave
importanza, sendo essa la culla delle umane generazioni, il teatro delle prime
impressioni, la scuola ove ogni uomo s'inizia ai misteri della vita...
... Famiglia vera non può essere
quella, nella quale havvi servo e padrone, tirannia e schiavitú. Non sono
questi i rapporti di famiglia! Essi non sono finora riconosciuti ed applicati
in niuna parte del mondo, ed anche nelle piú colte e gentili regioni della
civilissima Europa, certo non potrà dirsi abbia dessa raggiunto il suo ideale.
Fino a quando i diritti ed i doveri saranno dai codici distribuiti con piú o
meno esorbitanti sproporzioni, fino a quando durerà nella famiglia la forma
monarchica, essa altro non sarà che una pura e semplice frazione della società,
nella quale il sentimento non è che accidentale, ed assai compromesso da un
dispotismo senza controllo, e da una dipendenza scoraggiata dal non sentirsi
tutelata...
... Negli Stati Unionisti
d'America, al sud, mentre la legislazione, che riguarda i bianchi, rivela
l'opera di sublimi intelligenze informate ad umanitarie dottrine, e sollecita
si mostra di svolgere e maturare i fecondi portati della libertà, quella che
riguarda la razza nera, non riconosce di punto in bianco neppur la famiglia.
Fra la lunga serie dei patimenti inflitti, con qual giustizia lo sa Dio, a
quella razza, che per la rivoltante oppressione in cui geme è la macchia
incancellabile di quegli Stati e di quei legislatori, la quotidiana separazione
delle famiglie è certo uno di quelli che piú sollevano ogni cuor sensibile,
ogni spirito non isprovisto della naturale equità...
... Il matrimonio, anche ridotto
ad istituzione religiosa, consacrò nelle sue formole la violenza e lo
invilimento della donna.
Quando la sposa non era rapita a
forza come una preda od un bottino, il cui legittimo possesso non era piú
contestabile, era mercanteggiata e pagata come un oggetto qualunque. L'ultima
cerimonia componente il complicato rito nuziale presso i Romani era una finta violenza;
presso i Canciti (nell'Africa) il rapimento convenuto, ed il pagamento
stipulato, è una formola sacramentale. La formola del rapimento trovasi anche
presso gli Americani. Nell'Araucania il padre, che ha accordata sua figlia in
isposa, la spedisce con un incarico qualunque, indicandole un cammino. Il
marito, posto in agguato co' suoi amici, la rapisce e la porta nella sua
capanna.
Nelle vecchie Indie la donna non
mangia mai col marito. Nella giovine Oceania, a Nonkahiva, alle Isole
Washingthon, ecc., non solo non mangiano le spose mai coi mariti, ma sono loro
vietate per sovrappiú molte vivande all'uomo solo permesse. Nella Nubia è
crudelmente punita se osa toccare la tazza o la pipa del marito. In tutto il
regno di Coango, durante il pranzo del marito, la donna si tiene in piedi in
disparte e non gli dirige la parola che genuflessa. In tutta la Nigrizia le cure
dell'allattamento, l'apparecchio degli alimenti e dei liquori, le cure del
focolare, la conservazione delle vesti, non sono tenuti per nulla. Ella deve
ancora coltivare il tabacco, estrarre l'olio dalle palme, macinare il miglio,
fornir la casa d'acqua e di legna, eppoi, come null'altro avesse a fare, mentre
il marito dorme deve guardarlo dalle mosche. Durante le lunghe marcie, ogni
peso, ogni imbarazzo le tocca di pien diritto. I Gallas lasciano le loro donne
fendere penosamente la terra, lavorare, seminare, mietere, battere e
raccogliere il grano.
Lo stesso lavoro è rigorosamente
imposto alla donna nel Congo, nella Guinea, nella Senegambia, nel Benin, nel
Bournou, nel Mataman, nella Caffreria. Quel motto, Ce n'est rien - c'est une
femme qui se noie, è praticato dagli indiani con una bonomia men fina, ma
piú vera di quella di Giovanni Lafontaine. Nelle improvvise innondazioni del
Nilo, essi si occupano dapprima dei loro armenti, poi dei bambini, quindi dei
vecchi, e finalmente, e dopo tutto, si ricordano delle donne.
Agli Stati Uniti, all'epoca in
cui gli inviati dei popoli che comprano ogni anno coi presenti la lor libertà,
fanno ritorno ai nomadi penati, una folla di piroscafi risalgono il fiume
maestoso. Gli uomini fumano pacificamente nel fondo delli schifi la loro pipa,
e le donne, oppresse dalla fatica, tirano le barche colle corde; e nelle ore di
sosta, stendono le reti e gli altri utensili da pesca, tagliano legna, prendono
cura dei bambini, e preparano il pranzo agli oziosi mariti e li servono in
tutto.4
Attraverso le vergini foreste
gemono dolori secolari. I dolori della donna vi si moltiplicano piú che le sue
gravidanze, piú che i peli delle sue palpebre sí sovente bagnati di lagrime.
Presso i Mohawkse, e generalmente nelle tribú dei cacciatori, la donna deve
cercare e portare come un cane la caccia fatta dal marito, che crederebbe
offendere la sua dignità caricandola sulle proprie spalle. Sia questa un
capriolo, un orso, un cinghiale, la donna coll'aiuto delle sue vicine
soccombenti sotto il peso, lo trascina dalla foresta alla casa, dove riposa
pacifico il padrone. Il disprezzo per la donna è tale che l'atto di
emancipazione del figlio si constata sul volto o sul dorso della madre. Il
giorno in cui conta il suo quindicesimo anno, deve insultarla e batterla.
Presso altre nazioni la donna può essere cambiata, venduta, permutata a piacere
del marito, anche uccisa e mangiata s'egli crede farne un buon piatto.
Eccettuata qualche tribú, in cui
i Sechems aprono i loro consigli alle matrone, l'oppressione della donna è
consacrata da vecchi costumi. Presso altre tribú, alla nascita d'un bambino, il
marito si corica come colpito da grande sventura. Il neonato e l'intiera casa
sono sottomessi ad una gran purificazione. Altrove, ai primi sintomi di
fecondità, la donna è condotta con lugubre cerimoniale al mare, e durante il
tragitto piovono sopra di lei l'arena ed il fango, immondizie ed imprecazioni.
E cotali costumi con poche varianti sono comuni alle due Americhe...
... L'uomo sarà egli sempre il
supremo arbitrato della famiglia, chiudendo cosí a forza intorno a lui gli affetti
della donna che nulla di meglio cercano, che di espandersi a tutto, circondarlo
della tiepida atmosfera della benevolenza, e dello spontaneo e lieto
sacrificio?
«V'è un angelo nella famiglia»,
scrive Giuseppe Mazzini, «che rende con una misteriosa influenza di grazie, di
dolcezza e d'amore il compimento dei doveri meno amari. Le sole gioie pure e
non miste, che sia dato all'uomo di goder sulla terra sono, mercè
quell'angiolo, le gioie della famiglia. Chi non ha potuto, per fatalità di
circostanze, vivere sotto l'ali dell'angiolo la vita serena della famiglia, ha
un'ombra di mestizia stesa sull'anima, un vuoto che nulla riempie nel cuore; ed
io, che scrivo per voi queste pagine, io lo so. Benedite Iddio, che creava
quell'angiolo, o voi, che avete le gioie e le consolazioni della famiglia! Non
lo tenete in poco conto perché vi sembri di poter trovare altrove gioie piú
fervide, e consolazioni piú rapide ai vostri dolori. La famiglia ha in sé un
elemento di bene raro a trovarsi altrove, la durata. Gli affetti in essa si
estendono intorno lenti, innavvertiti, ma tenaci e durevoli siccome l'ellera
intorno alla pianta; vi seguono d'ora in ora, si immedesimano taciti colla
vostra vita. Voi spesso non li discernete, perché fanno parte di voi, ma quando
li perdete, sentite come un non so che di intimo, di necessario al vivere vi
mancasse. Voi errate irrequieti e a disagio: potete ancora procacciarvi brevi
gioie e conforti, non il conforto supremo, la calma, la calma dell'onda del
lago, la calma del sonno della fiducia, che il bambino dorme sul seno materno.
«L'angiolo della famiglia è la
donna madre, sposa, sorella! La donna è la carezza della vita, la soavità
dell'affetto diffusa sulle sue fatiche, un riflesso sull'individuo della
provvidenza amorevole che veglia sull'umanità. Sono in essa tesori di dolcezza
consolatrice, che bastano ad ammorzare qualunque dolore. Ed essa è per ciascun
di noi la iniziatrice dell'avvenire.»
In questi concetti scaturiti da
una gran mente e da un gran cuore, voi leggete che cosa esser debba la donna
nella famiglia secondo il divino concetto; ma tale non potrà essere veramente
che quando ella sarà estimata e coltivata: se non quando l'educazione e la
stima le avranno data la coscienza di ciò che da lei esige la natura, che l'ha
con tanto studio elaborata. Ella non sarà l'angelo della famiglia e
dell'umanità se non quando e l'umanità e l'individuo la vorranno aver tale,
sacrificando all'interesse di tutte le generazioni la vanità del dispotismo
brutale, dello antifilosofico esclusivismo...
... Ora, in tutta la serie da
noi citata dei costumi piú o meno selvaggi, certo noi non abbiamo riscontrata
la famiglia, co' suoi affetti, co' suoi legami piú dal sentimento voluti, che
non esatti dalla forza delle leggi. Tutti i costumi da noi fin qui percorsi,
non ci parlano che della patria e della marital potestà, d'una monarchia
insomma, nella quale i doveri dei sudditi si riducono a sforzarsi di piacere al
despota, e i diritti di questo a volgere al miglior utile proprio le persone,
che da lui dipendono, e l'opera loro.
Certo i costumi dei popoli
d'Occidente sono ben lungi da quelle esorbitanze, che troviamo presso le
selvagge nazioni ed in tutta l'antichità, ma sono egualmente ben lungi dallo
effettuare fra l'uomo e la donna quella eguaglianza di diritti, che sola può
dare ai loro rapporti quella soavità di relazione, che stabilisce la mutua
confidenza e la reciproca fiducia.
Né si dica che la perfetta
eguaglianza di diritti e di doveri, fra l'uomo e la donna, introdurrebbe il
disordine, l'incoerenza e l'anarchia fra le domestiche pareti. Viete scuse son
queste che poca riflessione sulla natura delle cose non permette di porre
seriamente innanzi. Se al governo della famiglia preponeste due elementi
perfettamente simili, la rivalità e la discordia ne sarebbero l'effetto
immediato, ma la natura ha già provvisto innanzi che noi la temessimo a cotale
sconvenienza...
... Dal fin qui detto potrebbe
per avventura qualche mia lettrice ricavare, ch'io creda avere il matrimonio
per solo scopo la propagazione e la conservazione della specie, né potersi egli
in mia mente disposare eziandio a piú nobile fine.
Diversi fra i moderni scrittori
hanno considerato l'uomo e la donna non già come unità, ma quali esseri che
aspettano dall'unione loro il completamento della loro personalità. Se in
faccia agli interessi della specie ciò è assolutamente vero, non lo posso
egualmente ammettere nel campo morale, vedendo ognun dei due autonomicamente,
nel pieno possesso delle facoltà dello spirito, attivo e produttore.
Mentre invece nel matrimonio per
fatto delle istituzioni nostre la donna, abbandonata affatto all'arbitrio del
consorte, ben lungi dal completarsi, si evira, ben lungi dall'acquistare,
perde, se pure per lo suo meglio eleggerà di sacrificar sé stessa alla pace...
... Ed invero, che volete mai
impari l'uomo da una creatura priva di senso morale, educata né piú né meno che
per piacergli, per obbedirgli, per ammirarlo, per adorarlo, per credere nella
sua portentosa sapienza, per piegarsi in tutto e sempre alla sua volontà
onnipotente, per toglierlo a norma e legge d'ogni suo operare? Se quest'uomo si
tiene un po' di ragione e di moral dignità, deve sentirsi a stringere il cuore
di vedersi a fianco una creatura cosí nichilita, o meglio questa larva di
essere umano.
Voi mi direte; egli la può
educare, e risollevare l'anima sua; vi domando scusa, gli bisogna rifarla.
Quando tutta una educazione non ha avuto per iscopo che di cancellare fino
all'ultima traccia ogni sintomo di vita morale, in ragion d'ordine col quale si
manifestava; quando una educazione non ha avuto per iscopo che di degradare
l'essere umano al vile stato di cosa, quasi adirandosi con Dio e colla natura,
che abbiano voluto intelligenza e volontà locare là dove l'uomo non crede
averne d'uopo, credetemi, è utopia supporre, che possa quell'anima riabilitarsi
non meno che risorgere un cadavere fradicio.
E che volete mai, a volta sua,
impari la donna, da un uomo beatamente convinto della propria eccellenza; la
qual convinzione gli fu in cuore piantata e ribadita dai costumi che creano per
lui una morale dagli ampli margini; dalle leggi che lo estimano sempre capace
anche quando è ignorante, sempre moderato ed onesto anche quando gli
abbandonano la donna senza controllarlo, sempre virtuoso anche quando le sostanze
sciupa o disperde per conto di vizii e passioni? Credente fermamente nella
legittimità della sua potestà, egli sa dare fino all'amore l'impronta e il
suggello del dispotismo, ed è ben lungi dal credere che la sposa sua possa
direttamente o indirettamente pretendere a modificarlo...
4. La donna e la società
Ovunque pensa, parla e si agita
una esistenza, la sua vita importa a necessaria conseguenza un movimento, una
modificazione, uno spostamento, per cosí esprimersi, fra le altre che sono
intorno a lei, che cercano stabilire e conservare con essa armonici rapporti.
Cosí, fin da quando natura ci
dà, al dire di Madama Sand, alla libera espansione della vita, noi ci vediamo
circondati da una piccola società composta da amici e consanguinei, raccolti a
festeggiare la nostra entrata nel mondo, a stringere con noi vincoli di
benevolenza, alla quale per dovere di esseri sociali dobbiamo rispondere. Ma i
diritti ed i doveri datici ed impostici da codesti rapporti sono troppo noti,
troppo naturali, troppo costanti perché occorra arrestarvici. Il naturale buon
senso, e gli usi della nostra società rispettano ed amano questi rapporti, che,
cresciuti e sviluppatisi con noi, fanno parte delle nostre abitudini, ed
estendono per cosí dire i confini della famiglia.
I rapporti piú importanti per
noi sono quelli che noi stessi forniamo col nostro carattere speciale,
coll'educazione che ci viene impartita, che ci porta verso un dato elemento
sociale piuttosto che verso un altro. I doveri scaturiscono e dallo elemento
col quale siamo assiduamente a contatto, e dal grado di suscettibilità che con
noi rechiamo intellettivo e morale, e dai bisogni dei tempi e dei luoghi.
Laonde, sviluppato lo spirito, il cuore educato, più non rimane a farsi da noi
che la semplice applicazione delle apprese dottrine.
Farà egli bisogno per esempio di
dire ad una creatura, che ha cuore, ché si faccia al letto del malato, o di che
abbisogni il poverello, o di che cosa difetti l'ignorante?
A niuna di voi, gentili signore,
che onorate questo mio libro della vostra lettura, a niuna di voi, per fermo,
mancò nella colta educazione, che riceveste, nozioni sí elementari di virtú e
di morale, e già tutte le praticate. Non foste voi viste pochi anni or sono,
durante la guerra dell'indipendenza, tutte quante trasformate in infermiere?
Gli annali della beneficenza non si adornano dessi forse dei vostri nomi dalla
prima all'ultima pagina? E non forse voi fondaste sotto mille forme e
denominazioni scuole, asili, istituti d'educazione per figli del popolo? Io non
posso che altamente lodare queste espressioni molteplici e proteiformi
dell'innata gentilezza e sensibilità che fa l'onore del sesso femminile, e mi
rende orgogliosa d'appartenervi; ma se tutto ciò bastava in altri tempi di piú
scarsa luce intellettuale a far di voi gli angioli della umanità, ciò è troppo
poco per oggi in cui la filosofia deve averci meglio illuminate sui veri
interessi della umana specie.
Fare ad altrui del bene non solo
è dovere per tutti, è anche per tutti un diritto, ed un diritto che l'anima
generosa si divora nell'impotenza di compiere; ed oh quale ingiustizia se al
sol denaro fosse possibile questa suprema gioia del cuore! Ma no; a tutti la
rese il Vangelo possibile rivelando agli uomini l'amore, e facendone loro una
soavissima legge all'infuori della quale l'umanità si travaglierà in un affanno
perpetuo nella confusione delle idee e dei sistemi.
Sí, la sapienza degli uomini è
all'apice. E statisti e filosofi, legislatori ed economisti portarono
alternativamente, esperienze e principii, istituzioni e sistemi, ma nessuno di
questi farmachi riescí ancora a guarire l'umana società dall'angoscia
intestina. Il quadro dell'umanità ci presenta una lunga scala sulla quale
sfilano i dolori e le miserie di tutti i secoli, dalla bestiale antropofagia
fino alla servitú dei due terzi della specie, fino ai sistemi applicati del piú
satanico machiavellismo.
Nelle vergini foreste del nuovo
mondo abbiamo uomini tuttora ai quali non è data notizia neppur d'umana
favella; interi popoli abbiamo viventi di preda come le belve in fertilissime
terre; in Africa è l'esportazione dei negri che fende il cuore; nella China è
l'infanzia esposta e derelitta; in tutto l'Oriente è la servitù della donna, è
l'evirazione di tante migliaia, è l'infame abrutimento degli oppressori. In
tutto il mondo incivilito è la lotta della oppressione e della tirannide, dei
principii e degli interessi, della ragione e della forza, del sentimento e
dello egoismo bruto. Oh chi soccorre a tanti mali, chi diraderà sí fitte
tenebre d'ignoranza, chi consolerà tante miserie, chi domerà tante passioni,
chi imporrà silenzio a sí spudorati interessi, chi curerà questo gran malato
che è l'umanità, che indarno sempre esperimentò medici e trattamenti?
L'abbandoneremo noi alla sola forza medicatrice che dà natura col suo perpetuo
desiderio d'equilibrio e di benessere? Sí, il tempo avvanza e non indarno; ma
questo cammino non ci condurrà alla meta che con dei secoli, e frattanto? E
frattanto si demoralizza la società, si comprano e si vendono anime umane, si
sparge sangue di popolo, si versano lacrime, si combatte, si soffre, si
bestemmia e si muore...
... Non tema la legislazione di
affidare alla donna un largo insegnamento. I confini della sua intelligenza furono
dessi esplorati? Le risorse del suo spirito son esse dunque esaurite? E come,
se da tanti secoli di nullità morale e di morale oppressione, è risorta piú
animata, piú intelligente che mai; e nei tempi in cui l'urto potente delle
idee, la lotta delle opinioni, il cozzo dei sistemi, l'agitazione delle
filosofie abbuiano lo intelletto virile, adesso appunto ella principia a
capire, ed ha afferrato la segreta parola che stassene latente nell'umanità,
impossibilitata a farsi strada dagli inverecondi rumori che sollevano nel mondo
gli interessi dei pochi?
L'umanità e la patria, la
civiltà e la morale hanno bisogno della donna. Una piú lunga assenza morale le
confermerebbe sul capo la sentenza, che non fu finora che abuso di forza e
figlia di pregiudizio, sentenza di morale inettitudine, che la consegna piedi e
mani legati, e colla bocca imbavagliata, in balía dello spregio insolente,
dello scherno inverecondo.
Ed invero non puossi negare
ch'ella non abbia sentito la loro chiamata e risposto sollecita al loro
appello.
Essa ha risposto con Madama
Sand, nome caro alle lettere e alla filosofia e che di tanta luce
d'intelligenza fe' risplendere il suo sesso con quella miriade di volumi, che
combattono ad oltranza ogni regresso ed oscurantismo; ha risposto con Miss
Beecher Stowe, apostolo della civiltà e del diritto nel nuovo mondo, che sola
alzò già da tempo la voce poderosa e la parola eloquente a far arrossire
l'umanità, che tollera la schiavitù ed il commercio delle anime umane; ella ha
risposto coll'indirizzo delle donne del Nord alle donne del Sud, contro la
schiavitù dei negri; ella ha risposto con Catterina II, nei suoi tentativi di
civilizzazione nelle Russie, che facevano dire al signor di Voltaire, la
lumière nous vient du Nord. Ella ha risposto colle centinaia, che diffusero
e diffondono nella società utili produzioni letterarie, filosofiche e
scientifiche; ella ha risposto colle migliaia che si consacrano al conforto
dell'umanità sofferente (sia col pubblico esercizio della medicina come
nell'Inghilterra e nell'America; sia coll'assistenza agli infermi negli spedali
come in tutta la cristianità), all'insegnamento dell'infanzia d'ambo i sessi, e
della gioventù femminile; ella ha risposto fondando, dotando, dirigendo asili,
spedali, orfanotrofii e ricoveri per ogni sventura, per ogni bisogno, erigendo
dei comitati e delle associazioni per provvedere alle vittime delle patrie
guerre, ai rifuggiti delle serve provincie: ella ha risposto e risponde
tuttavia con quell'entusiasmo, che s'allieta dei sacrificii alla patria
chiamata in tanti anni di reazione, e nella aperta lotta in Italia, ed in
Polonia; e di troppa luce rifulge la sua solenne risposta perché altro non sia
mestieri dire al miscredente se non che, aprite gli occhi e vedete.
Se taluna di voi, che mi leggete,
vita neghittosa e vacua trascinasse, si desti al generoso esempio e vergogni la
inutile esistenza in faccia a tanto lavoro ed a tanto bisogno. Pensi, che non è
lecito viver quaggiú la vita parassita dell'edera che s'aviticchia intorno
all'albero e ne succia l'umore, arrampica sul muro e ne rode il cemento. Chi è
inutile quaggiú non è inutile solo, è nocivo, epperò nemico dell'umanità, la
quale a giusta vendetta lo opprime sotto il pondo del suo piú tremendo
disprezzo.
Non chiamate lavoro la insignificante
direzione d'una casa o le industrie d'Aracne, le son queste manualità e
dettagli opportuni, e necessarii eziandio, ma che non costituiranno mai un
essere utile alla società; parlo a voi, donne ricche e colte. Fra voi, piú
d'una ammazzerà la vita in cotali cose, ch'io chiamerò, e tutta con me
l'umanità, esistenza parassita. Ogni vita importa molto, epperò che il nostro
corpo agiti piú o meno utilmente le sue membra sta bene, ma che lo spirito
nostro debba starsene eternamente latente e sopito, egli che è vocato a
progredire, egli che vive della vita ragionevole, egli che dai bruti e dai
vegetali vi scerne, la è cosa questa, che non da altri mai verravvi predicata
che da chi trovi interesse nelle tenebre della vostra mente, nella nullità
dello spirito vostro.
Non ammettendo io, per natural
corollario dei principii fin qui espressi, l'esclusione della donna dalla
produzione industriale che importa abilità o vigore di membra, non la posso
egualmente escludere da quella parte del lavoro sociale, che esige sviluppo ed
applicazione delle facoltà intellettive.
Partendo io dal principio, che
ogni diritto ed ogni dovere ha per base e per ragion d'essere la facoltà, la
quale colla sua legittima pretesa d'esercizio ce ne dà la coscienza, e questo
principio reggendo esattamente in ogni essere umano a qualunque sesso egli
appartenga, non vedo con qual ragione questa facoltà dovrebbe nell'uno
esercitarsi liberamente e talora forzatamente, e nell'altro seppellirsi e
soffocarsi affatto; tanto piú che, nelle miserrime condizioni in cui versa la
società nostra, la donna priva di mezzi di fortuna, impotente pel genere infimo
del lavoro attualmente concessole, a sostenersi in faccia alle molteplici
esigenze della vita civile, trovasi trascinata da fatale necessità al distruttor
mercimonio delle sue membra infelici.
Che se parlassi della donna
agiata, la cui virtú è dalla educazione fortificata, se avvenga che un rovescio
di fortuna la colpisca, chi non freme di vederla precipitare, senza via di
mezzo, dalla splendida atmosfera d'una vita irradiata dalla luce
dell'intelligenza sotto la sferza d'un'indefessa manuale fatica, che, mentre lo
spirito generoso le preme ed angoscia, tanto pur non le acquista da calmare le
smanie del dente digiuno?
Invero è questo tale problema
che reclama potentemente d'essere avvertito dai governi ben intenzionati, ai
quali premer debbono il cuore le piaghe sociali, e che la mente si travagliano
indefessamente nella ricerca di un rimedio e di un riparo al degeneramento
fisico e morale della specie; ed invero il bisogno nella donna non esprime
nullameno che questo.
Là dove la donna ha d'uopo
dell'uomo per vivere, la sua schiavitú è ben altrimenti dura, che dove questa
non trova la sua ragione che nella forza del muscolo. La forza può distruggere
l'opera della forza, ma la sferza del bisogno è tremenda; ella doma la piú
fiera natura, ella espugna la rocca piú salda, e dalla lotta deplorevole e
funesta non ne escono che due demoralizzati ed una derelitta posterità.
Se non che, dovendo io tornare
sull'argomento del lavoro femminile, mi basterà per ora di avvertire le mie
colte lettrici, che non si lascino sí leggermente sedurre dalla manía di
classificare gli esseri, ed assegnar loro delle funzioni prima di aver ben
studiata la natura; poiché gli è per lo appunto uno sterminio di
classificazioni che ci abbisogna ora fare per riabilitare la donna e
risollevarla dal fango, in cui fu per secoli trascinata.
Ci abbisogna ora scernere in
lei, attraverso ai pregiudizii antichi, la vera sua potenza, sceverare in lei
l'opera della natura dall'opera fittizia della educazione, affinché piú non
ripetano i nostri posteri le stolte sentenze, che con sí solenne gravità
proclamarono fin qui le menti pregiudicate, la donna dev'esser cosí!
Illusi! Studiate la natura in luogo di ammaestrarla; e ricevete voi le sue
leggi anziché volerle imporre le vostre.
Ovunque la natura mostra
ragione, là v'è dovere e diritto di progresso; ovunque mostra attitudini, là
v'è dovere e diritto di funzione; ovunque presenta intelligenza e volontà nell'essere
stesso accoppiati, là v'è in un colla capacità un diritto incontestabile al
libero ed autonomico svolgimento della vita morale.
Certe dottrine, che non
riconoscono le unità umane, ma che veggono dovunque degli esseri incompleti,
favorendo assai il sistema d'assorbimento inaugurato e gelosamente propugnato
dal sesso ora felicemente regnante, trovano facili adesioni e caldi campioni.
In quanto a me, sendomi
dichiarata nemica di ogni dispotismo, col quale non scenderò mai a transazioni,
principio dal rifiutare quelle dottrine coi loro pii corollarii, assumendomi di
provare a luogo e tempo, che ogni unità umana ha in sé, da natura, quanto basta
per fermare la base d'ogni diritto, pel compimento d'ogni dovere; e che però
qualunque limitazione, rappresentanza e tutela esercitata ed applicata oltre i
confini assegnati dalla vera e non fittizia natura delle cose, è un attentato
mostruoso alla base d'ogni diritto che, non dall'uomo, ma dalla natura fu
creata; e qui, come dovunque, dovremo poi constatare, che non si lotta mai con
vantaggio contro la natura e le sue leggi morali.
5. La donna e la scienza
«Le
donne antiche hanno mirabil cose
Fatte
nell'arme e nelle sacre muse,
E
di lor opre belle e glorïose
Gran
lume in tutto il mondo si diffuse.»
«Ben
mi par di veder ch'al secol nostro
Tanta
virtù fra belle donne emerga
Che
può dar opra a carta e ad inchiostro
Perché
ne' futuri anni si disperga»
Ariosto, Canto XX
Ridire tutto che fu detto, pensato
e giudicato sulla creduta innettitudine dello spirito femminile alle produzioni
dell'intelligenza, non è cosa che in due parole possa farsi. L'uomo, per fini
che non è difficile troppo immaginare, tentò sempre persuaderselo, e colla
forza e coll'autorità, colla potenza d'una opinione ingiusta, che egli diffuse
in ogni modo, tentò persuaderlo alla donna altresí, la quale, a sua volta,
siccome avviene che allo scoraggio ed al sentimento della propria nichilità
tenga dietro una profonda ed assoluta atonia, principò a persuaderselo ella
stessa, e cadde cosí nella più funesta sventura che incogliere possa essere
morale, nella completa incoscienza di sé, delle proprie facoltà, delle proprie
forze...
... Né mi si dica che la
baldanza del genio giunger deve a domare le difficoltà, a superare ogni
barriera. Ciò è vero per alcuni, ma non lo può esser per molti, ché alla lotta
non tutte le nature sortono inchinevoli, anche fra i parecchi che aver possono
svegliata intelligenza; che se a cotal legge subordinar volessimo tutto il
viril sesso (e lo fosse stato fin qui), l'umanità non avrebbe discorso pur la
metà del suo intellettuale cammino, ché mancato avrebbe a tutte le
intelligenze, che potentemente l'aiutarono, dottrina ed ispirazione.
Raffaello non raggiunse la
perfezione dell'arte se non dopo aver visto le opere immortali del Buonarotti;
Cristoforo Colombo immaginò un nuovo mondo, essendo già peritissimo nauta e
geografo; Galilei scopriva il moto della terra, sendo profondissimo in fisica;
così Newton l'attrazione astrifera, cosí Volta la pila elettrica, e cosí in
tutto e sempre procede lo spirito umano dal noto all'ignoto, sendo egli debole
nell'intuizione e potente nel raziocinio.
Ora, che per aversi comunemente
una fiacca opinione della capacità femminile, le si accumulino davanti gli
ostacoli, le si tolga ogni mezzo, e le si allunghi il cammino, questo è ciò che
non giungo a giustificarmi, ché sarebbe come spargere dei ciottoloni e dei
macigni sul suolo dove il bambino muove i primi passi adducendo a ragione
ch'egli non sa camminare. Se questo sia logicare ditelo voi?
Ma un cotal trasnaturamento dei
semplici dettami della ragione non poté farsi universale coscienza, se non per
quel difetto di principii che ci è tante fiate occorso di lamentare nel corso
di questo lavoro. Gli uomini abbuiati dallo errore, e sedotti dagli interessi,
non risalgono ai principii mai, si fanno sordi al dovere, giungono a scordarlo,
quindi ad ignorarlo affatto, e la società scende alla fine a non essere altro
che un meccanismo svolgentesi colle mobili e gratuite forme della convenzione.
Si è convenuto adunque che la
donna non deve sapere: epperò si dirige in modo la sua intelligenza, o meglio
se ne sopprime cosí lo sviluppo, da condurla alla perfetta evirazione. Che se
alcuna giunge, mediante erculei sforzi, a districarsi da quegli impacci, che
ingombrano il sereno ed ampio orizzonte della sua mente, eccole addosso
l'opinione co' suoi mille proiettili, ecco la critica coi suoi mille strali, la
satira coi suoi morsi, la madicenza coi suoi pungoli, il pregiudizio, lo
scandalo e tutta la falange degli inutili e dei nocivi, di cui il mondo ha
dovizia, che la lingua tengono nel nobile esercizio di parlare a proposito ed a
sproposito di tutto, e di tutti, asserendo, condannando, ed assolvendo, senza
darsi briga nessuna di essere giusti e ragionevoli! E come lo sarebbero?
Codesta gente (Dio loro perdoni)
sono davanti all'umanità, che cammina verso la civiltà e verso il bene, come i
ciottoli che si pongono davanti le ruote d'un veicolo; se questo nella sua
corsa non riesce a triturarli, soverchiandoli rapidamente senza curarli, esso
ne sarà arrestato. E ciò sia detto a voi, giovani mie lettrici, nel cui spirito
per avventura allignasse nobile desiderio del sapere, e nel generoso intento
veniste scuorate dal più o meno esteso pregiudizio. Coraggio, ed avanti! Il
bene in sé stesso, ed a sé stesso basta, abbia o no l'applauso dei molti; e la
coscienza del bene fare è largo compenso all'ignoranza, che non lo sa
apprezzare.
Né crediate che l'intelligenza e
le sue produzioni siano un privilegio dell'altro sesso, ché, abbandonandovi al
letargo nella creduta impossibilità di molto fare, nulla poi fate, e ad ozio
vergognoso passate i giorni, gli anni, e la vita. Se gli uomini tutti avessero
la mente di Alighieri, di Vico o di Macchiavello, l'umanità per vero sarebbe a
sufficienza servita, ma le sono queste unità colossali che tutti i secoli
celebreranno, vedendosene assai di rado riprodotte le copie, mentre a centinaia
ed a migliaia veggiamo intelletti ottusi e spiriti angusti, che appena bastano
al disimpegno dei famigliari interessi o di materiali gestioni, che non sono
che la quotidiana ripetizione dell'egual meccanismo; ché in quanto ai mille
altri che pur raggiungono gradi accademici, quando si considerino i lunghissimi
anni di pertinace studio, e i mille mezzi d'istruzione aperti alla viril
gioventú, la congiura dei parenti e degli insegnanti, delle istituzioni e delle
opinioni, dei mezzi e della necessità a spingerveli, sarebbe invero un
disgraziato fenomeno se difettasse loro anche quella facoltà che è la memoria,
e quel poco di criterio necessario a rendersi conto di ciò ch'ella ritenne...
... Urge, per dio!, che la
coscienza pubblica si pronunci su questo bisogno! La donna è dalla legge punita
quando trovasi in contravvenzione, eppure non le si dà nozione alcuna del
diritto; la civil società la respinge siccome incapace, ma nulla le si
insegna di ciò che può farla capace: l'opinion generale diffida della sua
intelligenza ad onta dei fatti che l'affermano, ma non le si presenta niun
mezzo di sviluppo e d'applicazione.
Dichiarata non responsabile ed
incapace di ogni atto che le dà dignità e le suppone intelligenza,
responsabilissima reputata in ciò che la infama, e capacissima di ciò che la fa
punire o spregiare, ella è veramente in faccia alla umana dignità il Paria e
l'Ilota, col quale sí la legge che l'opinione non si danno pena alcuna d'essere
logiche, conseguenti ed eque.
L'istruzione ed il lavoro, ecco
le sole forze che possono e debbono risollevare la donna ed emanciparla. Finché
la società non l'avrà fatto, nessun argine resisterà al torrente della
corruzione, niuna diga si opporrà al degradamento morale e materiale della
specie.
Né la legislazione potrà dirsi
filosofica e razionale finché di tutti i componenti la società umana non avrà
tenuto conto, e non tutti avrà veracemente tutelato; né le istituzioni potranno
dirsi libere fino a che un elemento cosí numeroso qual è il femminile, dovrà
tutte subirle, senza contribuire alla formazione loro; né la civilizzazione
potrà dirsi, non che compiuta, neppure iniziata, finché tanto resta nella
società, che civile si chiama, d'ignoranza procurata, di forzata servitú e di
insultante ostracismo sopra umane creature: né un secolo potrà dirsi illuminato
se non riconosce il diritto dell'intelligenza ovunque si trova.
Istruite la donna! Se la natura
non l'ha fatta pel sapere, ella non risponderà all'appello della scienza; ma
s'ella vi risponde, allora è nell'ordine di natura e di provvidenza ch'ella
concorra al sociale edificio.
Ella ha diritto al piú pronto
sviluppo delle sue facoltà; vi ha diritto morale e giuridico.
Lo Stato paga delle università
per gli uomini, delle scuole politecniche per gli uomini, dei conservatorii
d'arti e mestieri per gli uomini, degli istituti d'agricoltura per gli uomini.
E per la donna? Potrà egli seriamente dirsi che lo Stato si occupi di lei? Le
scuole primarie! Ecco tutto.
Eppure lo Stato le impone delle
leggi, la punisce nelle contravvenzioni, ha per lei dei tribunali, delle prigioni,
e per la sua proprietà delle imposte. O non si consideri la donna neppur nei
doveri, o le si accordino anche i diritti, senza di che lo Stato è colpevole
verso di lei di violenza e di furto! E come noi severamente giudichiamo
l'antica e barbarica tirannia, i posteri cosí giudicheranno quella del secolo
XIX. Finirò colle parole di Fourier nel suo libro: Théorie des quatre
mouvements...
... «Quando la filosofia
satirizza e schernisce i vizii della donna, essa fa la sua stessa critica; è dessa
che produce quei vizii per un sistema sociale che, comprimendola fin
dall'infanzia e durante tutto il corso della sua vita, l'astringe a ricorrere
alla frode per abbandonarsi alla natura.
«Voler giudicare la donna sul
viziato carattere ch'essa spiega nella civilizzazione, equivarrebbe al voler
giudicare la natura virile sul carattere del contadino russo, che non ha idea
nessuna di libertà e d'onore, e sarebbe come giudicare il castoro
sull'imbecillità che mostra nello stato domestico, mentre che nello stato di
libertà e lavoro combinato, esso è il quadrupede più intelligente. Lo stesso
contrasto apparirà fra le donne schiave della civiltà e le donne libere
dell'ordine combinato.
«Esse sorpasseranno gli uomini
in industria, nobiltà e lealtà, ma fuori dello stato libero e combinato, la
donna diviene come il castoro famigliare ed il contadino russo, un essere tanto
inferiore ai suoi destini ed a' suoi mezzi, che si inchina a spregiarla, quando
dalle sole apparenze e superficialmente si giudichi.
«Una cosa sorprende ed è, che le
donne sonosi ognora mostrate superiori agli uomini, quando poterono sul trono
spiegare i loro naturali mezzi, dei quali il diadema garantisce loro il libero
uso. Non è egli certo che, sopra otto sovrane libere e senza consorte, sette
hanno regnato con gloria, mentre sopra otto re contansi generalmente sette
sovrani inetti? Le Elisabette, le Catterine non facevano la guerra, ma sapevano
scegliere i loro generali, e basta per averli buoni. In ogni ramo
d'amministrazione, le donne non hanno desse ammaestrato gli uomini? Qual
principe ha superato in fermezza Maria Teresa, che in mezzo a supremi disastri,
davanti alla vacillante fedeltà dei sudditi, in mezzo a ministri, come percossi
da stupore, sola intraprende di tutti incuorare? Ella sa intimidire la dieta
d'Ungheria, indisposta a suo riguardo, arringa i magnati in lingua latina e
conduce i suoi propri nemici fino a giurare sulle loro spade di morire per lei.
Ecco un sintomo dei portenti che opererebbe la femminile emulazione in un ordine
sociale che lasciasse libero sfogo alle sue facoltà...
... «Qual è oggi l'esistenza
delle donne? Esse non vivono che di privazioni; anche nell'industria l'uomo ha
tutto invaso fino alle minute occupazioni dell'ago e della penna, mentre veggonsi
donne sobbarcate ai penosi lavori dell'agricoltura. Non è egli scandaloso di
vedere atleti di trent'anni aggomitolati davanti ad un banco, o vettureggiando
colle braccia vellose una tazza di caffè, come se mancassero donne o fanciulli
per le occupazioni del banco o della casa?
«Quali sono dunque i mezzi di
sussistenza per la donna priva di mezzi? La conocchia ed i suoi vezzi quando
ancora ne ha. Sí, la prostituzione, piú o meno velata, ecco l'unica risorsa che
la filosofia loro ancora contende; ecco la sorte abietta ove le riduce questa
civiltà, questa coniugale schiavitù ch'esse non hanno pure pensato ad
attaccare.»
Fin qui Fourier, ed io, donna, a
nome di tutto il mio sesso me gli protesto ben riconoscente, che la penna
eloquente abbia impiegata per una causa, che interessar deve ogni spirito equo
e generoso.
Se non che, rivolgendomi di bel
nuovo alla donna, le ricorderò, che se è dovere dell'uomo l'essere giusto; se
sostituire dovunque il diritto alla forza è compito della filosofia; se
l'uguagliare tutti gli individui dello Stato davanti alla legge, è opera
doverosa della legislazione; è però dovere, diritto, interesse supremo e vitale
della donna, che la iniziativa di queste riforme venga da lei stessa.
La storia ve lo ripete ad ogni
pagina, ad ogni riga. I diritti e le libertà ottenute in dono sono illusorie;
esse cosí sciolgono dalla servitú materiale, per travolgere sotto una schiavitú
morale colui, che fu abbastanza codardo da non conquistarsela colla propria
virtú.
Il dono addormenta la coscienza
del dovere e del diritto in luogo di svegliarla; ci adusa a lasciarci tutelare;
ci sninnola in grembo ad un illusorio ottimismo, e cosí, coll'atonia dello
spirito, ci riconduce pian piano alle catene...
... Finirò col rivolgere a tutte
le donne che trattano la penna, quelle severe parole di Fourier, amico generoso
del sesso femminile, e verso il quale ogni donna, che ha un cuore, tiene un
debito di gratitudine. Rimproverando egli loro con amarezza, di occuparsi cosí
poco dei loro stessi interessi, egli scrive:
«La loro indolenza in questo
argomento è una delle cause, che hanno aumentato il dispregio dell'uomo. Lo
schiavo non è mai piú spregevole che quando, colla cieca e muta sommissione,
persuade l'oppressore che la sua vittima è nata per la schiavitú.»
Infatti che fa la penna in mano
alla donna, se non serve per la sua causa come per quella di tutti gli
oppressi?
Non basta che la donna, colle
molteplici produzioni della sua mente, porti ogni giorno davanti alla società
una nuova affermazione della sua intelligenza. Ciò sarebbe come pretendere che
un popolo si sbarazzi da uno straniero dominio a furia di legali dimostrazioni.
Lotta, lotta aperta vuol essere contro l'ingiustizia e la prepotenza. Non
vedete che ogni dispotismo non allarga d'un anello le catene della sua vittima
che quando sente stringersi al collo il nodo scorsoio?
Temete forse l'opinione, il
sarcasmo, il ridicolo che l'uomo tenta di gettare a piene mani sulle
aspirazioni della donna onde scoraggiarla dal generoso assunto? Tenetevelo per fermo,
egli avrà ben piú voglia e diritto di sorridere se non lo fate. Il vantaggio
sarà tutto suo.
6. La donna in faccia al diritto
... La rivelazione di Dio è
eterna ed universale avendola egli incarnata nella natura, per lo che, non
nelle molteplici modalità religiose deve l'uomo cercare la ragione del suo
diritto, ad uniformare i criterii d'ogni nazione, ed a gettare le solide basi
di un diritto mondiale; sibbene nella facoltà insita all'essere umano, che
prepotentemente gli indica il fine cui è votato, e di cui la facoltà stessa è
mezzo e ragione; ed allora sí, che le nozioni del diritto e del dovere saranno
piú lucide e salde, e non più eternamente oscillanti, ed esposte alle
eventualità che ad ora ad ora minacciano, spostano e modificano le credenze.
Ma seguiamo lo svolgimento di
queste nozioni nella coscienza umana; e vediamo, come dapprima vaghe e latenti,
dovessero poscia avvertirsi e determinarsi.
Queste due nozioni non erano né
necessarie, né possibili al primo uomo, il quale, solo in mezzo al creato, non
sentivasi limitato in nessun modo, per cui non dovettero essere che in
progresso vagamente sentite, poi formulate, quindi piú o meno imperfettamente
applicate. Scaturite dapprima dai bisogni e dai rapporti che il solo spirito
umano è in grado di constatare, in un colle leggi che li reggono, il filosofo
trovò poscia la loro affermazione meditando sullo scopo della sua creazione e
sui proprii destini; e come vide il soddisfacimento di quei bisogni in armonia
con quello scopo e con quei destini, vide eziandio necessità di quel
soddisfacimento a raggiungere il suo fine; e sorse in lui la coscienza del
diritto, cioè, come dicemmo, la legittima pretesa d'ogni essere, allo sviluppo
ed allo esercizio delle sue facoltà, epperò a tutti quei mezzi che eccitano,
favoriscono e conseguono questo sviluppo e questo esercizio.
Riconosciuta questa legge, prima
ed anzi tutto nell'essere umano, era impossibile ad ogni logica, non estenderla
a tutta la specie; epperò ogni essere non può, né deve, riconoscere altra legittima
limitazione al proprio diritto, che quella necessariamente stabilita dal
diritto altrui, ed ecco la giustizia.
Chi infatti troverebbe a ridire
di quell'uomo che, trovandosi solo in vasta regione, se l'appropriasse ed
estendesse la proprietà sua illimitatamente, senza scrupolo? Colui non farebbe
che usare del diritto di proprietà, che il supremo fattore gli conferiva sulle
cose, diritto, d'altronde, ch'egli divide con altri esseri viventi. Ma se
costui, estendendo la sua proprietà, trova segnati i confini d'un'altra, là
egli trova eziandio il confine del suo diritto nel diritto del suo simile,
ch'egli deve al par del suo proprio rispettare, siccome basato sulla stessa
ragione...
... La insaziabile curiosità
dello spirito superstite al decadimento della materia lo spinge fatalmente al
progresso: essenzialmente socievole, l'uomo è chiamato all'amor de' suoi
simili, donde la solidarietà e l'associazione, che sono la moltiplicazione
indefinita della sua potenza; dotato di favella, solo, fra tutta la sterminata
serie d'esseri viventi, questo dono diviene l'affermazione di quelle vocazioni,
per la pronta comunione delle idee che sí potentemente lo sviluppano, ed utile
e piacer sommo gli procurano nella conversazione de' suoi simili. Fornito del
sentimento di giustizia e di commiserazione, sentendo bisogno supremo e
tormentoso d'attività materiale e morale, egli vede nell'applicazione di queste
facoltà tracciato lo scopo della sua vita. Egli deve dunque lavorare perché
attivo, con lavoro progressivo perché istintivamente ansioso di progresso;
lavorare di concerto co' suoi simili perché socievole; farsi virtuoso perché
intimamente giusto; e cosí sviluppando con assiduo esercizio le sue facoltà,
aggiungersi forza e potenza, coll'occhio fisso alla perfettibilità materiale,
morale, intellettiva; egli deve in una parola crear l'ordine in sé stesso,
nell'umanità, nel globo, armonizzando i rapporti coi bisogni, donde il
benessere e la felicità, ultima e necessaria scaturigine della morale e della
sapienza.
Ora, la somma di potenza, che
ciascun individuo porta a questo collettivo lavoro, è sí svariata ed
indipendente da ogni forma esterna, che sfugge alla piú minuta, come alla piú
lata classificazione. D'altronde non ci è possibile classificare logicamente la
natura, dacché non ce ne sono note tutte le leggi; sicché facendolo,
arrischieressimo forte di porre al posto della natura delle ottiche illusioni,
delle erronee prevenzioni, o la deplorevole risultanza di pessimi sistemi.
Dalla manía delle
classificazioni nacquero le piú strazianti ingiustizie che hanno desolato
l'umana progenie, e gli errori piú cubitali della filosofia. Le classificazioni
crearono i pregiudizii; i pregiudizii a loro volta generarono i Paria e gli
Iloti; consigliarono lo sprezzo dello schiavo; suggerirono false ed inique
prevenzioni sulle diverse razze colorate, che sgraziatamente perdurano presso
molti che fanno anche professione d'intendersi di giustizia. Dalle
classificazioni donde i pregiudizii, nacquero gli odii profondi, e le lunghe
ire internazionali, quasi l'uomo che abita l'altra sponda di un fiume, o
l'altro versante di una montagna, essenzialmente differisca dall'uomo che abita
la prima sponda ed il primo versante. Ora queste classificazioni vogliono
bandirsi, siccome funeste cause d'isolamento fra gli uomini, siccome tendenti a
ledere il diritto primitivo di ciascun uomo al giudizio dei proprii mezzi ed
alla libera loro applicazione; siccome prepotenza che impone leggi alla natura
e la sforza e violenta, con danno dell'individuo e dell'umanità.
Infatti qual classificazione è
egli possibile in faccia alla dimostrazione imperativa dei fatti?
V'hanno criterii i quali,
fortissimi nella speculazione filosofica, sono affatto inetti in qualsiasi
elemento di scienza esatta, e viceversa.
Un artista sublime non saprà
fare la piú semplice aritmetica operazione; un tale è campione nella fisica e
nell'astronomia che è affatto insuscettibile e profano alla filosofia; e sarà
quell'altro un Socrate od un Platone, senza che gli sia però possibile confezionare
due versi.
Né è piú facile, né piú
possibile, classificare nelle loro morali idoneità i due sessi. Si disse l'uomo
è forte, la donna è debole, ma vi hanno uomini debolissimi e donne fortissime; piú,
si educa l'uomo all'attività fisica e morale, e la donna all'inerzia fisica ed
alla passività morale.
Si disse, l'uomo soverchia la
donna in intelligenza, e la donna supera l'uomo in sentimento. Sonvi però molti
uomini che superano molte donne in sentimento e molte donne che superano molti
uomini in intelligenza; piú, l'educazione che si sforza di favorire e di
sviluppare la intelligenza nell'uomo, fa tutto il suo meglio per isfavorirla ed
atrofizzarla nella donna.
Si disse, l'uomo è fatto per
l'attività, la donna per la quiete; è una gratuita asserzione, è una
prevenzione locale. Parlandosi della donna e della famiglia, dovete aver letto
i costumi di pressoché tutte le nazioni barbariche, che gravano la donna di
tutte le fatiche, e dove le è imposta la massima attività, mentre gli uomini
passano oziando la vita; piú, anche fra voi vediamo i due sessi sobbarcarsi ad
eguali fatiche nelle classi agricole e manufatturiere. E cosí via dicendo,
quando vogliansi confondere le risultanze dell'applicazione dei nostri sistemi,
colle leggi della natura che l'uomo non istudiò mai con ispirito vergine da
criterii preconcetti, coll'animo emancipato dalla segreta ispirazione degli
interessi; noi troveremo sempre le nostre classificazioni in faccia a sí
sterminato numero d'eccezioni, da persuaderci essere quelle troppo poco
attendibili.
Dalla impossibilità di
classificare ne emerge l'incompetenza d'un arbitrato qualunque a determinare le
funzioni dell'individuo in faccia al lavoro sociale; e da quella incompetenza
ne emerge a sua volta il diritto spettante all'individuo solo di determinarsi
ad un genere di lavoro, dietro le attitudini ch'egli sente prepotenti in sé
stesso, donde la varietà delle vocazioni, e la libertà della scelta dei mezzi
ad assecondarle.
Ora, una gran parte delle
nullità morali, che ingombrano l'umana società, non possono ad altro
accagionarsi che a questo incompetente arbitrato che si esercita dall'un
individuo sull'altro, e da tutta la società su tutto un sesso.
Si vollero classificare le
morali idoneità dei sessi, e si vollero assegnare a ciascuno d'essi funzioni
proprie dietro un tipo ideale escogitato in anticipazione; ma queste diverse
attribuzioni parte scaturirono dalla poesia e dalla immaginazione; porzione
molta è artificiata dalla forza prepotente dell'educazione, che a tutto riesce
sendo l'essere umano eminentemente educabile; pochissime fondamentate
dall'osservazione. E tutto questo teorico e gratuito edificio si fece pratico,
senza che uomo si curasse di rilevarne le falsità e di deplorarne le
conseguenze, mentre nessun filosofo s'attentò mai, ch'io mi sappia, di trovar
differenze di carattere e di idoneità fra il maschio e la femmina nelle altre
specie d'animali, dal processo della riproduzione all'infuori, nel quale fatto
solo formano serie distinta; né mai alcuno sognò di negare forza alla lionessa,
o vietar la preda alla tigre, o di disconoscere nella volpe gli astuti
accorgimenti, o di trovar l'aquila meno sublime dell'aquilotto.
È evidente che l'uomo, ignaro
tuttavia di molte leggi naturali, e completamente al buio del concetto
sintetico della creazione, non poteva derivare le sue classificazioni che dagli
interessi suoi e dalle sue passioni. Egli dunque, con un comodissimo a
priori, stabilí sé stesso centro e fine dell'universo, ed a sé convergendo
gli esseri tutti e tutte le cose, ne statuí il valore, ne assegnò le funzioni,
ne affermò l'importanza in base all'utile od al diletto che queste gli
arrecavano.
La donna, che gli è cosí vicina,
e nella quale si giace tanta parte della sua miseria e della sua felicità,
dovea necessariamente esser la prima a subire le conseguenze di un cosí ingenuo
egoismo.
Riconoscendo perciò l'uomo i vantaggi dell'iniziativa,
volle vedere la donna, passiva piú assai che non l'abbia mai fatta la natura.
Avido di dominio e di signoria, imaginò di trovare in lei, bella l'umiltà, e
perfino la viltà. Avendo scoperta la superiorità che dà la coltura
sull'ignoranza, trovò buona cosa serbare a sé il privilegio dell'intelligenza,
e vide nell'ignoranza della donna un vezzo ed un'attrattiva. Amante egli
dell'impero e del comando, si figurò che per la donna sia gloria l'ubbidire.
Cupido di possesso, si aggiudicò la donna siccome proprietà; e si persuase
dovere la buona moglie credersi seriamente cosa del marito; e cosí via di
trotto procedendo, egli trovò d'aversi confezionato un tipo femminile di tutta
sua convenienza, e su questo tipo elaborò le leggi, i costumi e l'educazione
della donna; e questo è tutto il lavoro che la filosofia compí rispettivamente
alla donna in sessanta secoli. Né potrebbe dirsi certamente che noi calunniamo
l'uomo!
Chi non ha letto nell'Ecclesiaste
il tipo ideale femminile che si era creato il piú savio degli uomini?
Chi non ricorda la condotta che S. Paolo comanda di
tenere alla donna (vedi cap. II della prima epistola a Timoteo e cap. II della
prima ai Corinti)?
Chi non sorride vedendo Rousseau
sollecitarsi che le qualità, i vezzi, e fino le debolezze di Sofia calzino a
cappello coi gusti e la natura d'Emilio?
E perfino fra i moderni
filosofi, che pretendono alla fama di novatori, non vediamo noi lo spirito
medesimo? Leggo in Auguste Comte che, il comando degrada radicalmente la
donna; che una savia apprezziazione dell'ordine universale farà comprendere
al sesso affettivo, quanto la sommissione importi alla dignità... Che il
sacerdozio (dell'avvenire) farà sentire alla donna il merito della
sommissione, sviluppando quest'ammirabile massima d'Aristotile «la
forza primaria della donna consiste nel superare la difficoltà dell'obbedire» e
l'educazione l'avrà preparata a comprendere, che ogni dominio, lungi
dallo elevarla realmente, la degrada necessariamente.
Leggo Proudhon, ed a traverso i
suoi mille paradossi, ed alla sua non interrotta serie di contraddizioni, veggo
affacciarsi tratto tratto questi concetti: affinché il tipo femminile conservi
le sue grazie ed i suoi vezzi, deve la donna accettare la potestà maritale (sic!).
L'eguaglianza di diritti la farebbe odiosa, e trascinerebbe con sé delle
deplorevolissime conseguenze, e, fra le molte a mo' d'esempio, la piccola
bagatella della perdita del genere umano!!! (Lettrici mie, non ve ne
impressionate troppo!)
Leggo Michelet ed a traverso
torrenti di poesia e di sentimento, in un impeto d'amore per la donna egli, la
vede fatta dall'uomo e per l'uomo. Dolente di vederla sofferente e
malata (la donna di Michelet è sempre malata), egli vede la necessità
d'isolarla, di custodirla, di medicarla. Bambina, non conoscerà che le sue
poppattole; maritata, non vedrà che il marito ed i figli; vedova, gl'infermi e
gli orfanelli. E di coltura? Non se ne parla. Il sapere la invecchia. E di
lavoro? Nessuno. Si romperebbe tutta. D'altronde la manutenzione della cosa,
tocca al proprietario della cosa. E di funzioni? Non ne è questione. La donna
di Michelet, è una donna che adora suo marito, che è fatta da lui, che vive per
lui, per lui solo, e che finisce poi probabilmente per morire di congestione al
cuore in seguito ad una serie di emozioni tenere troppo frequenti.
Bisogna confessare che, se
l'uomo è egoista, lo è poi anche senza nessuna velleità, e di tutto cuore! Non
v'è altro commento possibile a siffatte teorie.
Ora, sia che si neghi alla donna ogni funzione, sia che
le si assegni un lavoro, ella fu sempre fin qui in balía dei capricci d'ogni
filosofo, il quale le dà, o le toglie, la eleva, o la abbassa, la invita o la
respinge in base al tipo ideale che ciascun di loro se ne forma. Ma al dí che
corre deve la filosofia aver capito, che la soluzione di un problema sociale
non può essere nella testa d'un uomo, ma se ne sta latente nella natura, la
quale non potrà mai rivelarsi fino a che sarà interrogata coll'animo
preoccupato da pregiudizii o da interessi veri o supposti.
E dico veri o supposti, perché
tutto ciò che è fuori dell'ordine e del giusto, se può per avventura favorire
un piccolo e precario interesse, deve però alfine chiarirsi ineluttabilmente
incompatibile ed ostile ai grandi e duraturi interessi dell'individuo e
dell'umanità; per cui, se a mo' d'esempio oggi trovava assai acconcio il forte
il diritto di conquista, trovandosi domani in faccia un piú poderoso
avversario, era pur costretto a confessare essere ingiusto e precario il
diritto della forza.
Ma questi riflessi sendo stati
fatti dall'uomo un po' tardi, anzi da pochi uomini fatti anco al dí che corre,
ne avvenne che le istituzioni di tutti i tempi si risentirono di quelle
prevenzioni e pregiudizii a cui accennavamo; ed al tempo in cui viviamo è pur
doloroso dovere confessare che ancora la forza è in onore, che diritti e doveri
sono piú che parzialmente distribuiti, e che con una logica degna
degl'interessi, piú assai che della ragione, si aggiunge debolezza al debole
gravandolo di doveri, si aggiunge forza al forte circondandolo di diritti.
Laddove poi si consideri avere
la legislazione come ogni altra istituzione ormeggiato lo sviluppo dei popoli
ed i procedimenti delle civiltà, andranno necessariamente crescendo le
meraviglie, trovandoci in grado e necessità di constatare la universale
incoscienza della giustizia.
Ma poteva egli essere
altrimenti, dacché la filosofia non cercò e non istabilí una base generale di
diritto, che soggiogando gl'interessi, ed ispirandosi ai principii, s'imponesse
prepotentemente alla ragione, e si erigesse a coscienza universale? Epperò i
legislatori, privi di luce ferma e costante a dirigersi, dovettero
meschinamente ispirarsi ad interessi puri e semplici di luogo e di tempo,
imponendo cosí all'opera loro il marchio fatale della caducità.
Infatti veggiamo apparire
evidente dalla storia della legislazione questa enorme lacuna ch'ella è la
nessuna base del diritto, risultando per lo appunto le istituzioni le voci dei
bisogni di un giorno e di un paese, anziché i logici corollarii di un concetto
unico e fermo.
Ed invero, in faccia ad una base
filosofica del diritto, che cosa avrebbero significato i diritti feudali?
Sopra di che avrebbe potuto
giustificarsi la patria e la marital potestà dei Romani, per le quali la
repubblica non riconosceva a cittadini che i capi di famiglia, non tutelando
neppure la vita e la libertà delli altri membri?
E qual logica analogia troviamo
fra la forma repubblicana del governo e la fama autocratica della famiglia
romana?
Ed ai nostri tempi (parlo di
paesi civilizzati e progressisti) che cosa significa, in faccia al principio
filosofico del diritto, l'ostracismo degli ebrei?
Che cosa, le barriere elevate
alla libera associazione dalla diversità di credenze?
La diseredazione del figlio che
ha lasciato la religione paterna?
La frase comune a molti codici,
tolleranza dei culti?
La schiavitù delle razze colorate?
La soppressione
dell'intelligenza e dell'attività femminile?
L'individuo, vivendo nella
famiglia, e nella società, porta alternativamente in quella le impressioni
ricevute in questa, ed in questa i sentimenti e le idee in quella assorbite; ed
è però sommamente necessario che l'organizzazione politica armonizzi
coll'organizzazione della famiglia, e lo spirito stesso e l'eguale indirizzo
all'una ed all'altra simultaneamente s'imprima.
Senza questa congiura, per dir
cosí, di tutte le istituzioni contro i facili eccessi delle passioni, non potrà
mai l'uomo informarsi ai precetti della giustizia, né mai potrà avvertirne la
somma importanza. L'incoerenza conduce al gratuito, il gratuito all'arbitrio,
l'arbitrio all'egoismo, l'egoismo all'ingiustizia.
Ma in appoggio di questo mio
concetto mi cadono in acconcio, e vi spiegheranno meglio assai ch'io non sappia
l'importanza di questa coerenza di principii, le riflessioni del gran Beccaria
sullo spirito delle famiglie, nel suo libro Dei delitti e delle pene.
Ecco le sue parole:
«Quante funeste ed autorizzate ingiustizie furono
approvate dagli uomini anche piú illuminati, ed esercitate anche dalle
repubbliche piú libere, per aver considerato la società piuttosto come
un'associazione di famiglie che come una unione d'uomini?
«Vi siano 10.000 uomini ossia
2.000 famiglie, ciascuna delle quali sia composta da cinque persone compresovi
il capo che la rappresenta. Se l'associazione è di famiglia vi saranno 2.000
uomini ed 8.000 schiavi; se l'associazione è di uomini vi saranno 10.000
cittadini e nessuno schiavo. Nel primo caso vi sarà una repubblica, e 2.000
piccole monarchie; nel secondo lo spirito repubblicano, non solo spirerà nelle
piazze e nelle adunanze della nazione, ma anche nelle domestiche mura ove sta
cosí gran parte della felicità e della miseria degli uomini.
«Nel primo caso, come le leggi
ed i costumi sono l'effetto dei sentimenti abituali dei membri della
repubblica, ossia dei capi di famiglia, lo spirito monarchico s'introdurrà poco
a poco nella repubblica medesima, e i di lui effetti non saranno frenati che
dagl'interessi opposti di ciascheduno, ma non già da un sentimento spirante
libertà ed eguaglianza...»
... Fin qui Beccaria, e noi
facendo plauso alla sua equità aggiungiamo, che una legislazione, che non considera
a cittadini tutti indipendentemente ed egualmente i membri della sua società, e
non garantisce a ciascuno i mezzi di perfezionamento e la libera autonomia,
perde il diritto al rispetto ed alla obbedienza, e dove punisce non esercita
che una fredda violenza; poiché non l'uomo è fatto per la legge, ma la legge è
fatta per l'uomo, e dove ella non raggiunge il suo bene ed il suo meglio non ha
nessuna ragione d'esistere.
Che cos'è la paternità? In
faccia alla natura è un semplice impulso, in faccia alla legge è una ancor piú
semplice ipotesi, dovunque e sempre è ombra e mistero.
Da ciò ne risulta, che se la
madre ha sempre diritto innegabile al rispetto ed all'amor della prole, alla
quale la natura la indice con evidenza, il padre non partecipa a questi diritti,
se non in quanto siasi egli stesso incaricato di provare al figlio la paternità
sua, tutti verso di lui compiendo quei doveri di alimentazione e di educazione
che la ragione gli suggerisce.
Tanto ci insegna semplicissima
riflessione sulla logica dei fatti. Ma gli uomini sono eternamente inclini a
costruire gli edificii loro sulle ipotesi, ed anche qui preferirono meglio
fondar sull'ipotesi che sull'evidenza; ed innalzarono la patria potestà
che, come piramide partita da larga base, col diritto di morte e di vendita sui
figli, andiede in appresso assottigliandosi; ma ne rimane oggi stesso pur tanto
da non lasciarci credere di troppo posteriori alla antica Roma.
La paternità legale è la prima ragione della schiavitú
della donna. Infatti, perché fossero duraturi questi rapporti artificiati, era
d'uopo dar qualche corpo alla ipotesi, qualche esattezza all'induzione. Da qui
la reclusione della donna; e cessata questa nel modo assoluto colla civiltà dei
tempi, perdura tuttavia nel suo spirito e nel suo scopo nelle mille limitazioni
della sua libertà. Da qui il diritto di comando, di sorveglianza, il supremo
arbitrio del marito; la signoria dell'uomo insomma, e la servitù della donna.
Sí, la madre dell'uomo non ha
altro diritto che quello di soffrire per lui, di formarlo del suo sangue, di
nutrirlo del suo latte, di sacrificarsi completamente, se vuole, ai suoi
interessi e basta. La legge non riconosce nessuna maternità; ed in
mancanza del padre non ha la madre neppur diritto di preferenza alla
tutela della prole...
... Apro infatti il Codice Albertino e trovo che il § 211
dichiara essere i figli sotto la potestà del padre fino alla loro
emancipazione, o se egli sia morto non emancipato, son essi sotto la potestà
dell'avo paterno.
Col § 212 vieta al figlio di allontanarsi
dalla casa paterna prima dei 25 anni compiti, senza il permesso del padre.
Il § 215 dà al padre il diritto
di far tenere in arresto il figlio non ancora quadrilustre, sulla sua semplice
domanda.
I §§ 216 e 217 permettono al
padre di chiedere la detenzione del figlio per sei mesi, purché sia
quadrilustre e fino a 25 anni inclusivi. Nell'uno e nell'altro caso non gli è
imposta nessuna formalità o scrittura giudiziaria. L'ordine d'arresto sarà
spiccato in iscritto senza essere neppur motivato.
Ecco una potestà discretamente
romana, e nella quale si dispone in tutti i sensi di una creatura umana senza
neppure supporle una madre, la quale non ha in tutto ciò nemmeno un voto
consultivo.
Ma la madre non è ella almeno
una limitazione del patrio diritto in forza del diritto incontestabile e
solenne che le dà la natura, che affida la prole alle sue cure, e non a quelle
del padre?
Signore no. La madre
legittima non esiste; e se qualche cosa può limitare la patria potestà sul
figlio, non sarà mai la madre, bensí la proprietà; e non sarà questo il
solo caso in cui vedremo la legge fare assai piú stima della proprietà che
della persona, principalmente se questa persona è una donna; ed eccone la prova
nel § 220: «Se il figlio ha beni proprii ed esercita una professione, non potrà
aver luogo il di lui arresto se non mediante istanza nella forma prescritta
nell'articolo 216, quand'anco il figlio non fosse giunto all'età d'anni 16.»
Ma la madre non ha essa mai in
nessun caso dei diritti sulla prole?...
... Se non che il disdegno, che
i codici mostrano per la donna, non è che uno dei corollarii di quel principio
cosí lucidamente impugnato dal Beccaria, che cioè, quel legislatore che
considera la società come una associazione di famiglie, non deve
necessariamente riconoscere a membri attivi che i capi di esse e lasciar gli
altri tutti nell'ombra ed in balía del capo, sopprimendo cosí ogni diritto
ingenito, sul quale si eleva prepotente il diritto parziale...
... Riapro il Codice Sardo ove tratta
dei rispettivi diritti e doveri dei coniugi, e trovo al § 125: «I coniugi hanno
il dovere di reciproca fedeltà, soccorso ed assistenza.»
Senz'altro va ad essere un
paradiso terrestre! Si tratta di una perfetta eguaglianza! Di una completa
fraternità! È il matrimonio tipico! È l'ideale del coniugio! È l'androgino
umanitario che fonde due esseri in una sola unità! Adagio, vediamo come
s'intendono di reciprocanza e mutualità i nostri legislatori.
§ 126: «Il marito è in dovere di
proteggere la moglie, la moglie di obbedire al marito.» Ecco i primi albori
della reciprocanza legale; discutiamoli un momento.
Che cosa sia la protezione che
il marito deve alla moglie; qual logica analogia ella abbia coi costumi d'una
civil società; qual fatica costi al marito questo fantasma di dovere, non si
saprebbe definir veramente, circondati come siamo da leggi ed agenti d'ordine
pubblico. Egli lavora siccome un re, i cui ministri fanno tutto, ed al quale
pur tuttavia i beati popoli governati debbono innalzare inni di riconoscenza e
d'ammirazione. Cosí la moglie vive sicura all'ombra della protezione maritale
esattamente come viveva sicura sotto l'egida dei provvedimenti di pubblica
sicurezza, il giorno prima d'aver acquistato il protettore.
Ma niuno forse ardirà toccare alla
moglie per timor del marito?
Vi domando scusa. È piú che
dimostrato, che tutti i delitti sono possibili.
Ma nel caso che la moglie venga
insultata, sarà per lo meno dal marito vendicata?
Neppure. La giustizia personale
è vietata; essa è fatta esclusivamente delle leggi. Il legislatore, che
prescindesse da questo principio fondamentale d'ordine pubblico, esporrebbe la
sua società a terribili disordini e distruggerebbe la sicurezza personale.
Che cosa intende adunque la
legge nello imporre al marito questa protezione?
Intende di gravare il marito di
un dovere, ma di un dovere da marito; tuttoché illusorio, però le serve per
giustificare tutti i diritti di cui vuole circondarlo. Dichiarato protettore,
epperò responsabile, ogni misura, od intorno o sopra il suo protetto, divien
logica ed equa, e la legge ha ribadito cosí l'arbitrio maritale.
Quella legge stessa però cosí
vaga, cosí laconica, cosí speciosa sui doveri del marito, è quella stessa che
sa molto bene determinarsi, amplificarsi e dimostrarsi nei doveri della moglie;
e per primo le impone obbedienza, senza assegnare a questa obbedienza limite o
confine, cosicché, in faccia a tanta completa passività imposta alla metà della
popolazione, io non so piú che cosa si voglia intendere il legislatore, dichiarando
irrito e nullo ogni contratto, che stipuli l'alienazione personale.
Ed invero, un rapido sguardo ai
doveri della moglie ed ai diritti del marito, basterà per toglierci alla taccia
d'esagerazione. Veniamo perciò ai logici corollarii della illimitata obbedienza.
§ 127: La moglie deve concorrere
al mantenimento del marito, quando egli non ne abbia i mezzi bastanti.
§ 129: La moglie non può stare
in giudizio senza il consenso del marito. Se questi non voglia o non possa
prestarlo, il tribunale può autorizzarla.
Notisi, che v'ha però un caso,
nel quale può stare in giudizio senza il consenso del marito; e questo caso
eccezionale, benché assai logico e giusto, non è fatto per portar luce
sull'astruso problema della protezione maritale: quando cioè è inseguita dalla
legge per delitti o contravvenzioni.
§ 130: La moglie non può donare,
né alienare, né ipotecare, né acquistare a titolo sia gratuito sia oneroso, né
obbligarsi per nessuno degli atti eccedenti la semplice amministrazione, senza
che il marito, personalmente od in iscritto, presti a ciascun atto il suo
consenso.
Dopo tutto ciò non sarà
soverchio notificare alle mie giovinette lettrici, che la legge ammette anche
nella donna il diritto di proprietà, tutto che, questi paragrafi non
siano fatti per farlo credere.
Nel § 137, la legge si mette una
mano al cuore, e prova un palpito d'incertezza e d'apprensione pel marito. E lo
vede circondato da pericoli e soperchierie, e si trova in dovere di proteggere
e tutelare il forte contro i verosimili eccessi del debole; epperò pone per lui
le mani avanti e decreta in anticipazione che «l'autorizzazione od il consenso
in genere, non sono validi, ancorché stipulati nel contratto di matrimonio».
Coll'articolo 139 poi, la legge
ridona alla donna il diritto pratico di proprietà, riconosce per un'ora
di tempo la sua autonomia, permettendole di fare il suo testamento, senza
autorizzazione o consenso del marito. Confessiamo che la legge è generosa,
peccato che sia un po' tardi!
Che il vedovo marito si crucci o meno, per il decesso
della sua consorte, che piú o meno presto la scordi, poco importa alla legge;
ma ciò che le sta a cuore sommamente si è, che la vedova non troppo facilmente
si consoli del perduto protettore, ed a ciò efficacemente provvede nel § 145,
dov'è disposto che «la vedova, contraendo nuove nozze, prima che siano
trascorsi dieci mesi dopo la morte del marito, incorre nella pena della perdita di tutti i lucri nuziali
stabiliti dalla legge, o stipulati col primo marito, non che di tutte le
liberalità, che a lei fossero pervenute dal medesimo».
Notisi che quel vocabolo pena,
di cui si serve la legge, supponendo una colpa, dichiara implicitamente
criminose nella donna le seconde nozze; mentre il vedovo marito, erede della
sposa defunta, è abilitato a scordarla innanzi sera.
Ecco come s'intende la legge
alla reciprocanza ed alla mutualità; ed ecco come ella è coerente al suo § 125.
Ovunque vedesi la personalità della donna maritata
affatto eclissata, ella non è che l'ombra del marito che la invalida, che la
assorbe, che la annichila e dal quale non è emancipata neppur per la sua morte,
non che pel caso di separazione di corpo e d'abitazione, nel qual caso, avendo
ella la semplice amministrazione de' suoi beni, non può tuttavia senza il di
lui consenso ed autorizzazione né alienare, né obbligare i suoi beni immobili,
né stare in giudizio per azioni riflettenti li
stessi suoi beni.
Quando si rifletta che, cessata
colla legale separazione la comunanza degli interessi fra i coniugi, possono
questi diritti del marito attraversare ad ogni tratto gl'interessi della
moglie, subordinati quali sono ad ogni suo capriccio, ben si vedrà quanto la
legge si solleciti del benessere della donna.
E, separata e non separata, non
può la moglie, senza consenso ed autorizzazione del marito, accettare incarico
di esecutrice testamentaria; non può accettare nessun mandato; non può
accettare nessuna donazione; non può validamente accettare nessuna eredità; non
può assumersi fideiussione; in una parola, civilmente non esiste. Dove
il marito si rifiuti all'assenso, il tribunale di prefettura assume i suoi
diritti, e conferma il rifiuto di lui, oppur prescinde secondo che gli pare; e
questa specie di difesa, che la donna ripete dalla legge che controlla il
rifiuto del marito, non è che un'incoerenza di piú in faccia al suo spirito,
una oscurità di piú ch'ella apporta a quell'oscuro busillis che è la
protezione maritale, un fatto di piú che prova alla donna sposa, ch'ella è
sempre minore od interdetta.
Se non che, potrebbero per avventura, questi esorbitanti
diritti maritali, se non certo giustificarsi, almeno spiegarsi sopra ciò, che,
dovendo il consorte nutrirla, in caso di dissipazione ella cadrebbe a tutto suo
carico. Ma, signori no, anche qui la legge ha provvisto per non aver ragione,
col sopraccitato § 128, nel quale è disposto che «la moglie debba alimentare il
marito, quando egli non ne abbia i mezzi bastanti», per cui, soggiacendo
ambedue allo stesso peso, qui, come dovunque, la legge si sollecita affinché
non vi soccomba che il debole. Il marito perciò potrà sciupare i beni suoi e
quelli della consorte, ch'egli solo amministra senza controllo, eppoi dovrà
esserne alimentato.
Cosicché riassumendomi, abbia il
marito torto o ragione, sia egli o non sia in buon accordo colla moglie, sia
egli onesto od immorale, sia egli accorto e prudente, oppure stupido od
incapace, la legge ha già deciso in anticipazione, che il matrimonio deve
produrre nella donna l'evirazione delle sue facoltà; per cui deve divenire
essenzialmente incapace, mentre nel marito deve aggiungere onestà ed
intelletto, senza eccezioni e senza limitazioni.
Ma se la legge fatta dall'uomo, è necessariamente altresí
fatta per l'uomo, essendogli pressoché impossibile astrarre dal personale
interesse; per lo meno, essendo la morale una, ed inalterabile, saranno in caso
di contravvenzione strettamente pareggiati nella penalità?
Ciò non potrebbe essere, senza
che la legge cadesse in una delle più grosse incoerenze. Distribuiti parzialmente
i doveri, ne risulta una disparità di situazione, donde relativa dev'essere la
colpa, epperò relativo il castigo.
Il § 486 del Codice Penale,
decreta che «la moglie, convinta d'adulterio, sarà punita col carcere, non
minore di tre mesi, estensibile a due anni»; e che «il marito convinto di
concubinato, sarà punito col carcere da tre mesi a due anni».
Per quanto giusta vi sembri
questa disposizione non v'andate a credere, che stabilisca almeno in un punto
un po' d'eguaglianza. La legge ha trovato modo di sciogliere il marito da ogni
pericolo, e togliere alla moglie ogni diritto di querela coi §§ 482 e 483,
dichiarando che, la moglie può essere adultera dappertutto, mentre il marito
non lo è, per lei, che quando si abbia tenuto la concubina sotto il tetto
coniugale.
Ma forse che la legge ha cosí
disposto nella impossibilità di constatare piú chiaramente il concubinaggio per
parte del marito? Domando scusa.
Quando la legge ammette la
sorpresa in flagrante, dovunque, contro la moglie, non v'ha equità che possa
vietare sul conto del marito la stessa ipotesi. Più, se contro la moglie, la
legge ammette prove risultanti da lettere o carte dal complice scritte, non si
vede equa ragione, per la quale le prove reputate legali contro la donna, non
si reputino egualmente legali contro il marito.
La legge considera ella
nell'adulterio l'offesa al diritto coniugale? Or bene, questa davanti alla
natura, davanti all'equità, davanti al suo medesimo § 125 è la stessa in ambo i
coniugi. - O considera dessa le conseguenze? Allora l'elemento eterogeneo che
l'adulterio della donna arrischia d'introdurre nella famiglia del marito, è
quello stesso, che il marito porta in un'altra famiglia; con quella maggior
reità, che porta con sé davanti ad ogni sano criterio e davanti allo stesso
Codice Penale, la provocazione e l'iniziativa. Piú, il marito amministrando
solo, le sostanze sue e della moglie, piú funesti sotto ogni aspetto riescir
debbono alla famiglia i suoi disordini. Egli può detrarre il patrimonio dei
figli, egli può spogliare la moglie, per arricchire l'amica.
Finalmente, giudicate da ciò, se
il codice divide il pregiudizio degli onesti che la morale sia una, e quanto si
solleciti d'essere seco stesso coerente ricordandovi dell'edificante § 125, al
quale or ora accennavo: «I coniugi hanno dovere di reciproca fedeltà.»
Ma dandosi il caso che un uomo,
nel quale il sentimento d'equità predomini lo innato egoismo, e porti alla sua
sposa riverenza, siccome ad essere umano, ed in lei però considerando
l'ingenito principio del diritto, non dipende egli dalla sua ragione, dal suo
cuore, dalla sua volontà il riabilitarla, deponendo spontaneo i non equi
diritti?
Rispondo. Sapete voi come, i
legislatori della Carolina del Sud, impediscono gli assembramenti delli schiavi
neri, la loro istruzione e la loro privata industria, che padroni coscienziosi
potrebbero favorire con animo di avviarli all'emancipazione, il qual risultato
sembra a quei signori un notevole inconveniente? Puniscono insieme il
padrone e lo schiavo.
Con poche varianti il nostro
codice, prevedendo questo caso appunto, che il marito possa voler riabilitare
la sua compagna, dichiara anticipatamente nel § 1.509, che gli sposi, nel loro
contratto, non possono in alcun modo derogare ai diritti risultanti sopra la
moglie dall'autorità maritale, ecc., e, nel § 1.511, avverte che è
egualmente vietato agli sposi di stipulare in modo generico, che il loro
matrimonio verrà regolato da alcune delle leggi, statuti, consuetudini che non
siano attualmente in vigore in questi Stati, e ciò tutto, sotto la
responsabilità del notaio, che incorrerà in una pena od anche nella deposizione
della carica.
Si può contrarre matrimonio
sotto diverse forme di regime, ben inteso, che queste modificazioni non
riguardano che la proprietà, restando in tutto e sempre la persona della moglie
completamente alienata.
E per primo, v'ha il regime
della comunione dei beni, nel quale s'intende coniugato chiunque non abbia
fatto convenzioni speciali; v'ha il regime dotale.
Nel primo l'amministrazione dei
beni comuni è devoluta al marito solo; i quali beni si compongono di
tutti i mobili ed immobili, frutti ed interessi d'ogni natura, acquisiti anche
dopo il matrimonio.
Oltre il diritto di
amministrare, egli solo può stare in giudizio per azioni riflettenti i beni della
comunione.
Egli può inoltre vendere,
alienare, ipotecare questi beni senza concorso della moglie, non essendo
richiesto il suo esplicito consenso, per la legale validità d'ognuno di questi
atti.
Ora, laddove si consideri che se
abbia la donna posto dei beni in comunione, o col proprio censo, o col proprio
personale lavoro, o col lento e penoso risparmio, deve pur sempre stendere al
marito la mano per averne in tutto o in parte ciò che vuole ogni equità le sia
dovuto, fortunata ancora se una cattiva amministrazione del marito, od i debiti
da lui incorsi, od i suoi vizii e disordini non l'hanno spogliata di tutto,
vedrassi chiaramente quanto un simile regime sconvenga alla donna.
Nel popolo, i cui matrimonii si
fanno senza contratto generalmente, non è raro vedere un marito beone, brutale,
o giuocatore, sciupare in assidue gozzoviglie il piú che modesto mobiliare
raccolto della misera consorte, colle lunghe notti vegliate nel lavoro, o con
indicibili economie, che spesso le costarono la salute.
Bisogna perciò persuadere le
donne del popolo a fare un contratto nuziale, ed a voi tocca, signore mie, ad
accorrere in soccorso della loro improvvida ignoranza, in nome di quel vincolo
solidale che unir deve la donna di tutti i ranghi sociali, poiché tutte sono egualmente
oppresse dalle istituzioni; e passiamo ora a vedere come la legge tratta la
donna nel contratto.
Un secondo regime matrimoniale è
il regime dotale. I beni dotali debbono esplicitamente dichiararsi tali; tutti
gli altri sono detti parafernali o estradotali.
I beni dotali sono inalienabili
in regola generale. Il marito solo li amministra; i frutti sono destinati a
concorrere al peso delle spese domestiche.
La moglie può ricevere
annualmente sopra sua semplice quietanza una parte delle rendite di essa dote,
dietro esplicita convenzione nel contratto di nozze.
Un terzo regime è la separazione
dei beni. In questo caso la moglie ha il dominio non solo, ma anche
l'amministrazione de' suoi beni parafernali, uniformandosi, in quanto
all'esercizio dei suoi diritti, alle restrizioni citate piú sopra, che la
riducono all'impotenza d'ogni atto legale senza consenso esplicitamente
prestato dal marito, od in caso di suo rifiuto, dal tribunale.
Come ognun vede, la donna, in
qualunque regime coniugale, è schiava o minore.
Per avere un diritto materno, ella non dovrebbe esser
madre che di prole illegale, e per avere il reale possesso di sé stessa e delle
cose sue, mai non dovrebbe piegare il collo al giogo del matrimonio; e cosí
facendo ella non farebbe che ridurre a pratica le immorali lezioni, che le dà
il codice con tanta eloquenza; donde poi la corruttela massima dei costumi; la
origine incerta delle famiglie; la moltiplicazione allo infinito degli orfani e
degli esposti, non potendo la donna, priva del diritto industriale, bastare
all'alimentazione di numerosa prole; e ci darebbe così delle generazioni
degenerate dal punto di vista fisico, depravate, dal punto di vista morale,
miserabili, dal punto di vista economico, e dal punto di veduta politico,
terribile ed eterna minaccia all'organismo sociale...
...§ 185: Le indagini sulla
paternità non sono ammesse - § 186: Le indagini sulla maternità sono ammesse.
Questi due paragrafi fanno
sorgere spontanea piú d'una riflessione...
... Procediamo ora ad un rapido sguardo
sulle condizioni della donna maggiore, vedova o nubile ch'ella sia.
Libera dai pesi della famiglia,
non vincolata ad ogni ora e momento ai più minuti capricci d'un consorte,
vivendo o della propria industria, o del proprio censo, non v'ha ragione nessuna
che la debba, in faccia alla legge, inferiorizzare nei diritti competenti ad
ogni cittadino.
Eppure non è cosí. La legge
assume sulla donna per conto suo una seconda edizione della patria potestà, e
ne limita ad ogni tratto l'autonomia ed i diritti, con un'aria di sollecitudine
che tutta rivela la sua profonda convinzione dell'incapacità femminile. Ed a
ciò non si accontenta, ma con patente ingiustizia si dà premura eziandio di
diminuire per lei anche quella porzione di beni, che l'ordine della natura le
assegna, e vo' dire delle disposizioni della legge nelle successioni ab
intestato.
Il Codice Albertino dedica un apposito capitolo alla
consacrazione di questa flagrante ingiustizia, fondata sul vieto diritto
feudale, il quale avea saputo imaginare, come ognun sa, a maggior bene e gloria
delle famiglie, l'oppressione di tutti i suoi membri, quale forzatamente
coniugato, quale violentemente monacato, tutti, meno uno, snaturatamente
spogliati.
Ora, nel secolo decimonono, il
Codice Albertino conserva fresche fresche le sue velleità feudali, e fa ancor
dell'amore col passato trapassato.
In grazia che l'umanità ha un
secolo di più, si rassegna ad emancipare tutti i suoi membri maschi, ché, in
quanto ai membri femmine, non c'è mai premura; ed egli trova d'altronde, che il
diritto scritto fa molto bene d'emanciparsi un po' dal diritto naturale, troppo
piú democratico che non comportino certi interessi; per cui: «Trattandosi di
successione paterna, o di altro ascendente paterno maschio, la porzione di
successione che spetterebbe alla femmina, o suoi discendenti, eredi o non della
medesima, sarà devoluta, a titolo di subingresso, e secondo le regole di
successione, ai suoi fratelli germani, o loro discendenti maschi da maschi,
ove esistano; e in difetto di fratelli germani o loro discendenti maschi, ai
fratelli consanguinei e loro discendenti maschi da maschi come sopra.»
Il § 944 decreta la stessa
disposizione riguardo alla successione d'un fratello germano o consanguineo, se
la donna trovasi qui pure in concorrenza con maschi, o con loro discendenti
maschi da maschi, come sopra.
Il § 944 conferma la stessa
disposizione riguardo alla successione materna, esclusa solo la concorrenza dei
fratelli consanguinei.
La donna sorella, è l'elemento
sul quale fa, assai generalmente, le sue prime armi la petulanza virile; e
queste disposizioni sembrano fatte per apporre la legale ratifica a questo
comunissimo fatto; ma, cessato il feudalismo, gli uomini della legge sentono
benissimo di non potere in alcun modo, non che giustificare, neppure spiegare,
non fosse altro, con ragioni di coerenza siffatta ingiustizia. D'altronde la
dottrina del diritto è oggidí abbastanza sentita dalla coscienza delle masse,
perché si possa piú oltre procedere in un ordine di cose ormai divenuto impossibile.
Né ci riconosciamo noi stessi il diritto di piú oltre insistere su questo
proposito, dacché siamo informati, che la commissione incaricata di rivedere i
codici dal Parlamento nazionale, ha già compreso questo articolo fra quelli,
ch'esser debbono oggetto di riforma...
... Esclusa, in regola generale,
la donna dalla tutela ed anzi tutelata eternamente ella stessa, non deve
meravigliare il vederla esclusa dal consiglio di famiglia, per cui, anche
davanti a questo tribunale intimo, davanti al quale si agitano gl'interessi più
cari al suo cuore, e dove la voce di una madre, di un'ava, di una sposa e di
una sorella sembra reclamata dalla natura, trovasi la donna annullata dalla
legge.
Non dite piú, che la donna è
fatta per la famiglia; che nella famiglia è il suo regno ed il suo impero! Le
son queste poetiche iperboli e vacue declamazioni, come mille altre di simil
genere! Ella esiste nella famiglia, nella città e dovunque in faccia ai pesi ed
ai doveri; da questi all'infuori ella non esiste in nessun luogo.
7. La donna nell'esclusione del diritto
«Tutti
gli uomini hanno la stessa natura e gli stessi attributi; donde nasce per tutti
l'identità dello stesso fine e degli stessi doveri.»
Tamburini,
Corso di Filosofia Morale
Basato il diritto sulla facoltà,
non individuale ma generale alla natura umana, visto essere il diritto la
legittima pretesa d'ogni essere allo sviluppo delle facoltà proprie del suo
tipo, ed a tutte compiere le funzioni che gli fanno raggiungere il suo fine; io
non mi dilungherò a provare, che la donna, essere umano, non ha diritto di meno
dell'uomo, finché non usurperà il sacro nome di diritto il privilegio...
... Per la necessaria influenza, che la legislazione
esercita sulla opinione, i costumi vi si uniformano e creano delle prevenzioni
e dei pregiudizii, che durano imperterriti davanti alla guerra che loro
combattono la ragione ed i fatti.
Ora, avendo le leggi tutte,
quali piú, quali meno, inferiorizzata la donna, questa disistima si estese
eziandio alle sue produzioni, benché la ragione ed i fatti provino tutti i
giorni, che il lavoro della donna è nobile, è necessario, è perfetto, quando
anche non è identico a quello dell'uomo.
Questa disistima della
produzione femminile fa sí, che la donna debba starsene per una misera mercede
da mane a sera inchiodata ad un lavoro penoso, non guadagnando talora pur tanto
da levarsi la fame.
E negli stabilimenti d'industria
e di speculazione non è ella cosa convenuta, che la donna debba al par
dell'uomo affaticare e produrre per una mercede assai più scarsa?
Né si dica, che la donna ha meno
bisogni. In regola generale il lavoro dev'essere retribuito in ragione del suo
intrinseco valore, e non già in vista del maggior o minor bisogno dell'operaio.
Che se amano carità e filantropia largheggiare nella mercede là dov'è urgente e
grave il bisogno, vuole la piú elementare nozione di giustizia, che l'opera sia
retribuita per non meno di quel che vale.
D'altronde, che cosa significa
questo che la donna ha meno bisogni?
Quando si tratta di darle l'esercizio
d'un diritto, allora diventa, la donna, la creatura dai mille bisogni e dalle
molteplici esigenze. Allora vengono in campo le frequenti malattie, le perpetue
lesioni nervose, le crisi inevitabili, i lunghi squilibri, e si vuol vedere uno
stato morboso e patologico perfin nelle leggi puramente fisiologiche, che
reggono il suo modo d'esistenza, per dimostrarla impotente, non che a muoversi
dal suo scanno, neppur a far atto di presenza ad un atto legale di nascita o di
matrimonio, sprofondata in un seggiolone.
Ora, questa creatura, che si
vuol fragile come una piuma di cigno, diviene ad un tratto d'una potenza
erculea per affaticar tutto giorno come l'uomo, e meno di lui retribuirsi.
Eh, finiamola di contraddirci, e
di porre le prevenzioni nostre al posto della natura. Il ricco vuole la donna
esile, e tenta persuaderle che è di vetro affinché, stesa tuttodí su un morbido
sofà, punto non pensi a controllare il governo maritale. L'uomo del popolo
persuade alla sua donna ch'ella è vigorosissima, per vivere egli pure del suo
lavoro, se accade, come spesso, al marito di amar meglio le gozzoviglie che la
fatica.
A meno che non si vogliano
calcolare, come altrettanto minor cifra di bisogni nella donna, l'ebbrezza alla
quale generalmente l'uomo s'abbandona, ed ella no; il giuoco, vizio che l'uomo
generalmente ha, e che la donna generalmente non ha; le frequenti gozzoviglie,
che la donna operaia non conosce quasi, e nelle quali l'uomo del popolo affoga
spesso il frutto del sudore della settimana, al quale avrebbe la sua famiglia
sacrosanto diritto.
Ecco i minori bisogni che ha la
donna; ma vi sono poi i maggiori, che tutti si risolvono in economie per il
tempo delle malattie, per la stagione priva di lavoro, per le minute
provvidenze della casa, delle quali il marito non conosce neppure il nome, per
le vesti ai bambini e talvolta ancora il pane a che il padre non pensa, e non è
sgraziatamente troppo raro il caso...
... A redimere la donna dalla
tirannide di questo ingiusto costume, non v'ha che l'associazione organizzata
su larga scala. Vuolsi perciò tentare ogni mezzo a persuadere alla donna del
popolo, che l'associazione è moltiplicazione indefinita di potenza, ma che, ad
esser feconda in risultati, non deve arrestarsi ad un mutuo soccorso, ma devono
le contribuzioni delle associate costituire un fondo da convertirsi in materia
prima.
Questa, lavorata poi dalle
associate colla massima perfezione, sarebbe esposta alla vendita con prezzi piú
rilevati dei comuni.
Ciascun membro sarebbe
retribuito dalla società secondo il suo lavoro, e dedotte le spese d'acquisto
della materia prima, si procederebbe ad epoche periodiche ad un'equa
distribuzione degli utili.
È però necessario, che
l'associazione si estenda siffattamente in ogni città e provincia che sia
impossibile al compratore il provvedersi quei dati generi altrove che nel
magazzino della società.
Senza di ciò l'emancipazione
industriale della donna operaia resta affatto raccomandata al sentimento
d'equità e di giustizia dell'uomo, e che cosa sia in diritto d'aspettarsene
ella già sa, volgendo uno sguardo sulla condizione sua in tutti i secoli.
Già lo dicemmo altrove, la
miseria nella donna suona prostituzione.
Parent-Duchâtelet attesta, che
sopra tre mila creature perdute in Parigi, 35 soltanto erano in istato di poter
nutrirsi.
La legge poi, abbandonando alla
donna tutte le conseguenze delle seduzioni, aggiunge anche il suo peso al giogo
iniquo che già le gravita addosso, ed incoraggia l'uomo, che muove talora
atroce guerra alla figlia del popolo.
Sono manufatturieri che seducono
le loro compagne d'industria, sono proprietarii e direttori di fabbrica che
minacciano il rinvio alla giovine che loro non si abbandona e che, atterrita
dal lurido spettro del digiuno, cede, ed è poi messa alla porta; sono padroni
che scacciano dalle loro case giovinette disonorate, le quali trovano poi
chiuse in faccia tutte le porte e tutti i volti atteggiati a dispregio; e
l'impossibilità di onesta sussistenza le fa pendere dubbiose e tremanti fra
l'infamia ed il suicidio.
Ed invero, privata la donna del
diritto industriale, chiusele davanti tutte le professioni, ridotta a vivere di
poche industrie di infima retribuzione, ella è completamente alla discrezione
di chi possa fornirle un po' di lavoro...
... Ha dessa la società un
bricciolo di quel sentimento d'equità e di giustizia di cui pur mena tanto
scalpore, quando, mentre propugna per l'uomo libertà, e domanda assiduamente
attività di commercio, circolazione di danaro, dilatazione del diritto, e freme
e scalpita se l'ombra sola d'un dispotismo mostra di volerlo ledere in qualche
parte, si fa poi lecito di menar colpi da orbo attraverso alla donna che, dopo
avere con ogni sacrificio ed entusiasmo favoreggiato tutte le libertà, cerca
ora la sua?
Avendo la donna al par dell'uomo
speciali attitudini, ha al par dell'uomo altresí diritto di svilupparle ed
applicarle; questo c'insegna il principio del diritto ingenito. Vi ha diritto
perché, avendo diritto al lavoro, in lei sola sta la scelta del suo lavoro; vi
ha diritto perché praticamente e realmente ella lavora e produce; e nella
industria e nel commercio, e nelle arti e nello insegnamento ella trovasi già
su larga scala, e spiega a quest'ora delle attitudini, che si avrebbe forse
avuto, non ha molto tempo, prurito di negarle. Vi ha diritto finalmente, perché
la società alla sua volta ha diritto, che la funzione venga esercitata da chi
può meglio; e però, se fra piú concorrenti, una donna mostra maggior idoneità,
ella fra tutti vi ha diritto.
La donna fu ed è sempre
considerata come fuor della legge, coll'aiuto della sua debolezza che si ha
ogni studio ed ingegno di esagerare fino al ridicolo, e coll'opportuna messa
in iscena della sua pretesa incapacità, a smentire la quale sorgono
dovunque invano splendidi fatti.
Indarno le prosperità di mille
case di commercio, di mille stabilimenti industriali attestano ed affermano i
suoi talenti finanziarii ed amministrativi.
Indarno le mille e multiformi
produzioni del suo spirito fanno fede della svegliatezza e fecondità del suo
ingegno.
Invano regine e principesse, le
cui splendide e recenti gesta non sono ad alcuno ignote, con saggio governo e
con ogni forma di politico reggimento felicitando i popoli, e prosperando le
sorti delle nazioni loro affidate, fecero e fanno fede dei talenti politici
della donna.
Indarno si odono tuttodí donne del popolo, coi loro
schietti parlari, rivelarsi calde parteggiatrici, e darci della loro politica
intelligenza una misura che non ci aspettavamo.
L'opinione, o meglio la prevenzione
pubblica, alla quale ormai non si può levar taccia di mala fede, si copre gli
occhi, si tura le orecchie e ripete imperterrita: la donna è incapace.
Ora, se si può vincere il
pregiudizio, la mala fede non si vince; ma rimarrà pur sempre vero che, essendo
il diritto politico (non mi fermerò a discutere se con torto o con
ragione) fondato sulla proprietà, ed essendo riconosciuta, affermata, e
soprattutto aggravata la proprietà femminile al par della maschile, la
donna è dalla legge una volta ancora lesa e violentata.
Non bisognava imporre alla donna
una dote per maritarsi, non bisognava obbligarla al lavoro per mantenersi, non
bisognava che ogni Adamo del secolo decimonono scaricasse addosso alla sua
rispettiva Eva metà, e talora tutto il peso della sua condanna, ed allora si
avrebbe potuto negarle la proprietà, che non può essere che prodotto del
lavoro; e con quella e con questo, a monte i diritti civili, a monte i diritti
industriali, a monte i diritti politici; e la dinastia virile sarebbe stata
felicemente regnante fino alla consumazione dei secoli.
Questa verità viddero i moderni
novatori, epperò gli amici della donna le dicono, lavora; e gli
avversari della sua redenzione si sbracciano a predicarle, ch'ella è di vetro e
che arrischia di rompersi, muovendo un dito.
Fortunatamente Proudhon, grande
nemico della libertà femminile, arrivò troppo tardi ad avvertire i suoi
compagni che il lavoro è il grande emancipatore...
... Certi spiriti piccoli, ed incapaci di elevarsi fino
agli incontrastabili principii della giustizia, sorridono di stupida sorpresa
ad ogni idea, che loro giunga d'oltre la angusta cerchia abituale delle loro
menti; ma siccome non è d'obbligo, la
Dio grazie, né la loro licenza, e tanto meno il loro
intervento per rivoluzionare cosí nell'ordine delle idee, come in quello dei
fatti; cosí, con loro buona pace, il movimento emancipatore della donna, che
ebbe ad iniziatori altissime individualità dell'uno e dell'altro sesso, non
potrà assopirsi e neppure arrestarsi, meglio di quel che si possa por argine al
torrente precipitoso ed irrompente del principio delle nazionalità.
È il logico corollario delle
nuove idee, che si son poste in circolazione negli umani cervelli; bisogna
subirlo.
D'altronde, l'uomo e la donna
non furono mai cosí perfettamente d'accordo come oggidí. Né l'uno né l'altra
credono piú a nessun diritto divino, né a nessun monarchismo che non sia voluto
dal libero suffragio dei governati.
8. Il da farsi
Poich'ebbe addimostrato che dal dovere
nasce il diritto, non essendo questo che mezzo al compimento di quello, mi
correva obbligo di parlarvi del diritto; epperò vi mostravo di volo le
condizioni della donna in faccia alle istituzioni; e come queste sue condizioni
siano tali da renderla affatto impotente al compimento di quel dovere cui è
missionata; avvegnaché io vi mostrassi la donna non solamente ne' suoi rapporti
cogli individui, ma eziandio coll'umanità; poiché, se da un lato le incombe
gravissimo compito, come sposa e come madre, non meno grave ed indeclinabile,
siccome ingenito e ad ogni altro anteriore, le impone un lavoro la qualità di
membro sociale.
Epperò questo lavoro io vi
mostravo, non manipolato da laterali interessi, non imposto da questa o da
quella volontà, non esatto da una forza qualunque soggiogabile, non manufatto
da umane organizzazioni che si arrogano diritto di distribuire funzioni, come
se quello prima avessero di distribuire attitudini; ma compito e dovere che
nasce con voi, con voi cresce e si sviluppa, che prepotentemente vi s'impone
nell'imponente e fatale linguaggio delle vostre facoltà che, assecondate, vi
conducono a benessere ed a perfettibilità; compresse vi fanno infelici o
demoralizzate.
Io vi mostravo che la negazione
del dovere è la negazione del diritto, epperò vi eccitavo a riconoscervi
quello, per poi chiedere l'affermazione di questo.
Io non dubito punto che voi
tutte, che mi leggete, abbiate ben compreso questa verità, che è la molla e la
sintesi del meccanismo sociale; epperò vedo che mi chiedete, ch'io stringa in
due parole tutto il da farsi, onde ottenere i mezzi d'azione, dappoiché vi
riconoscete il dovere di azione, spogliandovi di quella misera impronta di
servilismo e di pusillanimità, che ora deturpa il carattere femminile,
scaturita per lo appunto dalla lunga oppressione subita, e dalla incoscienza
delle legittime pretese, che ogni essere può e deve recare innanzi alla
società, e determinandovi energicamente all'esercizio della vostra attività;
laonde mi riassumo.
Lo Stato nega alla donna l'istruzione,
mentre la fa contribuente.
Il codice le nega la capacità in
faccia al diritto, mentre ne afferma la responsabilità in faccia alla
contravvenzione ed alla pena.
Lo Stato respinge la donna dalla
vita politica, mentre ve la fa concorrere coi sacrificii.
La legge subalternizza la donna
nel matrimonio e le nega la maternità legittima, mentre la chiama a parte dei
pesi domestici e le abbandona tutte le conseguenze della maternità illegale.
Piú, chiude ogni via alla sua
intelligenza e le sbarra la strada ad ogni professione, disconoscendo cosí in
lei il diritto di lavoro e d'attività.
La donna deve dunque protestare
contro la sua attuale condizione, invocare una riforma, e chiedere:
I. Che le sia
impartita un'istruzione nazionale con larghi programmi.
II. Che sia parificata agli
altri cittadini nella maggiorità.
III. Che le sia concesso il
diritto elettorale, e sia almeno elettore, se non eleggibile.
IV. Che l'equilibrio sia
ristabilito fra i coniugi.
V. Che la separazione dei beni
del matrimonio sia diritto comune.
VI. Che l'adulterio ed il
concubinato soggiacciano alle stesse prove legali ed alle stesse conseguenze.
VII. Che il marito non possa
rappresentare la moglie in nessun atto legale, senza suo esplicito mandato.
VIII. Che siano soppressi i
rapporti d'obbedienza e di protezione, siccome ingiusta l'una, illusoria
l'altra.
IX. Che nel caso che la moglie
non voglia seguire il marito, ella possa sottoporre le sue ragioni ad un
consiglio di famiglia composto d'ambo i sessi.
X. Che il marito non possa alienare
le proprie sostanze sia a titolo oneroso, sia gratuito, né obbligarle in nessun
modo, senza consenso della moglie, e reciprocamente. - Dacché il coniuge
sciupatore dev'essere mantenuto dall'altro, è ben giusto che la controlleria
sia reciproca.
XI. Che la madre sia contutrice,
secondo lo vuole diritto naturale.
XII. Che il padre morendo elegga
egli stesso un contutore, e la madre a sua volta elegga una contutrice ai suoi
figli.
XIII. Che sia ammessa la ricerca
della paternità, e soggiaccia alle prove legali, alle quali soggiace
l'adulterio.
XIV. Che si faccia piú severa la
legge sulla seduzione, e protegga la donna fino ai venticinque anni.
XV. Che sia la donna ammessa
alla tutela ed al consiglio di famiglia.
XVI. Che abbia la tutrice gli
stessi diritti del tutore; e, dove v'abbia discordia, giudichi in prima istanza
il consiglio di famiglia, quindi il tribunale pupillare.
XVII. Che siano aperte alla
donna le professioni e gl'impieghi.
XVIII. Che possa la donna
acquistare diritti di cittadinanza altrimenti che col matrimonio.
Se ho commesse qua e colà delle
limitazioni ai diritti competenti ad ogni cittadino, dichiaro esplicitamente,
che non è già perché io li sconfessi, rispettivamente alla donna.
Ho già detto, ch'io credo dovere
la donna apporre il suggello del suo genio sopra tutte le umane istituzioni,
che fin qui non si possono che abusivamente chiamar tali, opera quali sono di
una casta appartenente alla metà dell'uman genere; e non potrassi mai pensare
altrimenti, finché la specie nostra, come tutte le altre, sarà composta di due
termini.
Se m'arresto a questo punto, e
mi rassegno a queste limitazioni, gli è perché, sono queste le riforme, che
credo possibili e mature. Cosicché, pronta a rivendicare domani ogni altro
diritto quando vedessi opportuno di farlo, m'arresto in oggi dove vedo nei
pregiudizii generali, e nello spirito dei tempi ancora bambini all'attuazione
delle dottrine del diritto, segnati i confini della possibile redenzione
femminile.
Ma questo pochissimo è
necessario ed urgente.
Se le nazioni vogliono camminare
alla libertà, è d'uopo, che non si trattengano in seno, terribile ingombro e
potente avversario, un elemento impersuaso e malcontento cosí numeroso, qual è
il femminile.
Veda la donna associarsi la sua
libertà a tutte l'altre, ed allora ella profonderà tesori di devozione e
d'entusiasmo per la causa generale; ed è nella speranza e nel desiderio
vivissimo, che questa verità sia compresa dai governanti, ch'io m'accomiato da
voi, mie giovani sorelle.
Giovine io pure, sto spiando con
ansioso interesse l'apparizione d'ogni idea, che favoreggi in qualche senso la
santa causa della libertà; e spero di tornarvi a stringer la mano, per
congratularci mutuamente del progresso, che la dottrina del diritto avrà fatto
fra gli uomini, ed anzitutto del bene, che voi avrete fatto all'umanità a
giusto compenso dell'averla dessa in voi riconosciuta ed onorata.
Gli è in questa ferma fede che
depongo la penna inviando, a nome di tutto il mio sesso, un saluto di simpatia
ed un pubblico tributo di riconoscenza a tutti gl'ingegni dell'uno e dell'altro
sesso, che propugnarono la causa della redenzione femminile colla parola e col
fatto.
Onore e lode pertanto a voi,
Giuseppe Mazzini, Salvatore Morelli, Ausonio Franchi! Grazie a voi tutti,
scrittori della «Ragione» e della «Révue Philosophique»! Grazie a voi, Bazard, Enfantin, Léroux, Fourier,
Légouvé, St. Simon, e Fauvety!
Grazie a voi tutti uomini
generosi, che propugnate tutte le libertà e tutte le redenzioni, elevandovi
sopra le meschine ispirazioni degli interessi; e che colla parola, colla penna
o coll'opera, affermate i diritti della donna! Essa farà tesoro dei vostri
nomi, e li tramanderà ai suoi figli e nepoti circondati di gloria e d'onore!
Grazie e grazie vivissime a
Madama Sand, a Madama d'Héricourt, a Madama Deroin! Onore alle ceneri di Madama
Roland!
Onore a voi tutte, donne del
progresso; che, trattando con gloria le arti e la penna, affermate col fatto
l'attitudine e la capacità femminile!
Possa il vostro nobile esempio
scuotere dall'inerzia la massa neghittosa, e chiamarle sul volto il rossore
dell'aver tollerato in silenzio una sí lunga servitù.
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