Le pagine che seguono sono
tratte da un opuscolo uscito nel 1865, dopo che il progetto del nuovo Codice
Civile era stato discusso al Senato che aveva modificato in peggio gli articoli
sulla condizione delle donne nei rapporti familiari, già approvati dalla Camera
dei deputati.
Lo scritto, piú polemico del
precedente, si chiude tuttavia con parole di speranza, nate dalla fiducia in
una revisione delle norme più arcaiche.
In questi due primi lavori,
la questione femminile è vista soprattutto come un fatto di discriminazione, da
assimilarsi a quelle di tipo razzista. Va notato tra l'altro che la Mozzoni è tra i rarissimi
scrittori del tempo che denuncino a tutte lettere il permanere
dell'antisemitismo in Europa; e poiché la sua allusione all'esistenza
dell'antisemitismo nei «paesi democratici e progressisti», vale a dire in
Francia, proprio nel paese della Grande Rivoluzione, che aveva proclamato
l'emancipazione degli ebrei, precedeva di decenni l'affare Dreyfus,
probabilmente non serví che a renderla anche più incomprensibile ai democratici
contemporanei, per i quali la
Francia era un mito intoccabile.
«Si c'est là ce qu'on appelle la
famille, vaut elle bien en conscience le bruit qu'on en a fait?»
«La femme ne fait rien, parce que
l'homme fait tout.»
Girardin, Lib. d. I. Mar.
La legislazione può dessa
astrarre dai principii riconosciuti della filosofia?
Il diritto giuridico può egli
non essere che convenzionale, epperò insubordinarsi al diritto naturale?
Le leggi civili possono desse
appagarsi di tutelare più o meno la proprietà e le persone, senza sollecitarsi
del principio da cui parte l'umano consorzio e del fine a cui cammina?
Riconosciuto ed affermato un
diritto, può essa, la legge, impedirne l'esplicazione e sopprimerne
l'applicazione?
Ecco le tesi ch'io mi ponevo
discutendo le condizioni della donna in faccia al diritto, nel libro, per me
testé pubblicato, La Donna
e i suoi rapporti sociali. Ardue tesi, delle quali cercavo la soluzione in
una logica base di diritto, e la prova di essa soluzione riscontravo nelle
imperfezioni, nelle contraddizioni, nei barbarismi delle leggi esistenti.
Ma ben poco avrei giovato al mio
sesso, e non avrei che mediocrissimamente servito alla causa che propugno se,
paga di avere invocato l'attenzione dei corpi legislativi e delle genti logiche
ed oneste, sulle miserrime condizioni nelle quali è costretta la donna sotto
l'impero del codice vigente (imperfezioni sulle quali l'Italia tutta è piú o
meno d'accordo dacché se ne vuole riforma), paga, dico, di cosí poco, riposassi
fiduciosa piú che non vogliano ragione ed esperienza in una vittoria, che
numerosi interessi, diffusissimi pregiudizii e secolari abitudini concorrono a
rendere piú che mai difficile, se non impossibile.
L'affermazione dei diritti della
donna, in principio, è oggi voluta dallo spirito delle masse, e questo
principio si è già incarnato nei costumi di tutti i popoli civili. Se l'uomo
rappresenta la famiglia negli affari, la donna la rappresenta nella società.
Del resto, non un marito che prenda oggi sul serio il dominio legale sulla
persona della moglie, non un figlio che disconosca il diritto materno e non
rispetti il voler della madre, laonde nulla piú avrebbe a fare la legge, che
apporre al fatto la sua sanzione. E tanto piú dovrebbe ciò fare, in quanto che
nessun suo paragrafo, per quanto energicamente concepito, potrà mai distruggere
questo fatto, ché dovrebbe prima distruggere la ragione, il sangue, gli affetti
e l'ordine della natura.
Ma v'ha di piú; siccome la legge, nel porre i destini
della famiglia nelle mani dell'uomo e nel confidarla alla sua capacità, non gli
diede e non gli poté dar sempre questa capacità, ne segue, che non di rado la
famiglia è nelle mani della donna che l'amministra e la dirige di fatto non
solo, ma altresí di diritto, dovendo bene l'idoneo supplire l'inetto ed il
veggente guidare il cieco. Ed allora la legge deve impotente presenziare la
propria abolizione e chinarsi alla necessità.
Il diritto parziale si pone egli
stesso in tale stato d'infermità e d'impotenza, ogni qualvolta nega i principii
del diritto naturale, che non è il diritto d'un luogo, d'un popolo e d'un
tempo, ma il diritto di tutti i luoghi, di tutti i popoli, di tutti i tempi, e
questa insufficienza della legge potentemente si appalesa nella sua eterna
lotta coi costumi.
Davanti a questo fatto, che
vigorosamente mi appoggia, io non rifarò teorie di diritto, che già ho fatto di
pubblica ragione, e che parvero soddisfare al comune senso. Non è ora mio
assunto teorizzare, ma bensí porre quelle dottrine a fronte delle condizioni,
che il nuovo progetto del Codice Civile crea alla donna italiana. Ed il mio
lavoro sarà tanto piú facile, in quanto non trovomi neppure di dover cavare
induzioni e cercare interpretazioni allo spirito ed alle intenzioni della legge
attraverso succinti ed aridi paragrafi; ma si riduce la mia fatica a seguire
l'onorevole ministro Pisanelli nella sua relazione, e considerare lo
svolgimento delle sue dottrine, e le piú o meno esatte applicazioni che egli ne
propone.
Il signor ministro si fa un
dovere di motivare, discutere e dimostrare tutte le sue proposte, di antivedere
le obbiezioni che gli possono venir mosse e di prepararne la soluzione.
Egli si appella ora alla
ragione, ora al sentimento, talora all'uso e piú sovente alle tradizioni del
Diritto Romano, alle leggi napoleoniche, all'uno ed all'altro dei codici, ora
vigenti, in terra italiana. L'ecletismo del signor ministro è evidente, un'ape
non potrebbe superarlo!
Benché per natura avversa
all'ecletismo, i cui portati sono necessariamente ibridi, ed amante piuttosto dei
lucidi principii dai quali scendono le applicazioni logiche, spontanee, sicure
e tutte improntate dei caratteri originarii, vedo la necessità di rassegnarmi
al fatto, poiché non è già una nuova legislazione, ma bensí una riforma, epperò
una modificazione, che si vuole; ed eccomi ad ormeggiare gli svolgimenti delle
nuove norme civili per quanto concerne le condizioni della donna.
Non posso a meno d'applaudire al
signor ministro, e venir d'accordo con lui quando, considerando il matrimonio
come istituzione sociale, in quanto è fondamento della famiglia, epperò nido
dell'umanità, lo chiama a dipendere dallo Stato ed a ricevere da lui la legale
sanzione. Questo fatto, preparando lo Stato all'emancipazione da una religione
dominante, che è un'implicita depressione dei culti tollerati e che trae dietro
a sé privilegi per il culto dominatore, obbedisce perfettamente al principio
della libertà di coscienza, sí altamente reclamata dalla filosofia...6
... Il progetto comincia col
chiamare la madre alla tutela; dietro a lei, e per corollario logico, le
ascendenti; poi considera, che il nipotismo ha sempre giocato una gran parte
nel dramma sociale, e che ad una donna, che non ha famiglia propria, i nipoti
la costituiscono naturalmente. E va bene. Ma ad un tratto il progetto s'arresta
sullo sdrucciolo pendio, s'accorge che la tutela è un ufficio pubblico, e come
tale non conviene alla donna; e taglia netto il filo delle concessioni. Indarno
forse gli si farà osservare che la tutela è una maternità, e che per conseguenza,
pubblica o privata ch'ella sia, non v'ha funzione piú addicevole alla donna di
questa. Il progetto non risponde, ma s'è incaponito di non dare pubblica
gestione alla donna. Gettiamo dunque il guanto alla pubblicità.
Che cos'abbia di pubblico, in
atto pratico, la tutela, per vero dire non si saprebbe, dacché si esercita fra
le mura domestiche; che se il contatto con un magistrato ed un tribunale
pupillare è tutto ciò che ne costituisce la pubblicità, in tal caso possiamo
ben dire di vivere tutti pubblicamente, dacché non v'ha cittadino che per i
fatti suoi non sia esposto a simili eventualità, maschio o femmina che sia. È
così elastico questo problema che non si saprebbe posarne lucidamente gli
estremi.
Ciò che avremmo voluto dal
signor ministro si è che, in luogo di escludere la donna da un pubblico ufficio
per escluderla,7 ci avesse addimostrato e provato sopra documenti, che
cosa v'è d'incompatibile fra la donna ed un pubblico ufficio. Quando la società
impiega le braccia della donna nelle fatiche e nelle industrie se ben gli
torna, senza sollecitarsi che il suo muscolo non sia di prima forza, non vedo
ragione per cui non possa impiegar la sua testa, che non è tanto scarica quanto
si pretende.
Volgi e rivolgi questo
sillogismo, non potrà il signor ministro venirne, in ultima tappa, che a questa
conclusione, che l'uso non l'ha ancor ricevuto; ed allora gli farò risponder da
Viennet:
«L'usage est un vieux sot qui gouverne le monde.»
Il secondo titolo d'esclusione sono
le cure domestiche.8 È decisamente una disgrazia del virile criterio di
non saper togliersi dal vago, dall'incerto, dal nebuloso, dall'astratto, per
cercare le norme del proceder civile nel vero, nel determinato, nel pratico e
nel concreto. Si direbbe che il filosofo debba al par del poeta schifare certe
realtà, nelle quali si affogherebbero gli slanci fantastici.
Che cosa sono le cure
domestiche?
Sono i materiali e quotidiani
provvedimenti di materiali e quotidiani bisogni.
E i materiali e quotidiani
bisogni dell'uomo che cosa sono? Le vesti e gli alimenti. Ora analizziamo il
valore.
Tutti gli uomini riparano il
corpo e lo alimentano, ma non tutti allo stesso modo. Il povero dà al
soddisfacimento di questi bisogni pochi minuti e poche cose. I mezzi di
procurarsi questo soddisfacimento assorbono tutte le sue giornate. L'uomo e la
donna in quella classe sono strettamente parificati. Le cure domestiche non
trattengono la donna dall'essere tutto il giorno ben lungi dalla casa in un
opificio qualunque. La donna che si reputa abbastanza preoccupata dalle cure
famigliari, è già discretamente agiata.
Piú ascendiamo verso le alte
sfere sociali, piú si complicano le esigenze della vita civile, ma crescono
colle esigenze i mezzi di soddisfarle, finché giungiamo a vedere la donna
aristocratica sciupare la vita nell'inanità e nella noia, non trovando alla
naturale attività impiego possibile.
In quanto poi alla donna del
medio ceto, che risente in pari tempo e delle esigenze dell'alta classe e delle
strettezze dell'infima (ed è quella per conseguenza che serve d'archetipo a
quanti filosofi e giuristi videro incompatibilità fra le cure famigliari ed
un'altra funzione qualunque) è quella altresì il cui marito, non che avere agio
di attendere a quegli affari d'ordine civile che come a capo della società
domestica gl'incombono, è vincolato all'assiduo esercizio d'un'arte, d'una
professione, o d'una gestione, all'urgente disimpegno delle quali non può in
nessun modo anteporre i suoi privati interessi.
Sintetizzando, in tutta la scala
sociale, in regola generale, la donna è occupata al par dell'uomo, e dove no,
lo è meno; e questo è lo stato vero e concreto delle cose per chiunque degni
porvi mente, sicché l'esclusione della donna da una professione qualunque, per
riguardo alle cure domestiche, è più speciosa iperbole che non esatta
apprezziazione delle cose. E ben fu capito ciò in America ed in Inghilterra,
dove è libero alla donna, che sente avere tempo, opportunità ed attitudini, di
darsi ad equivalente funzione, senza che l'ordine sociale ne venga per nulla
affatto capovolto, né rotto fra i due sessi quell'equilibrio, del quale fu
tanto sollecito il signor Gabba, e che è un vero squilibrio per chiunque ha
fior di giustizia e capisce come i fatti strozzino dovunque, appena nati, gli
egoisti teoremi.
Abbandonandomi un momento ad una
digressione, a cui c'invita il concetto dell'onorevole ministro, non
convenire alla donna pubblico ufficio, non posso a meno d'insistere,
invece, sulla necessità di aprirle le pubbliche funzioni, negli interessi
appunto di questa creatura, della quale egli sembra tanto rispettare la
preziosa natura, e di quella famiglia per la quale tanto sollecito si mostra...
... Pretendere, come da taluni,
poco avvezzi a riflettere, si pretende, che tutta questa massa si versi sopra
le poche ed infime industrie accessibili alla donna e viva di quelle, è
pretendere l'impossibile nell'ordine materiale, l'atroce nell'ordine morale.
L'impossibile, perché dandoci le
statistiche un'egual cifra complessiva degli individui dell'uno e dell'altro
sesso, ne risulta che, se ad alimentare la massa virile sono necessarii tutti
gli impieghi, tutte le professioni, tutte le arti, tutte le industrie, come
sarà poi possibile che un'altra massa eguale possa tutta vivere di pochissime
ed infime industrie? Obbligare poi a queste infime industrie la donna di rango,
questo è ciò che chiamiamo atroce. Eppure è questa la condizione, che si stima
molto conveniente alla donna da Proudhon, da Comte, da Michelet, dal Gabba,
dall'eccelso Senato e dal ministro, i quali al coperto da siffatti crucci,
dicono alla donna ciò che quell'ingenua principessa, ignara che vi fosse una
vera povertà al mondo, diceva al mendicante che l'implorava: se non sai di
che mangiare, mangia pane e cacio.
Sí, i legislatori prenderanno
poi finalmente sul serio questo problema, che racchiude il segreto di tante
miserie e di tanti dolori! Lo scetticismo può riderne, il pregiudizio può
allarmarsene, l'egoismo può trascurarlo, ma un corpo legislativo, nella savia
provvidenza del quale riposano fiduciosi gl'interessi di tutte le classi, non
può declinarne lo studio e lo scioglimento senza tradire il proprio mandato.
Affinché però non ci si
accagioni di porre sul tappeto teoremi di non possibile attuazione e di agitare
tesi insolubili, non intendendo di recare in massima nessuna limitazione al
diritto ingenito di ciascun individuo al libero impiego della sua attività, e
senza in nulla pregiudicare all'avvenire, ci sia permesso di portare la
questione sul terreno pratico.
Quante gestioni non v'hanno nei
diversi ministeri, alle quali può la donna sobbarcarsi senza urtare di troppo
le consuetudini del paese, senza discostarsi d'assai dai principii ai quali
s'informa il progetto?
Perché non potrà l'Italia aprire
alla donna gli uffici postali e telegrafici come già fa l'Inghilterra?
Perché non potrà l'Italia
chiamare la donna all'esercizio delle professioni indipendenti, e, specialmente
della medicina, che risponde cosí bene alla sua pietosa ed intuitiva natura e
la salva dall'inquisizione virile, perpetuo oltraggio alla sua verecondia; e
perché non potrà farlo, se già si fa negli Stati Uniti?
Perché non potrà il ministero
dell'istruzione accogliere largamente la donna ne' suoi mille uffici
d'insegnamento e d'ispezione, e non lo potrà proprio in Italia, che vide in non
remota età, e sotto la retriva monarchia papale, le cattedre universitarie
coperte una dopo l'altra da donne?
Perché non potrà il ministero
dei lavori pubblici, nelle mille sedentarie occupazioni che ne dipendono, impiegare
le donne, alle quali lo Stato abbia prima provvisto il tecnico insegnamento,
come nella Inghilterra?
Perché non potrà il ministero
dell'interno aprire molti rami delle sue amministrazioni alla donna, e piú
specialmente le direzioni e le ispezioni degli spedali e degli istituti di
beneficenza, gestioni nelle quali i suoi pietosi istinti risponderebbero al
mondo della sua sollecitudine?
Perché non potrà negli uffici
ferroviari sostituirsi la donna, senza il menomo inconveniente, a certi Atlanti
dalle colossali ed atletiche forme, che con ameno contrasto distribuiscono
microscopici pezzetti di carta?
Mentre l'America, l'Inghilterra,
la Svizzera,
e fin la Prussia
e l'Austria, con rapido cammino si discostano piú sempre dalle vecchie
istituzioni, non potrà l'Italia, se non precederle, almen seguirle? Sarà ella
questa sempre la terra che, tutta legata al passato, si lascia tutta quanta
seppellire sotto la polvere dei secoli? Non si ispirerà essa mai al futuro? Non
assumerà essa mai l'iniziativa d'un progresso?...
... A dare certo compimento a
questo breve e compendioso lavoro, ci rimarebbe ad esaminare la donna in faccia
al contro-progetto del Senato. Ma lo spirito retrivo e conservatore che
l'informa è tale, che il Codice Sardo attualmente vigente vi è poco men che
esattamente ripetuto. Io non farò dunque che rimandare i miei lettori, che
volessero occuparsi di ciò, agli ultimi capitoli della recente pubblicazione La Donna e i suoi
rapporti sociali.
Saremmo ingiusti però se non
accennassimo alla sanzione del matrimonio civile dal Senato, apposta alla
proposta ministeriale. Se, come in questo, in altro ordine di cose avesse
questa rispettabile magistratura tenuto conto dei tempi che corrono, del grado
attuale di civiltà, del grande e precoce sviluppo dell'attuale generazione,
dell'indirizzo politico che il paese ha assunto, dei liberi e giovani principii
in nome dei quali è risorto e che reclamano piú libere norme di vita civile,
certo non si sarebbe mostrata cosí soprafatta dal progetto del ministro.
Fra l'Italia del secolo
decimonono e l'Italia di Giustiniano v'è l'abolizione del feudalismo, vi sono
secoli e secoli. Come va dunque che a sí enorme distanza, la voce di Cicerone e
di Triboniano suona piú alto all'orecchio dell'italico Senato che non l'opinione
pubblica, il grido della filosofia, i voti unanimi di tutto un secolo e di
tutta una nazione che gli romoreggiano intorno?
Come va che questo venerabile
consesso, già tanto benemerito al paese per senno politico e legislativo, si
volga indietro ad ogni passo a consultare l'adorato Digesto, e cento volte ed
in cento maniere ripeta affannoso all'ardito ministro, badate, che non s'è
mai fatto cosí?
Come va che la famiglia
democratica, costituita dal ministro, e che in fatto altro non è che la legale
sanzione degli odierni costumi di tutti i popoli civili, non sia per nulla di
gusto dei venerabili seniori, ai quali sorride ancor fresca e rosea, benché
vecchia aggrinzita e sdentata, la domestica monarchia romana?
Vi sono delle analogie che ci
trascinano malgrado noi, e delle quali non mancheremo di mostrarne al Senato il
pericolo. Piú d'uno esaminando la relazione senatoriale potrebbe ragionarla
cosí.
Nel suo contro-progetto il
Senato si presenta all'Italia in un atteggiamento poco dissimile da quello del papato
nella sua famosa enciclica.
Questo col suo immobilismo
peripatetico-tridentino, e quello con la sua vecchia cariatide del Diritto
Romano, che ormai i secoli dovrebbero aver rosicata, ambedue si presentano
incompatibili colle nuove condizioni d'Italia e collo spirito della sua giovane
generazione.
Il papato guarda con occhio
cupido ed increscioso al medioevo; il Senato rimpiange le despote istituzioni
del vecchio popolo-re, e sospira dolente di vederne impossibile la
ricostituzione.
L'unica differenza, che
riscontrasi fra questi due enti morali, che sono come due punti fissi nel moto
universale italiano, si è che il Senato ci dà ad intendere di riformare,
invocando le tradizioni del passato, il papato invece, piú logico assai e piú
franco, dichiara di non volersi muovere a nessun patto, non illude sé stesso e
non inganna nessuno. Che cosa rispondere a chi la ragionasse cosí?
Non possiamo però conchiudere
questo sunto senza porgere un giusto tributo di lode e d'ammirazione
all'onorevole ministro, che nella sua bellissima relazione si mostra cosí bene
all'altezza dei tempi, ed ha saputo nel suo progetto incarnare i principii
dell'epoca e le aspirazioni della parte colta e pensante della nazione. Ma
tanto piú gli porgiamo lode in quanto non ci sono ignoti i vieti e tenaci
pregiudizii della giurisprudenza colla quale dovea intendersi, e le
conservatrici e retrive tendenze del Senato al cui tribunale dovea il suo
lavoro comparire.
Egli ha capito che parlar di
riforma ed ispirarsi al passato è illogico, è assurdo, è incompatibile, epperò,
con vera sapienza, consultò il presente e l'avvenire, armonizzando le leggi
colla filosofia, coi costumi e coi bisogni.
Mentre caldamente desideriamo
che la nazionale rappresentanza applauda e sancisca il lavoro del ministro, in
vista dell'urgente bisogno in cui versa il paese di piú libere istituzioni, non
possiamo a meno di insistere a che si prendano in considerazione le tesi da noi
poste.
Ancora un passo, e l'Italia sarà
a fianco alle piú colte e piú avanzate nazioni.
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