SCENA IV.
Carizia, Don Ignazio, Don Flaminio, Polisena,
Don Rodorico, Eufranone.
Carizia. Madre, che
comandate?
Polisena. Conoscetela
ora? v'ho detto la bugia?
Don Ignazio. O
Dio, è questa l'ombra sua o qualche spirito ha preso la sua stanza?
Polisena.
Toccala e vedi si è ombra o spirito.
Don Ignazio. O
don Ignazio, sei vivo o morto? e se sei vivo, sogni o vaneggi? e se vaneggi,
per lo soverchio desiderio ti par di vederla? Io vivo e veggio e odo; ma
l'infinito contento che ho nell'alma mi accieca gli occhi, mi offusca i sensi e
mi conturba l'intelletto, ché veggiando dormo, vivendo moro, ed essendo sordo e
cieco odo e veggio. Ma se eri sepolta e morta, come or sei qui viva? o quello o
questo è sogno. E se sei viva, come posso soffrir tant'allegrezza e non morire?
O tanto desiato oggetto degli occhi miei, hai sofferte tante ingiurie insin
alla morte, insin alla sepoltura; e or volevi finir la vita in un monastero!
Carizia. Veramente
avea cosí deliberato per non aver a trattar piú con uomo, poiché era stata
ingiuriata e rifiutata dal primo a cui avea dato le premizie de' mia amori e i
primi fiori d'ogni mio amoroso pensiero.
Don Ignazio.
Deh! signora della mia vita, poiché sei mia, fammi degno che ti tocchi; e no
potendoti ponere dentro il cuore, almeno che ti ponga in queste braccia. Io pur
ti tocco e stringo; donque io son vivo. Ma oimè, che per lo smisurato contento
par che sia per isvenirmi! i spiriti del core, sciolti dal corpo per i meati
troppo aperti per lo caldo dell'allegrezza, par che se ne volino via, e l'anima
abbandonata non può soffrir il corpo, e il corpo afflitto non può sostener
l'anima: mi sento presso al morire. Ma come posso morire se tengo abbracciata
la vita? O cara vita mia, quanto sei stata pianta da me, dal tuo padre,
fratello e zio mio, e da tutto Salerno!
Carizia. Donque mi
spiace che viva sia, essendo onorate le mie essequie da persone di tanto conto.
Don Ignazio.
Ecco, o vita mia, hai reso il cor al corpo, lo spirito all'anima, la luce agli
occhi e il vigore alle membra.
Don Flaminio.
Ecco, o signora, l'infelicissimo vostro innamorato gettato innanzi a' vostri
piedi, quale, spinto da un ardentissimo amore e gelosia, con falsa illusione
per ingannar il fratello, ha offeso ancor voi. E arei offeso e tradito anche
mio padre e zio e tutto il parentado insiememente per possedervi, tanto è la
vostra bellezza e pregio delle dignissime vostre qualitadi, degne d'essere
invidiate da tutte le donne; ma il disegno sortí contrario fine. Ma chi può
contrastar con gli inevitabili accidenti della fortuna? Vi prego a perdonarmi
con quella generositá d'animo, eguale all'alte sue virtú, offerendomi in
ricompensa, mentre serò vivo, servir voi e il vostro meritevolissimo sposo.
Carizia. Signor don
Flaminio, a me i travagli non mi son stati punto discari, perché da quelli è
stato cimentato l'onore e la mia vita. Questo sí m'ha dispiaciuto: che la mia infelice
bellezza, che che ella si sia, abbi data occasione di turbar un'amorevolissima
fratellanza di duo valorosi cavalieri.
Don Flaminio.
Generosissimo mio fratello, le mie pazzie vi hanno aperto un largo campo di
esercitar la vostra virtute. Io non ardirei cercarvi perdono se Amore e la
disgrazia non me ne facessero degno, la quale, quando viene, viene talmente che
l'uomo non può ripararla. Essendo tolta la cagione, si devono spengere gli odii
ancora; e poiché sète gionto a quel segno dove aspiravano tutte le vostre
speranze e possedete giá il caro e glorioso pregio delle vostre fatiche,
pregovi a perdonar le mie inperfezioni e smenticarle, e ricevermi in quel grado
di servitú e amore nel quale prima mi avevate, restando io con perpetuo obligo
di pregar Iddio che con la vostra desiata sposa in lunga e felicissima vita vi
conservi.
Don Ignazio.
Caro mio don Flaminio, se è disdicevole a tutti tener memoria dell'ingiurie,
quanto si denno in minor stima aver quelle che accaggiono tra fratelli? e poi
per liti amorose? E questo ch'avete voi fatto a me, l'avrei io fatto a voi
parimente. Mi sète or cosí caro e amorevole piú che mai foste, e in fede del
vero io vengo ad abbracciarvi.
Don Flaminio.
Abbattuto dalla propria conscienza e confuso da tanta cortesia, io non so che
respondervi né basta ad esprimere il mio obligo: arò particolar memoria della
grazia ch'or mi fate.
Eufranone. Ed
io, soprapreso da diversi effetti, non so qual io mi sia: allegro dell'amorevol
fratellanza, ripieno d'ineffabil meraviglia della prudenza di mia moglie,
allegro della figlia risuscitata, confuso e pieno di vergogna veggendomi
dinanzi a quella che ho ingiuriata a torto con la lingua e uccisa con le mie
mani. Però, figlia, perdona a tuo padre, il quale falsamente informato ha
cercato d'offenderti; e ti giuro che io ho sentito la penitenza del mio peccato
senza che voi me l'avesti data. Vieni e abbraccia il tuo non occisore ma
carissimo padre!
Carizia. Ancorché
m'aveste uccisa, o padre, non mi areste fatto ingiuria: la vita che voi m'avete
data la potevate repetere quando vi piacea. Mi è sí ben ora di somma
sodisfazione che siate chiaro che non ho peccato; questo sí mi è di contento:
che la mia morte v'ha fatto fede dell'innocenza mia.
Eufranone. La
tua bontá, o figlia, ha commosso Iddio ad aiutarti: egli ne' secreti del tuo
fato aveva ordinato che per te ogni cosa si fusse pacificato; e perciò di tutto
si ringrazi Iddio che ha fatto che le disaventure diventino venture e le pene
allegrezze.
Don Rodorico.
Veramente mi son assai maravigliato, essendo spettatore d'un crudel
abbattimento di dui per altro valorosi e degni cavalieri; ma or che veggio
tanta bellezza in Carizia - e cosí ancor stimo la sorella, - gli escuso e non
gl'incolpo, e giudico che l'immenso Iddio governi queste cose con secreta e
certa legge de fati, e che molto prima abbi ordinato che succedano questi gravi
disordini, accioché cosí degna coppia di sorelle si accoppino con sí degno paro
di fratelli, che par l'abbi fatti nascere per congiungerli insieme. E come il
mio sangue onorerá voi, cosí dal vostro il mio prenderá splendore e onore. E
giá veggio scolpite nelle lor fronti una lunga descendenza di figliuoli e
nepoti che mi nasceranno dalla mia indarno sperata successione, per non esservi
altro germe nel nostro sangue. E perché queste gentildonne mancano di doti, io
li faccio un donativo degno dell'amore e generositá loro, di ventimila ducati
per una; dopo la mia morte a succedere non solo alla ereditá ma nell'amore: e
se agli altri si dánno per usanza, vo' donarli a voi per premio. E per segno
d'amore vuo' abbracciarvi: il sangue mi sforza a far l'offizio suo.
Carizia. E noi
saremo perpetue serve e conservatrici della vostra salute.
Eufranone. E
noi quando di tanta largitá vi renderemo grazie condegne?
Don Ignazio.
Carissimo padre e nostro zio, vi abbiamo tal obligo che la lingua non sa trovar
parole per ringraziarvi.
Don Rodorico. Or,
poiché tutti i travagli han sortito sí lieto fine, ordinisi un banchetto reale
per le nozze e corte bandita per dieci giorni per tutt'i gentiluomini e
gentildonne di questa cittá, acciò un publico dolore si converti in una publica
allegrezza. E perché non vi sia cosa melancolica in Salerno, si scarcerino
tutti i prigioni per debito e si paghino del mio, e si facci grazia a tutti
quei che han remissioni delle parti. E per voi, Eufranone caro, scriverò e
supplicherò Sua Maestá che vi si restituisca quello che ingiustissimamente vi è
stato tolto.
Don Flaminio.
Poiché a tutti si fa grazia, sará anco giusto che l'abbi Leccardo il parasito.
Don Rodorico.
Olá! ordinate che Leccardo sia libero. Ma mi par oggimai tempo che questi
felici sposi e amanti dopo tanti travagli colgano il desiato frutto degli
disperati loro amori. Entriamo.
Don Flaminio. Ma
ecco Panimbolo.
SCENA V.
Panimbolo, Don Flaminio, Leccardo.
Panimbolo.
Padrone, che allegrezza è la vostra?
Don Flaminio. È
tanta che non basto dirla. Panimbolo, la fortuna secondo il suo costume
tutt'oggi ha scherzato con noi valendosi della varietá de' casi; e all'ultimo
Iddio ha essauditi i nostri desiri. Rallegrati, ché la poco dinanzi infelice
miseria mia or sia ridotta in tanta felicitá.
Panimbolo.
Stimo che di questo giorno vi ricorderete ogni giorno che viverete.
Don Flaminio. Oh
dolcezza infinita degli innamorati, quando, dopo i casi di tanti infortuni,
fortunatamente li è concesso di giunger a quel desiato segno che bersagliò da
principio! Oh come ottimamente dissero i savi: che Amor alberga sovra un gran
monte dove solo per miserabili fatiche e discoscese balze si perviene, volendo
inferir che negli amori gran pene e amaritudini si soffriscono, ma quelle pene
son condimento delle loro dolcezze! - Ma ecco Leccardo.
Leccardo. Io
ho avuto tanta paura d'esser appiccato che la gola si è chiusa da se stessa
senza capestro, e mi ha data la stretta piú de mille volte e senza morir mi ha
fatto patir mille morti; e ancora che io abbi avuto grazia della vita, per ciò
non sento allargar il cappio e sono appicato senza essere stato appiccato.
Adio, cavaliero! oh come presto m'era riuscito il pronostico che mi feci questa
mattina! Ma per prender un poco di fiato, bisogna almeno bermi un barril di
greco e quattro piatti di maccheroni; se non, che or mi mangerò voi vivo e
crudo.
Don Flaminio. Or
non si parli piú di scontentezza, poiché la fortuna dal colmo delle miserie mi
ha posto nel colmo di tutte le sue felicitá. Starai meco tutto il tempo della
tua vita, e comune sará la tavola, le robbe, le facultadi e le fortune.
Licenzia costoro che son stati a disaggio ascoltando le nostre istorie, e vieni
a prender possesso della mia tavola.
Leccardo.
Spettatori, ho la gola tanto stretta che non posso parlare. Andate in pace e
fate segno d'allegrezza.
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