SCENA IV.
Martebellonio capitano, Leccardo.
Martebellonio. Buon pro ti faccia, Leccardo mio!
Leccardo. Che
pro mi vol far quello che non ho mangiato ancora?
Martebellonio. So che la mattina non ti fai coglier fuori di casa digiuno.
Leccardo. E
che ho mangiato altro che un capon freddo, un pastone, una suppa alla franzese,
un petto di vitella allesso, e bevuto cosí alto alto diece voltarelle?
Martebellonio. Ecco, non ti ho detto invano il «buon pro ti faccia».
Leccardo.
Quelle cose son digeste giá e fatto sangue nelle vene; ma lo stomaco mi sta
vòto come un tamburro. Ma voi adesso vi dovete alzar da letto e far castelli in
aria, eh?
Martebellonio. Ho tardato un pochetto, ché ho atteso a certi dispacci.
Leccardo. Per
chi?
Martebellonio. Per Marte l'uno e l'altro per Bellona.
Leccardo. Chi
è questo Marte? chi è questa Bellona?
Martebellonio. Oh, tu sei un bel pezzo d'asino!
Leccardo. Di
Tunisi ancora.
Martebellonio. Non sai tu che Marte è dio del quinto cielo, il dio dell'armi? e
Bellona delle battaglie?
Leccardo. Che
avete a far con loro?
Martebellonio. Non sai che son suo figlio e son lor luogotenente dell'armi e
delle battaglie in terra, com'eglino tengono il possesso dell'armi nel cielo? però
il mio nome è di «Marte-bellonio».
Leccardo. E
per chi gli mandate il dispaccio?
Martebellonio. Per un mozzo di camera.
Leccardo.
Come? gli attaccate l'ale dietro per farlo volar nel cielo?
Martebellonio. L'attacco le lettere al collo con un sacchetto di pane che basti
per quindici giorni, poi lo piglio per lo piede e me lo giro tre volte per la
testa e l'arrandello nel cielo. Marte, che sta aspettando, come il vede, il
prende e ferma; si non, che ne salirebbe sin alla sfera stellata.
Leccardo. A
che effetto quel sacco di pane?
Martebellonio. Ché non si muoia di fame per la via. - Marte, avendo inteso gli
avisi, spedisce le provisioni e lo manda giú. Come il veggio cader dal cielo
come una nubbe, vengo in piazza e lo ricevo nella palma; ché si desse in terra,
se ne andrebbe fin al centro del mondo.
Leccardo. Che
bevea? il mangiar il pane solo l'ingozzava e potea affogarsi. O si morí di
sete?
Martebellonio. Bevé un canchero che ti mangia!
Leccardo. Oh
s'è bella questa, degna di un par vostro!
Martebellonio. Ti vo' raccontar la battaglia ch'ebbi con la Morte.
Leccardo. Non
saria meglio che andassimo a bere due voltarelle per aver piú forza, io di
ascoltare e voi di narrare?
Martebellonio. Il ber ti apportarebbe sonno, ed io non te la ridirei se mi
donassi un regno. I miei fatti son morti nella mia lingua, ma per lor stessi
sono illustri e famosi e si raccontano per istorie. - Sappi che la Morte prima era viva ed era
suo ufficio ammazzar le genti con la falce. Ritrovandomi in Mauritania, stava
alle strette con Atlante, il qual per esser oppresso dal peso del mondo era
maltrattato da lei. Io, che non posso soffrir vantaggi, li toglio il mondo da
sopra le spalle e me lo pongo su le mie....
Leccardo.
(Sará piú bella della prima!). Ditemi, quel gran peso del mondo come lo
soffrivano le vostre spalle?
Martebellonio. Appena mi bastava a grattar la rogna. -... Al fin, lo posi sovra
questi tre diti e lo sostenni come un melone....
Leccardo.
Quando voi sostenevate il mondo, dove stavate, fuori o dentro del mondo?
Martebellonio. Dentro il mondo.
Leccardo. E
se stavate di dentro, come lo tenevate di fuori?
Martebellonio. Volsi dir: di fuori.
Leccardo. E
se stavate di fuori, eravate in un altro mondo e non in questo.
Martebellonio. O sciagurato, io stava dove stava Atlante quando anch'egli
teneva il mondo.
Leccardo. Ben
bene, seguite l'abbattimento.
Martebellonio.... Mona viva, sentendosi offesa ch'avessi dato aiuto al suo
nemico, mi mirava in cagnesco con un aspetto assai torbido e aspro, e con
ischernevoli parole mi beffeggiava. La disfido ad uccidersi meco: accettò
l'invito, e perché avea l'elezion dell'armi, se volse giocar la vita al
ballonetto....
Leccardo.
Perché non con la falce?
Martebellonio. Ché ben sapea la virtú della mia dorindana. -... Constituimmo per
lo steccato tutto il mondo: ella n'andò in oriente, io in occidente....
Leccardo. Voi
elegeste il peggior luogo, perché il sole vi feriva negli occhi; e poi quello
occidente porta seco malaugurio: che dovevate esser ucciso.
Martebellonio. L'arte tua è della cucina e appena t'intendi se la carne è ben
allessa. Che téma ho io del sole? con una cèra torta lo fo nascondere coperto
d'una nube. Poi «uccidente» è quello che uccide: io avea da esser l'uccidente,
ella l'uccisa.
Leccardo.
Seguite.
Martebellonio.... Il ballonetto era la montagna di Mauritania. A me toccò il
primo colpo; percossi quella montagna cosí furiosamente, che andò tanto alto
che giunse al cielo di Marte, e non la fece calar giú in terra per segno del
valor del suo figlio....
Leccardo. Cosí
privasti il mondo di quella montagna. Ma quella che ci è adesso, che montagna
è?
Martebellonio. Oh, sei fastidioso! ascolta se vòi, se non, va' e t'appicca.
Leccardo.
Ascolterò.
Martebellonio.... Ella dicea aver vinto il gioco, perché era imboccato il ballonetto:
la presi per la gola con duo diti e l'uccisi come una quaglia, talché non è piú
viva ed io son rimasto nel suo ufficio. - Ma scostati da me, ch'or che mi sento
imbizzarrito, che non ti strozzi.
Leccardo.
Oimè, che occhi stralucenti!
Martebellonio. Guardati che qualche fulmine non m'esca dagli occhi e ti brusci
vivo.
Leccardo.
Tutta l'istoria è andata bene; ma ve sète smenticato che non fu ballonetto ma
ballon grande, e tanto grande che non si basta a ingiottire. Ma io ti vo'
narrar una battaglia ch'ebbi con la
Fame.
Martebellonio. Che battaglie, miserello?
Leccardo. La Fame era una persona viva,
macra, sottile, ch'appena avea l'ossa e la pelle; e soleva andar in compagnia
con la Carestia,
con la Peste e
con la Guerra,
ché n'uccideva piú ella che non le spade. Ci disfidammo insieme: lo steccato fu
un lago di brodo grasso dove notavano caponi, polli, porchette, vitelle e buoi
intieri intieri; qui ci tuffammo a combattere con i denti. Prima ch'ella si
mangiasse un vitello, io ne tracannai duo buoi e tutte le restanti robbe; e
perché ancora m'avanzava appetito e non avea che mangiare, mi mangiai lei: cosí
non fu piú la Fame
al mondo, ed io sono suo luogotenente e ho due fami in corpo, la sua e la mia.
Ma prima andiamo a mangiare; se non, che mi mangiarò te intiero intiero: Dio ti
scampi dalla mia bocca!
Martebellonio. Tu sei un gran bugiardo!
Leccardo. Voi
sète maggior di me: son un vostro minimo!
Martebellonio. Dimmi un poco, quanto tempo è che Calidora non t'ha parlato di
me?
Leccardo.
Ogni ora che mi vede; e quando passegiate cosí altiero dinanzi le sue fenestre,
spasima per il fatto vostro.
Martebellonio. Io so molto ben che la poverella si deve strugger per me, ché
n'ho fatto strugger dell'altre. Ma io vorrei venir presto alle strette.
Leccardo.
Ella desia che fusse stato; e se voi mi pascete ben questa sera, io vi recarò
buone novelle e vi do la mia fede.
Martebellonio. Guardati, non mi toccar la mano, ché se venisse, stringendo te
ne farei polvere, ché stringe piú d'una tanaglia.
Leccardo.
Cancaro! bisogna star in cervello con voi!
Martebellonio. Quando mi porterai nuova che vada a giacer con lei, ti farò un
pasto da re.
Leccardo.
(Prima sarò morto che sia pesta la pasta per questo pasto!).
Martebellonio. Io ti farei mangiar meco; ma perché oggi è martedí, in onor del
dio Marte non mangio altro che una insalatuccia di punte di pugnali, quattro
ballotte di archibuggio in cambio d'ulive, due balle d'artigliaria in pezzi con
la salsa, un piatto di gelatina di orecchie, nasi e labra di capitani e colonelli,
spolverizzati sopra di limatura di ferro come caso grattuggiato.
Leccardo. Che
sète struzzo che digerite quel ferro?
Martebellonio. Lo digerisco, e diventa acciaio.
Leccardo.
Dovete tener l'appalto con i ferrari dell'acciaio che cacate.
Martebellonio. Andrò a consultar un duello e tornando mangiaremo: cosí ad un
tempo sodisfarò alla mia fama e alla tua fame.
Leccardo. Giá
si è partito il pecorone: se non fusse che alcuna volta mi fa far certe
corpacciate stravaganti in casa sua, non potrei soffrir le sue bugie. Mangia la
carne mezza cruda e sanguigna: e dice che cosí mangiano i giganti, e che vuole
assuefarsi a mangiar carne umana e bersi il sangue de' suoi nemici. Non arò
contento se non gli fo qualche burla. Andrò in casa di don Flaminio che deve
aspettarmi.
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