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Giambattista Della Porta
Gli duoi fratelli rivali

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  • ATTO I.
    • SCENA IV.   Martebellonio capitano, Leccardo.
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SCENA IV.

 

Martebellonio capitano, Leccardo.

 

Martebellonio. Buon pro ti faccia, Leccardo mio!

Leccardo. Che pro mi vol far quello che non ho mangiato ancora?

Martebellonio. So che la mattina non ti fai coglier fuori di casa digiuno.

Leccardo. E che ho mangiato altro che un capon freddo, un pastone, una suppa alla franzese, un petto di vitella allesso, e bevuto cosí alto alto diece voltarelle?

Martebellonio. Ecco, non ti ho detto invano il «buon pro ti faccia».

Leccardo. Quelle cose son digeste giá e fatto sangue nelle vene; ma lo stomaco mi sta vòto come un tamburro. Ma voi adesso vi dovete alzar da letto e far castelli in aria, eh?

Martebellonio. Ho tardato un pochetto, ché ho atteso a certi dispacci.

Leccardo. Per chi?

Martebellonio. Per Marte l'uno e l'altro per Bellona.

Leccardo. Chi è questo Marte? chi è questa Bellona?

Martebellonio. Oh, tu sei un bel pezzo d'asino!

Leccardo. Di Tunisi ancora.

Martebellonio. Non sai tu che Marte è dio del quinto cielo, il dio dell'armi? e Bellona delle battaglie?

Leccardo. Che avete a far con loro?

Martebellonio. Non sai che son suo figlio e son lor luogotenente dell'armi e delle battaglie in terra, com'eglino tengono il possesso dell'armi nel cielo? però il mio nome è di «Marte-bellonio».

Leccardo. E per chi gli mandate il dispaccio?

Martebellonio. Per un mozzo di camera.

Leccardo. Come? gli attaccate l'ale dietro per farlo volar nel cielo?

Martebellonio. L'attacco le lettere al collo con un sacchetto di pane che basti per quindici giorni, poi lo piglio per lo piede e me lo giro tre volte per la testa e l'arrandello nel cielo. Marte, che sta aspettando, come il vede, il prende e ferma; si non, che ne salirebbe sin alla sfera stellata.

Leccardo. A che effetto quel sacco di pane?

Martebellonio. Ché non si muoia di fame per la via. - Marte, avendo inteso gli avisi, spedisce le provisioni e lo manda giú. Come il veggio cader dal cielo come una nubbe, vengo in piazza e lo ricevo nella palma; ché si desse in terra, se ne andrebbe fin al centro del mondo.

Leccardo. Che bevea? il mangiar il pane solo l'ingozzava e potea affogarsi. O si morí di sete?

Martebellonio. Bevé un canchero che ti mangia!

Leccardo. Oh s'è bella questa, degna di un par vostro!

Martebellonio. Ti vo' raccontar la battaglia ch'ebbi con la Morte.

Leccardo. Non saria meglio che andassimo a bere due voltarelle per aver piú forza, io di ascoltare e voi di narrare?

Martebellonio. Il ber ti apportarebbe sonno, ed io non te la ridirei se mi donassi un regno. I miei fatti son morti nella mia lingua, ma per lor stessi sono illustri e famosi e si raccontano per istorie. - Sappi che la Morte prima era viva ed era suo ufficio ammazzar le genti con la falce. Ritrovandomi in Mauritania, stava alle strette con Atlante, il qual per esser oppresso dal peso del mondo era maltrattato da lei. Io, che non posso soffrir vantaggi, li toglio il mondo da sopra le spalle e me lo pongo su le mie....

Leccardo. (Sará piú bella della prima!). Ditemi, quel gran peso del mondo come lo soffrivano le vostre spalle?

Martebellonio. Appena mi bastava a grattar la rogna. -... Al fin, lo posi sovra questi tre diti e lo sostenni come un melone....

Leccardo. Quando voi sostenevate il mondo, dove stavate, fuori o dentro del mondo?

Martebellonio. Dentro il mondo.

Leccardo. E se stavate di dentro, come lo tenevate di fuori?

Martebellonio. Volsi dir: di fuori.

Leccardo. E se stavate di fuori, eravate in un altro mondo e non in questo.

Martebellonio. O sciagurato, io stava dove stava Atlante quando anch'egli teneva il mondo.

Leccardo. Ben bene, seguite l'abbattimento.

Martebellonio.... Mona viva, sentendosi offesa ch'avessi dato aiuto al suo nemico, mi mirava in cagnesco con un aspetto assai torbido e aspro, e con ischernevoli parole mi beffeggiava. La disfido ad uccidersi meco: accettò l'invito, e perché avea l'elezion dell'armi, se volse giocar la vita al ballonetto....

Leccardo. Perché non con la falce?

Martebellonio. Ché ben sapea la virtú della mia dorindana. -... Constituimmo per lo steccato tutto il mondo: ella n'andò in oriente, io in occidente....

Leccardo. Voi elegeste il peggior luogo, perché il sole vi feriva negli occhi; e poi quello occidente porta seco malaugurio: che dovevate esser ucciso.

Martebellonio. L'arte tua è della cucina e appena t'intendi se la carne è ben allessa. Che téma ho io del sole? con una cèra torta lo fo nascondere coperto d'una nube. Poi «uccidente» è quello che uccide: io avea da esser l'uccidente, ella l'uccisa.

Leccardo. Seguite.

Martebellonio.... Il ballonetto era la montagna di Mauritania. A me toccò il primo colpo; percossi quella montagna cosí furiosamente, che andò tanto alto che giunse al cielo di Marte, e non la fece calar giú in terra per segno del valor del suo figlio....

Leccardo. Cosí privasti il mondo di quella montagna. Ma quella che ci è adesso, che montagna è?

Martebellonio. Oh, sei fastidioso! ascolta se vòi, se non, va' e t'appicca.

Leccardo. Ascolterò.

Martebellonio.... Ella dicea aver vinto il gioco, perché era imboccato il ballonetto: la presi per la gola con duo diti e l'uccisi come una quaglia, talché non è piú viva ed io son rimasto nel suo ufficio. - Ma scostati da me, ch'or che mi sento imbizzarrito, che non ti strozzi.

Leccardo. Oimè, che occhi stralucenti!

Martebellonio. Guardati che qualche fulmine non m'esca dagli occhi e ti brusci vivo.

Leccardo. Tutta l'istoria è andata bene; ma ve sète smenticato che non fu ballonetto ma ballon grande, e tanto grande che non si basta a ingiottire. Ma io ti vo' narrar una battaglia ch'ebbi con la Fame.

Martebellonio. Che battaglie, miserello?

Leccardo. La Fame era una persona viva, macra, sottile, ch'appena avea l'ossa e la pelle; e soleva andar in compagnia con la Carestia, con la Peste e con la Guerra, ché n'uccideva piú ella che non le spade. Ci disfidammo insieme: lo steccato fu un lago di brodo grasso dove notavano caponi, polli, porchette, vitelle e buoi intieri intieri; qui ci tuffammo a combattere con i denti. Prima ch'ella si mangiasse un vitello, io ne tracannai duo buoi e tutte le restanti robbe; e perché ancora m'avanzava appetito e non avea che mangiare, mi mangiai lei: cosí non fu piú la Fame al mondo, ed io sono suo luogotenente e ho due fami in corpo, la sua e la mia. Ma prima andiamo a mangiare; se non, che mi mangiarò te intiero intiero: Dio ti scampi dalla mia bocca!

Martebellonio. Tu sei un gran bugiardo!

Leccardo. Voi sète maggior di me: son un vostro minimo!

Martebellonio. Dimmi un poco, quanto tempo è che Calidora non t'ha parlato di me?

Leccardo. Ogni ora che mi vede; e quando passegiate cosí altiero dinanzi le sue fenestre, spasima per il fatto vostro.

Martebellonio. Io so molto ben che la poverella si deve strugger per me, ché n'ho fatto strugger dell'altre. Ma io vorrei venir presto alle strette.

Leccardo. Ella desia che fusse stato; e se voi mi pascete ben questa sera, io vi recarò buone novelle e vi do la mia fede.

Martebellonio. Guardati, non mi toccar la mano, ché se venisse, stringendo te ne farei polvere, ché stringe piú d'una tanaglia.

Leccardo. Cancaro! bisogna star in cervello con voi!

Martebellonio. Quando mi porterai nuova che vada a giacer con lei, ti farò un pasto da re.

Leccardo. (Prima sarò morto che sia pesta la pasta per questo pasto!).

Martebellonio. Io ti farei mangiar meco; ma perché oggi è martedí, in onor del dio Marte non mangio altro che una insalatuccia di punte di pugnali, quattro ballotte di archibuggio in cambio d'ulive, due balle d'artigliaria in pezzi con la salsa, un piatto di gelatina di orecchie, nasi e labra di capitani e colonelli, spolverizzati sopra di limatura di ferro come caso grattuggiato.

Leccardo. Che sète struzzo che digerite quel ferro?

Martebellonio. Lo digerisco, e diventa acciaio.

Leccardo. Dovete tener l'appalto con i ferrari dell'acciaio che cacate.

Martebellonio. Andrò a consultar un duello e tornando mangiaremo: cosí ad un tempo sodisfarò alla mia fama e alla tua fame.

Leccardo. Giá si è partito il pecorone: se non fusse che alcuna volta mi fa far certe corpacciate stravaganti in casa sua, non potrei soffrir le sue bugie. Mangia la carne mezza cruda e sanguigna: e dice che cosí mangiano i giganti, e che vuole assuefarsi a mangiar carne umana e bersi il sangue de' suoi nemici. Non arò contento se non gli fo qualche burla. Andrò in casa di don Flaminio che deve aspettarmi.


 

 

 




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