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Giambattista Della Porta
Gli duoi fratelli rivali

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  • ATTO III.
    • SCENA IV.   Chiaretta fantesca, Leccardo.
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SCENA IV.

 

Chiaretta fantesca, Leccardo.

 

Chiaretta. Ho tanta allegrezza che Carizia, la mia padrona, sia maritata che pare ch'ancora io sia a parte delle sue dolcezze.

Leccardo. Maggior dolcezza aresti, se gustassi quello che gustará ella quando staranno abbracciati insieme.

Chiaretta. E se fusse a quei piaceri, ne gusterei ancor io com'ella: che pensi che non sia di carne e d'ossa come lei? o le membra mie non siano fatte come le sue?

Leccardo. Ci è qua uomo che ti fará gustare le medesime dolcezze.

Chiaretta. Sei tu forsi quello?

Leccardo. Cosí Dio m'aiuti!

Chiaretta. Tengo per fermo che non ti aiuteria, ché tu hai piú a caro un bicchier di vino che quante donne son al mondo.

Leccardo. Dici il vero, ma tu sei tanto graziosa che faresti innamorar i sassi.

Chiaretta. S'io facessi innamorar i sassi, starei sicura che farei innamorar te che sei peggio d'un sasso.

Leccardo. Son risoluto esser tuo innamorato.

Chiaretta. Che ti ho ciera di vitella o di porca, che ti vòi innamorar di me?

Leccardo. T'apponesti. Hai certi labruzzi scarlatini come un prosciutto, una bocchina uscita in fuori com'un porchetto, gli occhi lucenti come una capra, le poppe grassette come una vitella, le groppe grosse e ritonde come un cappone impastato: in somma non hai cosa che non mi muova l'appetito; ebbe torto la natura non farti una capra.

Chiaretta. E tu che vòi esser mio marito, un becco.

Leccardo. E quando starò abbracciato con te, mi parrá di gustare il sapor di tutti quest'animali, o mia vacca, o mio porchetto, o mia agnella, o mia capra!

Chiaretta. Starò dunque mal appresso te, che non mi mangi. Ma arei caro darti martello.

Leccardo. Sei piú atta a riceverlo che a darlo. - Oh come par bella Carizia or che pompeggia fra quelle vesti.

Chiaretta. Altro che tovaglia bianca ci vuol a tavola, altro che vesti ci vuole a far bella una donna: gli innamorati non amano le vesti ma quello che sta sotto le vesti. Bisogna aver buone carni, sode, grasse e lisce, come abbiamo noi fantesche che sempre fatichiamo; le gentildonne, che sempre stanno a spasso, l'hanno cosí flaccide e molli che paiono vessiche sgonfiate.

Leccardo. Mi piace quanto dici.

Chiaretta. E le lor facce son tanto imbellettate che paiono maschere; e portano tal volta sul volto una bottega intiera di biacche, di solimati, di litargiri, di verzini e altre porcherie. Oibò, se le vedessi la mattina quando s'alzano da letto, diresti altrimente. Ma noi misere e poverelle abbiamo carestia d'acqua per lavarci la faccia: triste noi se non ci aiutasse la natura!

Leccardo. Veramente come una donna si parte da un buon naturale e il piglia artificiale, non può parer bella. Ma tu m'hai fatto risentir tutto: ti vorrei cercare un piacere.

Chiaretta. Che piacere?

Leccardo. Che mi presti una cosa.

Chiaretta. Che cosa?

Leccardo. Per un'ora, anzi mezza, anzi per un quarto; e te la ritorno come me la prestasti.

Chiaretta. Dimmi, che vorresti?

Leccardo. Vorrei....

Chiaretta. Che vorresti?

Leccardo. Dubito non me la presterai.

Chiaretta. Ti presterò quanto ho per un'ora, per un quarto, per quanto tu vuoi: a me piú tosto manca l'occasione che la voluntá di far piacere; e se non basta in presto, te la dono.

Leccardo. So che sei d'una naturaccia larga e liberale, che ciò che ti è cercato in presto tu doni.

Chiaretta. Su, di' presto, che vuoi?

Leccardo. Che mi presti la....

Chiaretta. La che?

Leccardo. La..., mi vergogno di dire.

Chiaretta. Se ti vergogni dirmelo di giorno e in piazza, dimmelo all'oscuro in casa.

Leccardo. Vorrei che mi prestassi la gonna di Carizia.

Chiaretta. Il malan che Dio ti dia! non vòi altro di questo?

Leccardo. E che pensavi? qualche cosa trista?

Chiaretta. Che vuoi farne?

Leccardo. Vestirla a te. E alcuna di quelle cose che l'ha mandato don Ignazio, o di quelle che portò quel giorno della festa; ché s'ella si vuole sposar dimani, noi ci sposaremo questa notte. Tu sarai Carizia, io don Ignazio.

Chiaretta. Tu mi burli.

Leccardo. Se ti burlo, facci Dio che mai gusti vino che mi piaccia!

Chiaretta. A questo giuramento ti credo. A che ora?

Leccardo. Alle due, in questa casetta terrena.

Chiaretta. Perché non in casa nostra?

Leccardo. Ché facendo romore non siamo sconci: ne parlaremo piú a lungo in casa.

Chiaretta. Bene.

Leccardo. Non mancarmi della tua promessa.

Chiaretta. Né tu della tua.

 

 

 




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