SCENA V.
Leccardo, Don Flaminio, Panimbolo.
Leccardo. (Se
mi fussero stati posti innanzi galli d'India cotti senza esser impillottati,
caponi duri, brodo macro e freddo, non arei potuto aver maggior dispetto di
quel che ho avuto quando viddi morta Carizia. Oh come intesi darmi colpi
mortali allo stomaco e alla gola! Veggio don Flaminio molto gioioso; ma diverrá
subbito doglioso come saprá quanto sia per dirgli).
Don Flaminio.
Leccardo mio, i segni di mestizia che porti scolpiti nel fronte mi dán segno
d'infelice novella: parla con la possibil brevitá. Oimè, tu taci e par che col
tuo silenzio vogli significar qualche sinistro accidente!
Leccardo.
(Desia saper quello che li dispiacerá d'averlo saputo; ma va' meno amareggiarlo
al possibile).
Don Flaminio.
Deh, comincia presto!
Leccardo. Di
grazia, portami al monte di Somma, dove nasce quella benedetta lacrima che
bevendola ti fa lacrimare, acciò bevendone assai possa lacrimar tanto che
basti, ché or mi stanno gli occhi asciutti come un corno.
Don Flaminio.
(Col tardar piú m'accresce il sospetto).
Leccardo.
Oimè, quella faccia piú bianca d'una ricotta, quelle guancie piú vermiglie di
vin cerasolo, quei labrucci piú cremesin d'un presciutto, quella..., ahi! che
mi scoppia il core,...
Don Flaminio. Che
cosa? sta male?
Leccardo.
Peggio!
Don Flaminio.
Ecci pericolo della vita?
Leccardo.
Peggio!
Don Flaminio. È
morta?
Leccardo.
Peggio!
Don Flaminio. Che
cosa piú peggio della morte?
Leccardo....
è morta, e morta disonorata!
Don Flaminio. O
Dio, che nuova è questa che tu mi dái?
Leccardo. E mi
dispiace darvela: e non vorrei sentiste da me quello che sète per intendere; ma
avendolo a sapere, fate buon animo. Don Ignazio non so che ingiuriose parole
disse ad Eufranone. Il quale, vinto in quel punto dal furore e inasprito
dall'ira, con la schiuma in bocca com'un cignale, venne su e caricando la
figlia di villanie correa col pugnale in mano per infilzarla come un tordo al
spedo. A questo la moglie se le fe' incontro e lo risospinse adietro. Instupedí
la povera figlia e aiutata dalla sua innocenza diceva: - Padre mio, ascolta le
mie ragioni; se conosci che ho fallato, ti porgerò il petto ché mi ammazzi! -
Egli, come un vitello che cerca di scappar di mano di coloro che lo conducono
al macello, cercava scappar da man di quelli che il tenevano. Carizia cercava
parlare, ma le lacrime l'impedivano; poi disse a fatica: - La conscienza mia
pura mi liberará dall'obbrobrio della calunnia, ché questa sola ha lassato
Iddio per consolazion degl'innocenti! - Queste ultime parole morîr fra le
labra, ché appena fûr udite; e morí prima della ferita. S'affoltavan i parenti
per sovenirla; ma - Lasciate lasciate - gridava Eufranone - che l'uccida il
dolore prima che l'abbi ad uccider il ferro, e che prevenga la violenza la
voluntaria morte; e questo volerla far vivere è piú tosto opra di crudeltá che
di pietá! - Cosí morí com'un agnello, e rimase con la bocca un poco aperta
com'un porchetto che s'arroste al foco. Ancor morta par bella e t'innamora,
perché è morta senza offesa della sua bellezza....
Don Flaminio.
Ahi, padre troppo austero e troppo nemico del suo sangue!
Leccardo....
Gli occhi miei, che mai piansero, piansero allora. Eufranone la fe' subbito
inchiudere in un'arca e fecela sotterrar nella chiesa vicina per la porta di
dietro, per non poner a romor la cittade.
Don Flaminio.
Dunque è pur vero che l'anima mia sia morta, e seco morto ogni mio bene; e
sepolta ancora, e con tanta bellezza sepolta ogni mia gioia e me sepolto in un
infinito dolore! Gli occhi, che avanzavan il sol di splendore, son chiusi in eterno
sonno, e la bella bocca in perpetuo silenzio. Ahi, non fia vero giá ch'essendo
tu morta, io voglia restar in vita. È morta la sposa nel piú bello delle
speranze! Oh com'invan s'affatica chi vuol contrastar col cielo, il qual è piú
possente d'ogni umano consiglio! Ho dato la morte da chi sperava la vita; ed
io, che di tanto mal son caggione, vivo e ardisco spirar quest'aria? Ho nociuto
a me stesso e patisco il mal che ho fatto a me medesimo. Che m'ha giovato aver
travagliato tanti anni nella guerra, esposto il petto a mille perigli, imitar
tanti esempi onorati per segnalarmi cavalier d'eterna lode, e or per un sensual
appetito son stato nocevol cagione della morte d'una innocente? tradito un
fratello, infamato lei e il padre, e disonorato il parentado? Ecco oscurata la
gloria di tanti anni e di tante fatiche, e divenuto non cavalier d'onore ma
d'infamia, non di pietá ma d'impietade. Dove mi nasconderò che non sia visto da
uomo vivente? dove andrò, dove mi nasconderò ché fugga e mi nasconda a me
stesso? ché la coscienza afflige piú di quanti tormenti può dar uomo vivente.
Orsú, come cagione di tanto male, bisogna che pigli vendetta di me medesimo,
che con un laccio mi toglia da tanto vituperio. Ahi, Panimbolo, tu fosti autor
del malvaggio e da me mal preso consiglio; ed io piú isconsigliato che lo
presi, ché da sí cattivo principio non poteva aspettar altro che l'infame e
doloroso fine.
Panimbolo.
Padrone, non è stato cosí mal il mio consiglio come la mala fortuna, ché l'una
è sovraggionta all'altra, e noi per ischivarne una siamo incorsi in una
peggiore: e da un error ne vengono mille, e ogni cosa è riuscita in nostro
danno, e il mal sempre è andato crescendo di mal in peggio; né la fortuna
istessa arebbe potuto rimediar a tanti infortuni. E quando la mala fortuna vuol
rovinar alcuno, fa possibile l'impossibile.
Don Flaminio. Non
è stata tanto la mala fortuna quanto il tuo cattivo consiglio; né in cose
disconvenevoli dovevi tu prestarmi consiglio né agiuto.
Panimbolo. Voi
che mi avete sforzato con tanti comandi m'accusate contro ragione. Ma chi può
gir contro il cielo? Ed essendo il mondo cosí sregolato e insconsigliato, con
che ragione o consiglio potete regolarvi con lui? Non conoscete, come umana
creatura, che tutte le cose son instabili e incerte e che il mondo inchina or
ad una e or ad un'altra parte? E l'uomo accorto nella necessitá de' pericoli
deve accomodar l'animo suo alla prudenza; ma la nobiltá del vostro sangue
dovrebbe destar in voi l'ardire e farvi caminar nel termine della modestia,
soffrir e conservar voi stesso a piú liete speranze.
Don Flaminio. Io
non temo piú i colpi della fortuna, ché è morta ogni fortuna per me: non
bisogna piú ordir fraudi e inganni; non ho piú sospetto di niuno, poiché è
morta la cagion di tutte queste cose. Ahi, che pena converrebbe al mio fallo?
Mi conosco degno di maggior pena che la morte: bisognaria che morisse d'una
morte che mai finisse. Ma prima che morisse, desiderarei restituir l'onor che
l'ho tolto, e scoprir l'inganno che l'ho fatto.
Panimbolo.
Ecco il vostro fratello che viene a voi.
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