SCENA VI.
Don Ignazio, Don Flaminio.
Don Ignazio.
(Veggio don Flaminio assai doloroso).
Don Flaminio. Don
Ignazio - ché al tradimento che v'ho fatto, non son degno d'esservi né di
chiamarvi fratello, - vengo a voi ad accusar il mio fallo: io son quello iniquo
che avanzo d'iniquitá tutti gli uomini.
Don Ignazio.
Fratello, che aspetto pallido è il vostro! che pianto, che parole son queste
che intendo da voi!
Don Flaminio. Io
son quello che a torto ho accusato appo voi quella donna celeste, il cui corpo
fu tanto bello che non si vidde mai cosa tale.
Don Ignazio. Io
non so ancora di che cosa parliate.
Don Flaminio. Io
son quello che v'ho ingannato e tradito, e con quelle false illusioni di notte
ho fatto veder che Carizia fusse inonesta.
Don Ignazio. O
estremo dolor, cessa alquanto fin ch'intenda da costui come il fatto è seguito.
Don Flaminio. Io,
essendo innamorato di Carizia da quell'infelice giorno che fu la festa de'
tori, nascondei l'amor mio verso lei a voi quanto potei. Poi avendo inteso
quanto voi piú degnamente avevate operato di me, accecato da una nebbia di
gelosia, vi feci veder quell'apparenza di notte, nella quale il parasito e la
serva di casa sua mi fûr ministri. E fu il mio intento che, voi ricusandola, io
col prezzo del tradimento mi avesse comprato le sue nozze; ma il mio pensiero
ha sortito contrario fine, perché è morta.
Don Ignazio. O
Dio, quante mutazioni in un tempo sente l'anima mia! intenso dolor della sua
morte, pena della sua infamia e innocenza, gelosia dell'inganno, rabbia
dell'offesa che hai fatta al padre! Ed è possibil che si trovi un cuore, non
dico di cavaliero, ma cosí barbaro e inumano in cui abbia potuto cadere cosí
mostruosa invenzione? In qual anima nata sotto le piú maligne stelle del cielo,
in qual spirito uscito dalle piú cupe parti dell'inferno, vestito d'umana
carne, ha potuto capire sceleraggine come questa?
Don Flaminio.
Eccomi, buttato in terra, abbraccio le tue ginocchia, ti porgo il pugnale: la crudeltá
che ho usata contra voi, usate voi contro me. Qua si tratta del vostro onore:
io son quello che t'ho tradito, infamato e tolta la sposa. Tu sei infame di
doppia infamia se non te ne vendichi. Vorrei trovar le piú pungenti parole che
si ponno, per provocarti ad un giustissimo sdegno.
Don Ignazio. O
tu che non vo' dir mio fratello, fatti indietro, non mi toccare, allontana da
me le tue mani profane, ché non macchino il mio corpo! Patirò che mi tocchino
quelle mani che m'han ucciso la sposa? Non contaminar le mie orecchie con le
tue accuse; gli occhi miei rivolgono lo sguardo altrove, perché schivano di
mirarti. Sgombra da questa terra, purga l'aria e il cielo infetto dal tuo
abominevole spirito, porta fuora del mondo anima cosí scelerata e traditrice, e
come hai saputo machinar tante fraudi, cosí machina un modo da fuggir dal
mondo. Tu non morrai dalle mie mani: lascio che la tua vita sia la tua
vendetta, vo' che sopravivi al tuo biasmevole e infame atto, vo' che venghi in
odio a te stesso. Ma qual spirito dell'inferno ti spinse a tanta sceleraggine?
Don Flaminio. Le
fiamme de' suoi begli occhi, ch'accesero te dell'amore suo, accesero ancor me;
e come la desiavate voi, la desiava pur io; e quel tradimento che v'ho fatto
per possederla, m'imaginava che voi l'aveste fatto a me. Ma il caso, che
maneggia tutte le cose, ha fatto succedere il tutto contro il mio pensiero.
Ramentati quella infinita bellezza, e secondo quella giudica l'error mio. Qua
ha peccato la sorte non la voluntá; e quando l'effetto che succede è contrario
alla voluntá, purga il biasmo di chi il commette.
Don Ignazio. O
falsa defension di vera accusa! Te accesero fiamme amorose de' suoi begli
occhi? Tesifone tenne l'esca, Aletto il focile, Megera percosse la pietra e ne
scagliò fuori faville tartaree accese nel piú basso baratro dell'inferno. O
notte, che fosti tanto cieca che non scernesti l'inganno, t'ingrossasti di
folte tenebre, ti copristi di scuro manto per occultar fatto sí abominevole:
vergognandoti di te stessa ti nascondesti in te medesima! Te nascondesti nella
tua notte, o luna, che con disugual splendore facevi incerto lume: la nefanditá
ti fe' nascondere la tua faccia, perché ti turbò e ti spense il lume! O cielo,
gira al contrario e conturba le stagioni; e il sole non dia splendore a questo
secolo infame, poiché un fratello non è sicuro dall'insidie dell'altro
fratello! Non so che nome potrá aguagliar l'opre tue, sí inumano, barbaro,
traditore senza vergogna e senza timor di Dio: il mondo non ha nome con che
possa chiamarti.
Don Flaminio.
Supplice e lacrimoso ti sta dinanzi a' piedi la cagion del tuo affanno: non
chiede né perdono né vita, perché non la merita e non l'accetta - ché quando
l'uomo ha fatto quel che non deve, non deve piú vivere per non vivere vita
pessima e infame, - ma chiede vendetta. E se in te è rimasta qualche scintilla
di fraterna pietá, uccidimi. Non invidiarmi morte cosí desiata; anzi per
rimedio delle mie pene non chiedo morte ordinaria, non assegno luoco alle
ferite: ferite dove volete, trovate voi nuove sorti di morti com'io ho trovate
nuove sorti di tradimenti.
Don Ignazio. La
vendetta facciala Eufranone suo padre, a cui hai uccisa la figlia, e che
figlia! quella ch'amava piú che l'anima sua, a cui se è pesata la morte, assai
piú pesará il modo della sua morte.
Don Flaminio.
Andrò ratto a lui; forsi troverò in lui quella pietá che non ho potuto trovar
in voi, e li restituirò la fama come posso.
Don Ignazio.
Ecco che giunge. Fuggirò il suo aspetto, ch'avendoli cosí a torto ingiuriato la
figlia, non ho piú animo di comparirgli innanzi.
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