SCENA VII.
Eufranone, Don Flaminio.
Eufranone.
(Veggio il fratello di don Ignazio che vien verso me. Che voglion costoro?
forsi uccidermi la rimasta figliuola?).
Don Flaminio.
Onoratissimo Eufranone, ve si appresenta innanzi il reo di tanti mali, accioché
con moltiplicato supplicio lo castighiate. Io essendo ardentemente innamorato
della bellezza ma assai piú dell'onestá di Carizia, e veggendo che mio fratello
m'avea prevenuto a tôrsela per moglie, l'invidia, l'amor, la gelosia facendono
lor ultimo sforzo in me, l'infamai appresso lui, accioché, egli rifiutandola
per onorar la sua fama, me la togliesse io per moglie. E Leccardo, vostro servo
di casa, m'aperse la porta di notte;...
Eufranone. O Dio,
a che sorte d'uomini ho dato in guardia la casa mia!
Don Flaminio....
non pensandomi che la vostra iracondia avesse a terminar in atto sí sanguinoso.
Tu, giusto monarca del cielo, a cui solo è concesso di penetrar gli occulti
seni del cuore, tu mi sia testimone come non fu mai mia intenzione offender voi
né d'infamar lei, ma sol ch'ei la lasciasse per tôrmela io per moglie; e tu mi
sia ancor testimone come non fu mai donna di piú candido onore né mai macchiato
di picciol neo di bruttezza. Prego la vostra bontá, ché sovra di me pigliate la
vendetta della morte di vostra figliuola e dell'offesa dell'onor vostro.
Eufranone.
Oimè, che le vostre parole m'hanno passato l'anima: voi avete ucciso lei, me e
la madre in un colpo, e uccisi nel corpo e nell'onore! Oimè, che or ora
m'uccidi la mia figliuola! ché allora pensando al mancamento ch'avea fatto
all'onor suo, mosso dalla disonestá del fatto, il desio della vendetta non mi
facea sentir la doglia. O sfortunata fanciulla, o anima innocentissima, o
figlia viva e morta unicamente amata da me, tu sola eri l'occhio, mente, mano e
piede del tuo padre infelice: con teco compartiva gli affanni della mia povertá
e come un comun peso la sopportavamo insieme; la tua compagnia non mi faceva
sentir i difetti del tempo e mi faceva cara la vita. O invano nata bella e
onorata: o nocente bellezza! o dannoso e mortale dono di natura, misera e
infelice onestá! dunque per esser tu nata bella e onorata hai voluto perder
l'onor e la tua vita? Deh! qual prima piangerò delle tue morti, quella del
corpo o quella dell'onore? di quella del corpo non devo pianger molto,
ch'essendo nata mortale e figlia d'uomo mortale, non ti potea mancare il
morire; ma piangerò la morte della tua fama, ch'essendo nata figlia di padre
onorato, coll'innocente tua morte hai infamato te e il tuo parentado.
Don Flaminio. Il
reo pentito del suo errore ti porge il pugnale, ché vendichi con la tua mano il
torto che ti ha fatto.
Eufranone. A
che mi giova il vostro pentimento e la vendetta che cercate da me? mi restituirá
forsi viva e onorata la mia figliuola? Infelice e sconsolato conforto! Ahi,
figlia, ahi, cara figlia, essendo io falsamente informato che tu avessi fatto
torto all'onor tuo, fu tanto l'impeto dell'ira ch'estinse l'affetto paterno e
ti corsi col pugnale adosso. Tu pur volevi dir le tue ragioni, e la furia non
me le fece ascoltare. Oh che bei doni maritali che ti portai! un pugnale. Oh
che bel letto che ti apparecchiai! l'arca e la sepultura. Figlia d'infelice e
sfortunato padre, chi t'ha prodotto al mondo t'ave uccisa: aresti trovato piú
pietá in un barbaro che in tuo padre! O dolore insopportabile, o calamitá
mondane! e perché vivo? perché non m'uccido con le mie mani? Ahi! che tu con un
leggerissimo sonno se' passata da questa vita e sei uscita di travagli, son
finiti i tuoi dolori; ma a me che resto in vita resteranno perpetuamente
impressi nel cuore i tuoi costumi, la tua bontá, la tua onestá e la riverenza
che mi portavi. M'hai lasciato orbo, afflitto e pieno di pentimento: oh fossi
morto in tua vece, vecchio canuto e stanco dal lungo vivere!
Don Flaminio.
Eufranone, ascoltate di grazia.
Eufranone. Non
voglio ascoltar piú, ché quanto piú apro e apparecchio l'orecchie al vostro
dire, piú apro e apparecchio gli occhi al pianto. Ma perché i cavalieri d'onore
sogliono difendere e non opprimere gli onori delle donne, vi priego, se le
ragioni divine e umane vi muovono punto, fate che quella bocca che l'ave
accusata, quella l'escusi. Usate questa pietosa gratitudine: andate in Palazzo
dinanzi al viceré vostro zio, raccontate la veritá, accioché, divolgatosi il
fatto per sí autorevoli bocche, le restituiate l'onore e si toglia tanto
cicalamento dal volgo.
Don Flaminio.
Poiché non posso giovarle col spender la robba, la vita e l'onore, le giovarò
con la lingua: onorerò lei, infamerò me stesso; e son tenuto farlo per obligo
di cavaliero. Andiamo insieme innanzi al mio zio, accioché di quello che farò
ne siate buon testimone.
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