ATTO V.
SCENA I.
Don Rodorigo
viceré della provincia, Eufranone,
Don Flaminio.
Don Rodorigo.
Dunque mi sará forza, per non mancar ad una giustissima causa, incrudelir nel
mio sangue? che la prima giustizia ch'abbia a fare in Salerno sia contro il mio
nipote, qual amo come proprio mio figliuolo?
Eufranone.
Signor viceré, chi non sa reggere e comandare a' suoi affetti lasci di reggere
e comandar agli altri, né si deve prepor la natura alle leggi: però non dovete
far torto a me perché costoro sieno a voi congionti di sangue e di amore.
Don Rodorigo. In
me non può tanto la passione che mi torca dal dritto della giustizia, né mi
muove rispetto d'altri né proprio affetto, ché quanto mi sento vincer
dall'amore tanto mi fo raffrenar dalla raggione.
Don Flaminio.
Giudice, non zio, io vengo ad accusar me stesso: ho infamata e uccisa l'amante
mia! Non chiedo pietá né perdono: usate meco le vostre raggioni, datemi tanti
supplici quanti ne può soffrir un reo. Vuo' con presta e vergognosa morte purgar
gli errori che per me son avvenuti, ché i fatti dell'onore ricercano testimonio
d'un chiaro sole. Toglietemi questo avanzo di vita, toglietemi da tanta
miseria: qua non lenti consigli di vecchi ma uno espedito decreto ché muoia; e
voi sète reo giudice e inumano, se non volete che con la morte finisca la mia
miseria. E perdonatemi se non uso con voi quelle parole rispettevoli che a voi
si devon per ogni ragione.
Don Rodorigo. Non
si deve condennar a morte chi sommamente desia di morire, ché la morte gli sarebbe
premio, non castigo. Egli desiando la vostra figliuola per isposa fece
l'errore, e l'error fu piú tosto dell'etá che suo, ché non gionge ancora a
diciotto anni.
Eufranone. E
voi con la giustizia vincete gli animi; né un error fatto per poca etá deve
privare un padre di sua figlia. E voi sète giudice e non avvocato che debbiate
escusarlo.
Don Rodorigo.
Perché gli innamorati han l'animo infermo d'amore e la ragione annebbiata da
furori, i loro errori son piú degni di scusa che di pena, e la giustizia ha
gran riguardo ne' casi d'amore.
Eufranone. Se
l'amor bastasse ad escusar un delitto, tutti gli errori si direbbono esser
fatti da innamorati e l'amor si comprarebbe a denari contanti.
Don Rodorigo. Perché
le sète padre, la soverchia passion non vi fa conoscer il giusto; e un cor
turbato e agitato dall'ira non ascolta ragione.
Eufranone. Fui
padre d'una e, se mi è lecito dir, onestissima figlia; e i vostri nepoti per
particulari interessi me l'han uccisa e infamata.
Don Rodorigo.
Quando il reo è di gran merito si procede alla sentenza con piú riguardo.
Eufranone. La
morte e innocenza di mia figlia gridano dinanzi al tribunal di Dio giustizia
contro i vostri nepoti, ché non restino invendicate.
Don Rodorigo. Dio
sa quanto desio uscir da questo intrigo con onor mio, e volentieri mi
contenterei spender una parte del mio proprio corpo, e mi parrebbe come nulla
mi levassi, anzi mi parrebbe esser intiero e perfetto. Eufranone mio, poniam
caso che don Flaminio morisse publicamente: resuscitará per questo la tua
figliuola?
Eufranone. No,
ma da un publico supplicio vien a verificarsi la sua innocenza.
Don Rodorigo.
Anzi questo garbuglio ha nobilitato la fama della sua pudicizia, perché
Leccardo è giá preso e, menato dinanzi al giudice, ha confessato che il tutto
sia successo con non men scelerato che infelice suo aiuto; e come caggion del
tutto è stato condennato a morire, se il capestro non gli fa grazia della vita.
Ma ditemi, fratello: non ci è altro modo di restituir l'onore alle donne che
far morire il reo publicamente?
Eufranone.
Ditelo voi che reggete.
Don Rodorigo. Ne
dirò uno, e credo che ne restarete sodisfatto, se sète cosí galante uomo come
sète predicato da tutti. Voi avete un'altra figliuola chiamata Callidora, non
men bella e onorata che Carizia: facciamo che don Flaminio sposi costei,
accioché le genti che hanno inteso il caso della sorella non sospettino piú
cosa contraria all'onor suo. Voi con la sua ricchezza vi ristorerete in parte
del danno avvenuto; e se la vostra famiglia Della Porta è famosa per antica
gloria d'uomini illustri, or si rischiara con i titoli di questo nuovo
parentado, per esser la casa di Mendozza delle piú chiare d'Ispagna; e a lui
poi per penitenza del suo fallo gli resti un perpetuo obligo di servitú e di
amore verso la vostra dilettissima figlia. Il viceré non vuol mancar alla
giustizia, ma don Rodorigo vi priega che questo viceré non sia constretto a
farla; e voi, se sète prudente e savio, dovreste prevenirmi con i prieghi di
quello che or priego voi.
Eufranone.
Signor viceré, se ho parlato cosí senza rispetto, ne è cagion il dolor acerbo
della morte della mia figliuola, non il desio della morte di vostro nipote.
Purché venghi reintegrato nell'onor pristino, facciasi quanto ordinate.
Don Flaminio. O
zio, non di minor osservanza e di amor di colui che mi ha generato, che piú
onorata giustizia, piú santa vendetta non arei saputo desiderare. Io ben
conosceva che la mia morte non toglieva la macchia impressa nell'onestá di
donna, né per morte fineva l'amor mio. Desiava servir e riverir Callidora sotto
l'imagine della morta sorella; d'accettarla per moglie indignissimo mi conosco:
l'accetto per mia signora col tributo impostomi d'averla a servir sempre, e
mentre duri la vita duri l'obligo. A voi, mio suocero Eufranone, m'inchino, con
ogni umiltá che devo, a ricevermi per servo: la vostra dote saranno i suoi
meriti, le mie facultá communi a tutto il parentado.
Eufranone. Ed
io per genero vi accetto e per figliuolo.
Don Flaminio.
Concedetemi che vi baci la mano se ne son degno; se non, i piedi.
Eufranone.
Alzatevi, signor don Flaminio, ché la vostra soverchia creanza non facci me
malcreato: ardisco abbracciarvi perché me lo comandate.
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