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Giambattista Della Porta
Gli duoi fratelli rivali

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  • ATTO V.
    • SCENA III.   Polisena, Don Ignazio, Don Flaminio, Eufranone.
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SCENA III.

 

Polisena, Don Ignazio, Don Flaminio, Eufranone.

 

Polisena. Fermate, cavalieri! fermate, fratelli! e non fate che lo sdegno passi insin al sangue.

Don Ignazio. Di grazia, madre, toglietevi di mezzo, accioché, mentre cerchiamo offenderci l'un l'altro, non offendessimo voi e facessimo error peggior del primo.

Polisena. Se le figliole mie sono cagione delle vostre risse, offendendo la madre loro offendete il ventre che l'ha prodotte: questo ventre sia bersaglio de' vostri colpi!

Don Ignazio. Di grazia appartatevi, madre, ché per téma d'offender voi non posso offender il mio nemico.

Polisena. O figlie nate sotto fiero tenor d'iniqua stella, poiché in cambio di doti apportate a' vostri sposi scandalo e sangue! E a che sposi, a che fratelli poi! a' piú chiari e valorosi che vivono a' nostri secoli. Non son le mie figlie di tanto merito che le lor nozze siano comprate col prezzo del sangue di sí onorati cavalieri. Cari miei figliuoli, se amate le mie figliuole, è debito di ragione che amiate ancora la lor madre, la qual vi priega che lasciate il furor e l'armi e ascoltiate quello che son per dirvi.

Don Ignazio. Io non lasciarò la mia spada s'egli prima non lascia la sua.

Don Flaminio. E s'egli prima non lascia la sua io non lasciarò la mia.

Polisena. Io sto in mezzo ad ambidoi, e l'uno non può ferir l'altro se non ferisce prima me, e la spada passando per lo mio corpo facci strada all'altrui sangue. Ma a chi prima di voi mi volgerò, carissimi miei generi, carissimi miei figliuoli? Mi volgerò a voi primo, don Ignazio: voi prima mi chiedesti amorevolmente la mia figliola per isposa. Se non è in tutto in voi spenta la memoria dell'amor suo, s'ella vi fu mai cara, mostratelo in questo: che siate il primo a lasciar l'armi. Com'io posso stringervi la destra, se sta nella spada? come posso abbracciarvi, se spirate per tutto odio e veleno?

Don Ignazio. Non mi comandar questo, cara madre; ché costui, solito a far tradimenti, veggendomi disarmato, che non mi tradisca di nuovo.

Don Flaminio. Tien mano alla lingua se vòi ch'io tenghi le mani all'armi.

Polisena. Ed è possibile che possa tanto la rabbia in voi che pur sète stati in un istesso ventre? rabbia piú convenevole a' barbari che a' vostri pari?

Don Ignazio. Noi non siamo piú fratelli ma crudelissimi nemici. Sono rotte le leggi fra noi della natura e del convenevole: un fratello che offende non è differente dal nemico.

Polisena. Non fate vostre le colpe che son della fortuna. Questa sola ha peccato nell'opere vostre, questa sola ha conspirato ne' vostri danni: l'un fratello vuol uccider l'altro fratello! Cercáti una vittoria nella quale è meglio restar vinto che vincere. Per acquistar una moglie perdernosi duo mariti: volete che le vostre spose siano prima vedove che spose? volete che coloro, ch'eran venuti per onorar le vostre nozze, onorino le vostre esequie?

Don Ignazio. Dite presto, madre, che sète per dire.

Polisena. Che voce potrá formar la mia lingua tutta piena d'orrore e di spavento, veggendovi con l'armi in mano e che state di ponto in ponto per ferirvi? Almeno ponete le punte in terra, e colui che sará primo a inclinar la spada dará primo testimonio dell'amor che mi porta.

Don Ignazio. Ecco ch'io v'obedisco.

Don Flaminio. Ed io pur voglio obedirvi.

Polisena. Don Ignazio, di che cosa vi dolete del fratello?

Don Ignazio. Egli, senza averlo giamai offeso, tradendomi, mi ha tolto il mio core che era la Carizia; la qual essendo morta, son certo che mai morirá nel mio core quella imagine che prima Amor vi scolpí di sua mano, né spero vederla piú in questo mondo se non vestita di bella luce innanzi a Dio. Per non morirmi di passione avea pensato tôrmi la sorella per isposa, la qual sempre che avesse veduta avrei veduto in lei l'imagine sua e gustato l'odor del sangue e del suo spirito. Or ei, cagion di tanto male, mi vuol tôr la seconda: io che ho oprato bene ricevo male, ed egli che ha oprato male sará guiderdonato.

Don Flaminio. Egli cerca tôr a me Calidora concessami dal padre e dal mio zio, della qual sono acceso talmente che sarò piú tosto per lasciar la vita che lei. L'amor mio non è degli ordinari, ma insopportabile, inmedicabile, non vuol ragione.

Polisena. Se amavate Carizia, com'or amate Calidora?

Don Flaminio. Non potendo amar quella che è morta, l'anima mia si è nuovamente invaghita di costei.

Polisena. Or poiché l'amate tanto, vostra sia; e farò che don Ignazio ve la conceda.

Don Flaminio. Con una medicina mi sanarete due infermitá, di amore e di gelosia; e vi arò sempre obligo delle due vite che mi donate.

Don Ignazio. O madre, non vi promettete tanto di me, ché ancorch'io volessi non potrei.

Polisena. Ben potreste, sí.

Don Ignazio. E s'avesse il potere non avrei il volere.

Polisena. Vi darò rimedio: che avrete Carizia.

Don Ignazio. La morte sola saria il rimedio, ché cavandomi dal mondo, il spirito mio s'unisse col suo.

Polisena. Vo' che senza morir godiate la vostra Carizia: sperate bene.

Don Ignazio. Come può sperar bene un afflitto dalla fortuna?

Polisena. Carizia ancor vive per voi.

Don Ignazio. So che lo dite accioché fra noi cessino l'ire e li sdegni; ma con queste speranze piú m'inacerbite le piaghe.

Polisena. Dico che è viva.

Don Ignazio. O Dio, sognando ascolto o sogno ascoltando?

Polisena. Dico che vegilando ascoltate il vero.

Don Ignazio. Il mio cuore non è capace di tanta allegrezza, e s'io non muoio per allegrezza è segno che nol crede. Non sapete che l'innamorati appena credeno agli occhi loro? ma se è vero, fa' che veggia colei da cui dipende la vita mia.

Polisena. Va' tu e fa' venir qui Carizia. - Quando voi li mandaste quella cruda ambasciata, il dolor la fe' cader morta. Il mio marito per l'offesa dell'onor, che s'imaginava aver ricevuto da lei, la fece conficcare in un'arca, volea farla sepellire. Io, non potendo soffrir che la mia cara figlia fosse posta sotterra senza darle le lacrime e gli ultimi baci, feci schiodar l'arca; e mentre la baciava tutta, intesi che sotto le mammelle li palpitava il core. Oprai tanti remedi che rivenne. Rivenuta, fu veramente spettacolo miserabile: stracciandosi i capelli si dolea della sorte che l'avesse di nuovo ritornata in vita assai peggior che la morte, pensando al torto che l'era fatto. Io, reimpiendo l'arca di un altro peso, la mandai a sepellire. Ella volea entrarsene in un monastero e servir a Dio, per non aver a cadere mai piú in podestá di uomo.

Don Ignazio. O madre, cavami fuor delle porte della morte, dimmelo certamente se è viva; perché ella sará mia, ancorché voglia o non voglia tutto il mondo.

Polisena. Ed ella piú tosto vol esser vostra che sua, e per non esser d'altri volea esser piú tosto della morte.

Don Ignazio. Donque gli occhi miei vedranno un'altra volta Carizia, e aran pur lieto fine le mie disperate speranze?

Eufranone. O moglie cara, tu arrechi in un tempo nuove dolcezze a molti: tu pacifichi i fratelli, allegri il zio, dái dolcezza non al padre amorevole di colei ma a chi le fu rigido e inumano, e consoli tutta questa cittá.

Don Flaminio. Ma io come uscirò di tant'obligo? che grazie vi potrò rendere, essendo stato cagione di tante rovine?

Polisena. Rendete le grazie a Dio, non a me indegna serva! Egli solo ha ordinato nel cielo che i fatti cosí difficili e impossibili ad accommodarsi siano ridotti a cosí lieto fine.

Don Ignazio. Ecco che l'aria comincia a dischiararsi da' raggi de' suoi begli occhi! oh come il mio core si rallegra della sua dolce e desiata vita!

 

 

 




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