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Giambattista Della Porta Gli duoi fratelli rivali IntraText CT - Lettura del testo |
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SCENA VI.
Eufranone, Don Ignazio.
Eufranone. (Veramente chi ha una picciola villa non fa patir di fame la sua famigliola. Di qua s'hanno erbicine per l'insalate e per le minestre, legna per lo fuoco e vino, che se non basta per tutto, almeno a soffrir piú leggiermente il peso della misera povertá. O me infelice se, fra l'altre robbe che mi tolse il rigor della rubellione, mi avesse tolta ancor questa! Mi ho còlto una insalatuccia; ché «chi mangia una insalata, non va a letto senza cena»). Don Ignazio. Eufranone carissimo, Dio vi dia ogni bene! Eufranone. Questa speranza ho in lui. Don Ignazio. Come state? Eufranone. Non posso star bene essendo cosí povero come sono. Don Ignazio. Servitivi della mia robba, ché è il maggior servigio che far mi possiate. Copritevi. Eufranone. È mio debito star cosí. Don Ignazio. Usate meco troppe cerimonie. Eufranone. Perché mi sète signore. Don Ignazio. Vi priego che trattiamo alla libera. Eufranone. Orsú, per obedirvi. (Non so che voglia costui da me: mi fa entrar in sospetto). Don Ignazio. Or veniva a trovarvi. Eufranone. Potevate mandar a chiamarmi, ché serei venuto volando. Don Ignazio. Son molti giorni che desio esservi parente; e son venuto a farmevi conoscere per tale, ché veramente sète assai onorato e da bene. Eufranone. Tutto ciò per vostra grazia. Don Ignazio. Anzi per vostro merito. Eufranone. Non mi conosco di tanto preggio che sia degno di tanta cortesia. Don Ignazio. Siete degno di maggior cosa: io vi chieggio la vostra figliola con molta affezione. Eufranone. Stimate forsi, signore, ch'essendo io povero gentiluomo venda l'onore de mia figliuola? Veramente non merito tanta ingiuria da voi. Don Ignazio. Non ho detto per farvi ingiuria, ché non conviene ad un mio pari né voi la meritate: ve la chiedo per legittima moglie, se conoscete che ne sia degno. Eufranone. Essendo voi cosí ricco e di gran legnaggio, non convien burlar un povero gentiluomo e vostro servidore. Don Ignazio. Mi nieghi Dio ogni contento se non ve la chiedo con la bocca del core, ch'io non torrò altra sposa in mia vita che Carizia. E in pegno dell'amore ecco la fede: accoppiamo gli animi come il parentado. Eufranone. Signor mio caro, io so ben quanto gli animi giovenili sieno volubili e leggieri e piú pieni di furore che di consiglio; e che subbito che gli montino i capricci in testa, si vogliono scapricciare, e passato quell'umore restano come si di ciò mai non ne fusse stata parola; e in un medesimo tempo amano e disamano una cosa medesima. Non vorrei che si spargesse fama per Salerno che m'avete chiesto mia figlia: ché come in Salerno si parla una volta di nozze, dicono: - Son fatte, son fatte! - e poi se per qualche disgrazia non si accapassero, restasse la mia figliola oltraggiata nell'onore - stimando esser rifiutata per alcun suo mancamento - e mi toglieste quello che non potete piú restituirmi. Ed io vorrei morir mille volte prima che ciò m'accadesse. Voi altri signori ricchi stimate poco l'onor de' poveri; e noi poveri gentiluomini, non avendomo altro che l'onore, lo stimiamo piú che la vita. Però lo priego ad ammogliarsi con le sue pari e lasciar che noi apparentiamo fra' nostri. Don Ignazio. Eufranone mio carissimo, Dio sa con quanto dolore or ascolto le vostre parole e se mi pungano sul vivo del cuore! Io non merito da voi esser tacciato di vizio di leggierezza, nascendo il mio amore da un risoluto e invecchiato affetto dell'anima mia: ch'avendo fatto l'ultimo mio forzo di resistere al suo amore, dopo lunghissimo combattimento le sue bellezze son restate vincitrici d'ogni mia voglia. Eufranone. Vi priego a pensarvi su sei mesi prima; e se pur dura la voglia, allor me la potrete chiedere: ed io vi do la mia fede serbarla per voi insin a quel tempo. Don Ignazio. Sei mesi star senza Carizia? piú tosto potrei vivere senza la vita: e ben sapete che l'amante non ha maggior nemico che l'indugio. Eufranone. A questo conosco l'impeto giovenile, che quanto con maggior violenza assale tanto piú tosto s'intepidisce. Don Ignazio. Ogni parola che vi esce di bocca mi è un can rabbioso che mi straccia il petto. Il mio amore è immortale, e la mia fé, che or stimate leggiera, la conoscerete fermissima agli effetti. Eufranone. È contento vostro zio e fratello del matrimonio? Don Ignazio. Farò che si contentino. Eufranone. Fate che si contentino prima, e poi affettuaremo il matrimonio. Don Ignazio. L'amar mio non può patir tanto indugio; anzi mi maraviglio che dal giorno della festa come sia potuto restar vivo senza lei. Eufranone. Lo dico ad effetto, ché forsi, non contentandosi del matrimonio, inventassero qualche modo per disturbarlo, onde venissi a perdere quel poco di onor che mi è rimasto. Don Ignazio. O Dio, quanta téma e quanto sospetto! Eufranone. «Chi poco ha, molto stima e molto teme». Ma voi sète informato dell'infortunio che ho patito nella robba, che non solo non ho da poter dar dote ad un par vostro ma né meno ad un povero mio pari? Don Ignazio. Ho inteso che per aver voluto seguir le parti sanseverinesche siate caduto in tanta disgrazia; ma io ho stimato sempre d'animi bassi e vili coloro che s'han voluto arricchire con le doti delle mogli. Io prendo la vostra destra e non la lascierò mai se non la mi prometteti. Eufranone. Temo prometterlavi: non so che nuvolo mi sta dinanzi al core. Don Ignazio. Eufranone, mio padre, vi prego a darlami con vostro consenso, ché non mi fate far qualche pazzia. Non mi sforzate a far quello per forza che me si deve per debito d'amore. A pena posso contenermi ne' termini dell'onestá: son risoluto averla per moglie, ancorché fusse sicuro perder la robba, la vita e l'onore, per non dir piú. Eufranone. Signore, perdonatemi se mi fo vincere dalla vostra ostinata cortesia: ecco la mano in segno d'amicizia e di parentado, avertendovi di nuovo che non ho dote da darvi. Don Ignazio. E ancorché me la voleste dare, non la vorrei: conosco non meritar tanta dote quanta ne porta seco. Vo' che si facci festa bandita, si conviti tutta la nobiltá di Salerno, adornisi la sala di razzi, faccisi un solenne banchetto, adornisi la sposa di gioie, perle e di drappi d'oro, e non si lasci adietro cosa per dimostrar l'interno contento dell'animo mio. Eufranone. V'ho detto quanto sia mal agiato di far questo. Don Ignazio. A tutto provederò ben io: mandarò il mio cameriera ché proveda quanto fia di mestiero. Eufranone. Quando verrete a sposarla? Don Ignazio. Vorrei venir prima che partirmi da voi. Ma perché l'ora è tarda, verrò domani all'alba: ponete il tutto in ponto per quell'ora. Eufranone. Si fará quanto comandate. Don Ignazio. lo non vo' trattener piú voi né me stesso: andrò a mandarvi quanto ho promesso. Eufranone. Andate in buon'ora. - O Dio, che ventura è questa! Desidero communicar una mia tanta allegrezza con alcuno. Ma veggio Polisena, la mia moglie, che vien a tempo per ricever da me cosí insperato contento.
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