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Giambattista Della Porta Gli duoi fratelli rivali IntraText CT - Lettura del testo |
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SCENA IX.
Don Flaminio, Panimbolo, Leccardo.
Don Flaminio. Io vo' far prima ogni sforzo se posso indurla ad amarmi; e quando non mi riuscirá, non mancará ricercarla per moglie. Lo vo' lassar per l'ultimo, ché son risoluto non viver senz'ella o sua sorella. Panimbolo. Voi trattando per via del parasito e con lettere e per modi cosí disconvenevoli, in cambio d'amarvi vibrará contro voi fiamme di sdegno, perché stimará esser oltraggiata da voi ne' fatti dell'onore. Don Flaminio. Non vedi Leccardo come sta allegro? Panimbolo. Averá bevuto soverchio e sta ubbriaco. Leccardo. O Dio, dove andrò per trovare don Flaminio? Don Flaminio. (Cerca me). Leccardo. (Corri, volta, trotta, galoppa e dágli cosí felice novella). Don Flaminio. (Se ben lo veggio allegro, mi sento un discontento nel core; e se ben ho voglia d'intenderlo, li vo innanzi contro mia voglia). Leccardo. O signor don Flaminio, buona nuova! la mia lingua non t'apporta piú male novelle. Don Flaminio. E la mia ti apporterá grande utile. Leccardo. Non sapete il successo? Don Flaminio. Non io. Leccardo. Come nol sai, se il sa tutto Salerno? Don Flaminio. Nol so, ti dico. Leccardo. O nieghi o fingi per burlarmi. Don Flaminio. In cosa ch'importa non si deve burlare. Leccardo. Io penso che tu vogli burlar me. Don Flaminio. La burla insino adesso l'ho ricevuta in piacere, ma or mi dá noia. Leccardo. Lasciarò le burle e dirò da dovero. Don Flaminio. Or di', in nome di Dio, e non mi tener piú in bilancia: parla. Leccardo. Ho tanto corso che non posso parlare: non ho fiato. Don Flaminio. Prendi fiato; se non, che farai perdere il fiato a me. Leccardo. Per la soverchia stanchezza mi sento morire. Don Flaminio. Dammi la nuova prima e mori quando ti piace. Leccardo. Quanto ho piú voglia di dire, manco posso. Don Flaminio. Dimmelo in una parola. Leccardo. Non si può, perché è cosa troppo lunga né si può esprimere in una parola; e la stanchezza m'ha tolto il vigor del parlare. Don Flaminio. Mentre hai detto questo, aresti detto la metá. Leccardo. La vostra Ca... Cari... Carizia... Don Flaminio. La mia Carizia.... O buon principio! spediscela, di grazia. Leccardo.... sará vo... vostra:... Don Flaminio. Leccardo mio, parla presto, non mi far cosí morire: come sará mia? Leccardo. Manda a tôr diece caraffe di vino per inumidir il palato e la gola, che stanno cosí secchi che non ne può uscir la parola. Don Flaminio. Arai quanto vorrai, e venti e trenta; ma parla presto. Leccardo.... la vostra Carizia è maritata.... Don Flaminio. Maritata? Tu sia il malvenuto con questa nuova! E questa è l'allegrezza che mi portavi? Leccardo. Io non penso che possa esser migliore. Don Flaminio. E dove la fondi? Leccardo.... Non mi avete voi detto che non la desiate per moglie? Come il marito scassa la porta la prima volta, ella resta aperta per sempre; e ben sapete che le donne la custodiscono insino a quel punto: poi ci ponno passar quanti vogliono, ché non si conosce né vi si fa danno. Ecco, la goderete e io non sarò il malvenuto. Don Flaminio. Veder la mia Carizia in poter d'altri per un sol ponto, ancorché fusse pur certo possederla per sempre, non mi comportarebbe l'animo di soffrirlo. E con chi è maritata? Leccardo. Bisogna che cominci da capo. Don Flaminio. O da capo o da piedi, purché la spedischi tosto. Leccardo. Entrando in casa viddi che si facea un grande apparecchio d'un banchetto, e tutto ciò con real magnificenza. Io adocchiai certe testoline di capretto, le rubai e me le mangiai in un tratto; or mi gridano in corpo: Beee beee! Ascoltate? e le vorrei castigare.... Don Flaminio. Tu castighi or me, ché i tuoi trattenimenti mi son lanciate nel cuore. Leccardo.... Ivi eran mandre di vitelle, some di capponi impastati, monti di cacio parmigiano, il vino uh! a diluvio.... Don Flaminio. Vorrei saper con chi è maritata. Leccardo. Bisogna vi si dica il tutto per ordine. -... Lascio i pastoni, i pasticci, i galli d'India.... Don Flaminio. Piccioni e simili: basta su. Leccardo. Non vi erano piccioni altrimenti. Don Flaminio. O che vi fussero o che non vi fussero, poco importa. Leccardo. Dico che non vi erano; e dicean che son caldi per natura e che arebbono fatto male al fegato. Don Flaminio. Vorrei che ragionassi del fatto mio. Leccardo. E del vostro fatto si ragiona: a voi tocca. Ché si vi fusser stati piccioni, non arei mangiato teste di capretti. Don Flaminio. O Dio, che sorte di crucifiggere è questo! Lassa le baie: di' quel ch'importa. Leccardo. Non è cosa che piú importi ad un banchetto che non vi manchi cosa alcuna, anzi sia abbondantissimo di robbe ben apparecchiate e condite e poste a tempo e con ordine a tavola. Don Flaminio. Tu ti trattieni in questo ed io sudo sudor di morte. Leccardo. Eccovi il mantello: fatevi vento, rinfrescatevi. Don Flaminio. Sará ancor finito tanto apparecchio? Leccardo. Non è finito ancora. Don Flaminio. Almen s'è detto assai: torniamo a noi. Leccardo.... Quando io viddi i cuochi occupati in partire e distribuire le robbe, fingendo aiutarli mi trametto e ne trabalzo le teste di capretti.... Don Flaminio. Orsú te le mangiasti, l'hai detto prima. Leccardo. Come dunque volea mangiarmele crude? bisognava che fussero prima cotte. Se volete indovinar, indovinate a voi stesso quanto desiate saper da me. Don Flaminio. Il malanno che Dio dia a te e alle tue chiacchiare! Leccardo. Se non lasciate parlar a me prima, come volete che parli io? Don Flaminio. Parla in tua malora e finiscila presto! Leccardo. Se non mi lasciate parlare, non finirò mai. Don Flaminio. Sto per accommodarmi la cappa sotto e sedermi in terra per ascoltare con maggior agio. Leccardo. Tacete mentre parlo. Don Flaminio. Comincia presto, che fai? Sto attaccato alla corda, non sentii mai in mia vita la maggior pena. Leccardo. Voi state malcontento, e se non vi vedo allegro non posso parlare. Don Flaminio. Che cagion ho io di star allegro? Leccardo. Dunque taccio poiché non ascoltate con allegrezza. Don Flaminio. Se non con allegrezza, almeno con pacienza: di' su. Leccardo.... Io mi accorgo che bugliva una gran caldaia d'acqua per ispiumar i pollami e spelar gli animali; fingendo stuzzicar il fuoco, vi butto dentro le testoline.... Don Flaminio. Or lasciamo dentro la caldaia il ragionamento di ciò. Cotte che fûro te le mangiasti, buon pro ti faccia: finimola presto. Leccardo.... Venne un altro cuoco e s'accorge ch'avea buttato le testoline dentro la caldaia.... Don Flaminio. Oimè, ci è gionta un'altra persona: e se il parlar di uno era cosí lungo, or che vi è gionta un'altra persona, sará altro tanto. Leccardo.... Oh oh, che m'era smenticato il meglio! Prima che venisse quel cuoco.... Don Flaminio. Quando pensava che fusse alla metá dell'istoria, ci avevi lasciato il principio; e or al principio bisogna dar un altro principio. Leccardo. Se non volete ascoltar, io taccio. Don Flaminio. Eh, parla col diavolo! Leccardo. Non parlo col diavolo io. Don Flaminio. E tu parla con Dio. Leccardo. Or questo sí, in nomine Domini. Don Flaminio. Amen. Leccardo. Voi dite «amen» come fosse al fine e non sète ancora al principio. Don Flaminio. Spediscimi, per amor di Dio! Leccardo. Sei bello e spedito. Carizia è maritata con un parente del viceré della provincia. Don Flaminio. Se tu dici da senno, m'uccidi; se da burla, dove ci va la vita mi ferisci troppo acerbamente. Sai tu il nome del marito? Leccardo. Sí bene; ma non me ne ricordo, perché era troppo intricato. Don Flaminio. Ricordati bene. Leccardo. Spedazio..., Pignatazio.... Il nome s'assomigliava al spede o pignato, e però me ne ricordo. Don Flaminio. Fosse don Ignazio? Leccardo. Sí sí, don Ignazio,... Spedazio. Don Flaminio. M'hai ucciso, m'hai morto: le tue parole mi sono spiedi e spade che m'hanno mortalmente trafitto il cuore. Or sí che m'hai portato la morte nella lingua. Leccardo. Dubito averla portata a me stesso, ché per la mala novella non serò piú medicato come oggi. Don Flaminio. Da questo principio posso indovinar la mia sciagura: piú dolente uomo di me non vive sopra la terra! Leccardo. Al fin, il mal bisogna sapersi ché si possa rimediar a tempo. E dicevano che le nozze si facevano domani all'alba. Don Flaminio. Tanto men spazio di tempo è dato alla mia vita. Una tempesta di pungenti pensieri m'ha ferito il core, una nuvola di malinconia m'ha circondato l'anima, giá la gelosia ha preso possesso del mio core: non posso fingermi piú ragioni contro me stesso per trasviarla. Ahi! che da quel giorno maledetto che la viddi, ho portato sempre questo sospetto attraversato nell'alma: e come il condennato a morte ogni romor che sente, ogni uscio che s'apre, gli par il boia che venghi e gli adatti il capestro al collo; cosí ogni parola, ogni motivo di mio fratello mi parea che mi la togliesse! Ahi, che mai l'ho desiata come adesso! ché «mai si conosce il bene se non quando si perde». Io non basto né posso vivere: se non m'ucciderá il dolore, m'ucciderò con le mie mani. Panimbolo. Padrone, voi sète bene avezzo a' casi dell'una e l'altra fortuna. Reggetevi con maturo consiglio: bisogna dar fine all'ostinazione; e nelle cose impossibili far buon cuore e abbandonar l'impresa, e prender una risoluzione tanto onorata quanto necessaria. Don Flaminio. Panimbolo, se sei cosí di vile animo, non avilir e spaventar l'animo mio: se pensi rimovermi da sí bella impresa, ammazzami prima. Io non vo' andar incontro alla fortuna, né restar cosí vinto alla prima battaglia né lasciar cosa intentata fin alla morte. Panimbolo. Orsú, facciasi tutto il possibile, ch'avendo a morire, quando s'è fatto quanto umanamente può farsi, si muor piú contento. Andiamo in Palazzo, informiamoci del fatto. Leccardo, trattienti da qua intorno, ch'avendo bisogno di te non abbiamo a cercarti. Va' e vieni. Leccardo. Andrò e verrò.
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