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Giambattista Della Porta Gli duoi fratelli rivali IntraText CT - Lettura del testo |
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SCENA II.
Leccardo, Don Flaminio, Panimbolo.
Leccardo. (O Dio, che disgusto darò a don Flaminio recandoli cosí cattive novelle!). Don Flaminio. Leccardo, benvenuto! Leccardo. Non son Leccardo né mai fui Leccardo, ché non mai mi toccò leccar a mio modo. Don Flaminio. Sempre sul mangiare! Leccardo. Sempre su gli amori! Don Flaminio. Se ti scaldasse quel fuoco che scalda me, diresti altrimenti. Leccardo. Io credo che l'amor delle femine scaldi; ma l'amor del vino scalda piú forte assai. Don Flaminio. Che novelle? Leccardo. Dispiacevolissime. Don Ignazio avendo trattato col padre, ave ottenuto Carizia. Ha mandato presenti sontuosissimi; or s'apparecchia un banchetto di rari che s'han fatti al mondo. Le principali gentildonne addobbano Carizia; e se negletta parea cosí bella, or che fiammeggia fra quelli ori e quelle gioie par di bellezza indicibile. Don Flaminio. Non mi recar piú noia con le tue parole che mi reca la presente materia. Leccardo. Mi dispiace che per mia cagione non sia vostra sposa, ché la vostra tavola mi sarebbe stata sempre apparecchiata. Or temo il contrario: ché come vostro fratello saprá che son stato dalla vostra parte, mi ará adosso un odio mortale, e sarò in capo della lista di coloro che saranno sbanditi dalla sua casa. Don Flaminio. Io non son cosí abbandonato dalla fortuna che, aiutandomi, Carizia non possa divenir mia moglie. E se darò ad intendere a don Ignazio che abbi goduto prima di Carizia, con manifesta speranza mi guadagnarò le sue nozze. Onde vorrei che la notte che viene mi aprissi la porta di sua casa e mi facessi entrare, e mi prestassi una di quelle vesti che portò il giorno della festa e alcuni doni mandati da lui. Leccardo. Cacasangue! questa è una solenne ribaldaria, e discoprendosi io sarei il primo a patire la penitenza, e non vorrei ch'avendomi io vivo mangiati molti uccelli cotti in mia vita, che or le cornacchie e corbi vivi se avessero a mangiare me morto sovra una forca. Don Flaminio. Tu sai che mio zio è viceré di Salerno: scoprendosi il fatto, saprá che il tutto arai operato per mia cagione e non offenderá te per non offender me. Leccardo. No no, la forca è fatta per i disgraziati. La giusticia è come i ragnateli: le moschette piccole com'io ci incappano e ci restano morte, i signori come voi sono gli uccelli grandi che la stracciano e portano via. Don Flaminio. Io sarei il piú ingrato uomo del mondo se, tu incappando per amor mio, non spendessi quant'ho per liberarti. Leccardo. De' poveretti prima si fa giustizia, poi si forma il processo e si dá la sentenza. Don Flaminio. Non temer quello che non sará per avvenir mai. Leccardo. Anzi sempre vien quello che manco si teme. Don Flaminio. Dái impedimento ad un gran disegno, ché non lo possiamo metter in atto e nel felice corso della vittoria si rompe: mi distruggi in erba e in spica le giá concette e mature speranze. Leccardo. Voi volete che i buoni bocconi, che ho mangiato in casa vostra, mi costino come il cascio a' topi quando incappano alla trappola. Don Flaminio. Dunque non vòi aiutarmi? Leccardo. Credo io ben di no. Don Flaminio. Dunque non vòi? Leccardo. Non voglio e non posso: pigliatevi quale volete di queste due. Don Flaminio. Troppo disamorevole risposta. Leccardo. Troppo sfacciata proposta. Don Flaminio. Leccardo, sai che vorrei? Leccardo. Che fussi appiccato! Don Flaminio. Che quel c'hai a fare lo facessi tosto, ché il giorno va via e la sera se ne viene, e il beneficio consiste in questo momento di occasione. Usarò teco poche parole, ché la brevitá del tempo non me ne concede piú. Mi par soverchio ricordarti le cortesie che ti ho fatte; e il volerti far pregar con tanta instanza diminuisce l'obligo che mi tieni. Vorrei che mi facessi piacere pari alla cortesia, e questo servigio sarebbe il condimento di tutti gli altri. Leccardo. L'impresa che mi proponi è di farmi essere appiccato. Don Flaminio. Fai gran danno non aiutandomi. Leccardo. Maggior danno fo a me aiutandovi. Don Flaminio. Leccardo, to', prendi questi danari. Leccardo. Ho steso la mano. Don Flaminio. Togli questo argento. Leccardo. L'argento mi comanda. Don Flaminio. Togli quest'oro. Leccardo. L'oro mi sforza. Oh come son belli e lampanti! par che buttino fuoco: fanno bel suono e bel vedere. Don Flaminio. Sai che ho degli altri, che posso sodisfare alla tua ingordigia; e tu potrai taglieggiarmi a tuo modo. Leccardo. Vorrei tornarteli, ma non posso distaccarmegli dalle mani. Don Flaminio. Non sai quella pergola di presciutti, quei salsiccioni alla lombarda, quei formaggi e provature; non sai le compagnie di polli, gli esserciti di galline, quei squadroni di galli d'India, le cantine piene d'eccellentissimi vini che ho in casa? Ti chiuderò ivi dentro e non ti farò uscir se non arai divorato e digesto il tutto; sederai sempre a tavola mia con maestá cesarea e ti saranno posti innanzi piatti di maccheroni di polpe di capponi, d'un pasto l'uno, sempre bocconi da svogliati. Leccardo. Panimbolo, che mi consigliaresti per non esser appiccato? Panimbolo. Farti tagliar il collo prima. Leccardo. Il malan che Dio ti dia! Panimbolo. A te ho detto quanto bisogna far per non esser appiccato. Leccardo. A tutti doi voi io lo posso insegnare. Don Flaminio. Che dici eh, Leccardo mio? Leccardo. Che volete che dica? tanti presenti, tante carezze, tante promesse farebbono pormi ad altro pericolo di questo; ma lassami retirar in consiglio secreto. - Leccardo, consiglia un poco te stesso: sei in un gran passo. Dall'una parte sta la fame e dall'altra la forca; e l'una e l'altra mi spaventano e mi minacciano. La fame uccide subbito, la forca ci vuol tempo a venire: la forca è una mala cosa, mi strangolará che non mangiarò piú mai; alla fame darò un perpetuo bando e mi prometto dovizia di tutte le cose. Ahi, infingardo e senza core! i soldati per tre ducati il mese vanno a rischio di spade, di picche, di archibuggi e di artegliarie; ed io per sí gran prezzo non posso contrastar con la forca? Meglio è morir una volta che sempre mal vivere. Ho passati tanti pericoli, cosí passerò quest'altro. Cancaro! si mangiano molte nespole mature, poi un'acerba t'ingozza: «è di errore antico penitenza nuova». Don Flaminio. Risoluzione? ché l'indugio è pericoloso e il pericolo sovrasta. Leccardo. Son risoluto servirvi piú volentieri che non sapresti commandarmi, e avvengane quello che si voglia: sète mio benefattore. Don Flaminio. Avèrti che avendomi a fidar di te tu sia di fede intiera. Leccardo. Interissima: non mai l'ho rotta perché non mai l'adoprai. Don Flaminio. In che cosa mi serverai e in che modo? Leccardo. Del modo non posso deliberare se non parlo prima con Chiaretta, ch'ella tien le chiavi delle sue casse. È gran tempo ch'ella cerca far l'amor con me. Don Flaminio. Bisogna far l'amor con lei e dargli sodisfazione. Leccardo. Piú tosto m'appiccherei. Mai feci l'amor se non con porchette e vitelle; ed è il peggio, ch'è una simia e pretende esser bellissima. Don Flaminio. Bisogna tôr la medicina per una volta. Leccardo. Quando la menerò a casa, fingerò por la mano alla chiave per aprir la porta. Basta: l'ingannerò di modo che mi aiuterá. Don Flaminio. Lodo il consiglio: mandalo in essecuzione. Leccardo. Fra poco saperete la risposta. Don Flaminio. Non vo' risposta ché non ci è tempo: gli effetti rispondino per te. Leccardo. La notte viene: non mi trattenete, ché è vostro danno; io vo con buona fortuna. Don Flaminio. A rivederci. Leccardo. A riparlarci.
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