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Giambattista Della Porta
Gli duoi fratelli rivali

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  • ATTO III.
    • SCENA VII.   Don Flaminio, Panimbolo, Don Ignazio, Simbolo.
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SCENA VII.

 

Don Flaminio, Panimbolo, Don Ignazio, Simbolo.

 

Don Ignazio. Don Flaminio, son andato gran pezzo ricercandovi: voi siate il benvenuto!

Don Flaminio. E voi ben trovato! Che buona nuova, poiché mostrate tanta allegrezza nel volto?...

Panimbolo. (Oh quanto il cuore è differente dal volto!).

Don Flaminio.... che cosa avete degna di tanta fretta e di tanta fatica?

Don Ignazio. Per farvi partecipe d'una mia allegrezza; ché so che ve ne rallegrarete come me ne rallegro io, amandoci cosí reciprocamente come ci amiamo.

Panimbolo. (Mentite per la gola ambodoi!).

Don Flaminio. Rallegratemi presto, di grazia.

Don Ignazio. Perché, partito che fui da voi, andai in casa del conte e mi dissero ch'era andato a Tricarico e che trattava con altri dar la sua figlia, io mi ho tolto un'altra per moglie secondo il mio contento.

Don Flaminio. Non credo sia maggior contento nella vita che aver moglie a suo gusto e suo intento. Quella signora d'Ispagna che trattava don Rodrigo nostro zio?

Don Ignazio. Ho tolto una gentildonna povera ben sí ma nobilissima; ma la sua nobiltá è avanzata di gran lunga dalla sua somma bellezza, e l'un'e l'altra dalla onestá e dagli onorati costumi.

Don Flaminio. Ditelami di grazia, accioché mi rallegri anche io della vostra allegrezza; ché per aver ricusata una figlia de grandi d'Ispagna, dev'esser oltremodo bella e onorata.

Don Ignazio. È Carizia.

Don Flaminio. Chi Carizia? non l'ho intesa mai nominare.

Panimbolo. (Ah, lingua mendace, non la conosci?).

Don Ignazio. Carizia, figlia di Eufranone.

Don Flaminio. Forsi volete dire una giovenetta che nella festa de' tori comparve fra quelle gentildonne con una sottana gialla?

Don Ignazio. Quella istessa.

Don Flaminio. E questa è quella tanto onesta e onorata?

Don Ignazio. Quell'istessa.

Don Flaminio. Or veramente le cose non sono com'elle sono, ma come l'estima chi le possiede.

Don Ignazio. Che volete dir per questo?

Don Flaminio. Che non è tanta l'onestá e il suo merito quanto voi dite.

Don Ignazio. Dite cose da non credere.

Don Flaminio. Ma piene di veritá. Ma dove nasce in voi tanta meraviglia?

Don Ignazio. Anzi io non posso tanto meravigliarmi che basti.

Don Flaminio. Avete fatto molto male.

Don Ignazio. Si ho fatto bene o male non l'ho da riporre nel vostro giudizio.

Don Flaminio. Or non sapete voi ch'ella col far di sé copia ad altri dá da viver alla sua casa, la qual è piú povera di quante ne sono in Salerno e che senza la sua mercanzia non potrebbe sostenersi?

Panimbolo. (Oh come i colori della morte escono ed entrano nel suo volto!).

Don Ignazio. Si fusse altro che voi, ch'ardisse dirme questo, lo mentirei per la gola.

Don Flaminio. Perdonatemi si son forzato passar i termini della modestia con voi, ché quanto ve dico tutto è per l'affezione che vi porto.

Panimbolo. (Ah, lingua traditora!).

Don Flaminio. Dico che fate malamente, ché per sodisfare ad un vostro momentaneo appetito, e d'una finta bellezza di una donnicciola, non stimate una vergogna che sia per risultar al vostro parentado; ché ben sapete che una picciola macchia nella fama di una donna apporta vituperio e infamia a tutti.

Panimbolo. (L'ammonisce per caritá fraterna: che Dio lo benedica!).

Don Ignazio. Io per diligente informazione, che per molti giorni n'ho presa da molte onoratissime persone, ne ho inteso tutto il contrario.

Don Flaminio. Dovete credere piú a me che a niuno.

Don Ignazio. Credo a voi non al fatto.

Don Flaminio. Anzi vo' che crediate al fatto istesso non a me.

Don Ignazio. Ella è tanto onorata che la mia lingua s'onora del suo onore; e avendola ne resto io piú onorato. E voi, per farla da cavaliero, d'una gentildonna dovresti dirne bene ancorché fusse il falso, né dirne male ancorché fusse il vero.

Don Flaminio. Io non ho detto ciò perché sia mala lingua, ma perché sappiate il vero. Ma che non può la forza d'una gran veritá? Perciò non vorrei che correste con tanta furia in cosa ove bisogna maturo consiglio, e poi fatta non può piú guastarsi; e poi dal rimorso di voi stesso vi aveste a pentir d'una vana penitenza.

Don Ignazio. A me sta il crederlo.

Don Flaminio. A voi il credere, a me dir la veritá la qual m'apre la bocca e ministra le parole. Ma io, che tante volte v'ho fatto veder il falso leggiermente, or con tante ragioni non posso farvi creder il vero?

Don Ignazio. E però non vi credo nulla, perché solete dirmi le bugie e conosco i vostri artifici.

Panimbolo. (Oh come mal si conoscono i cuori!).

Don Flaminio. Ma se vogliamo adeguar il fatto, bisogna che ambodoi abbiamo pazienza, voi di ascoltare, io di parlare.

Don Ignazio. Dite suso.

Don Flaminio. Son piú di quattro mesi che me la godo a bell'aggio, né io son stato il primo o secondo; e vi fo sapere che non è tanto bella quanto voi la fate, ché, toltone quel poco di visuccio inbellettato e dipinto, sotto i panni è la piú sgarbata e lorda creatura che si veda.

Don Ignazio. Non basto a crederlo.

Don Flaminio. Né la sorella è men disonesta di lei; e un certo capitano ciarlone, che suol pratticar in casa, se la tiene a' suoi comodi. Or questo, che è il peggior uomo che si trovi, sará vostro cognato; e ci son altre cose da dire e da non dire.

Don Ignazio. Mi par impossibile.

Don Flaminio. Farò che ascoltiati da molti il medesimo.

Don Ignazio. Se non lo credo a voi, meno lo crederò agli altri.

Panimbolo. (Li è restata la lingua nella gola e non ne può uscir parola).

Don Flaminio. E se non lo credete, farò che lo veggiate con gli occhi vostri.

Don Ignazio. Che cosa?

Don Flaminio. Poiché volete sposarla dimani, vo' dormir seco la notte che viene: io sarò sposo notturno, voi diurno. State stupefatto?

Don Ignazio. Se mi fusse caduto un fulmine da presso, non starei cosí attonito.

Don Flaminio. Da un buon fratello come vi son io bisogna dirsi la veritá, poi in cose d'importanza e dove ci va l'onore.

Panimbolo. (O mondo traditore, tutto fizioni!).

Don Ignazio. Odo cose da voi non piú intese da altri.

Don Flaminio. Se vi fusse piú tempo, ve lo farei udir da mille lingue; ma perché viene la notte piú tosto che arei voluto, venete meco alle due ore, che andrò in casa sua: vi farò veder le sue vesti e i doni che l'avete mandati, e ce ne ritornaremo a casa insieme.

Don Ignazio. Se me fate veder questo, farò quel conto di lei che si deve far d'una sua pari.

Don Flaminio. Andiamo a cenare e verremo quando sará piú imbrunita la notte.

Don Ignazio. Andiamo.

Don Flaminio. Andate prima, ché verrò dopoi.

Panimbolo. Giá è gito via.

Don Flaminio. Panimbolo, a me par che la cosa riesca bene.

Panimbolo. Avete finto assai naturale. Mi son accorto che la gelosia li attaccò la lingua che non possea esprimere parola.

Don Flaminio. Io non mi dispero della vittoria.

Panimbolo. Andiamo al fratello, acciò non prenda suspetto di noi e gli ordini presi non si disordenino.

Don Flaminio. Andiamo.

 

 

 




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