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Giambattista Della Porta
Gli duoi fratelli rivali

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  • ATTO III.
    • SCENA XI.   Leccardo, Chiaretta, Martebellonio, Don Ignazio, Don Flaminio.
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SCENA XI.

 

Leccardo, Chiaretta, Martebellonio, Don Ignazio, Don Flaminio.

 

Leccardo. Entrate, signora, in questa camera qui vicino.

Chiaretta. T'obedisco.

Leccardo. Serratevi dentro e aspettatemi un pochetto. - Capitano, sète voi?

Martebellonio. Pezzo d'asino, non mi conosci?

Leccardo. Non vi conoscea, perché me diceste che venendo la vostra persona arei sentito il terremoto: son stato gran pezza attendendo se tremava la terra, però dubitavo se foste voi.

Martebellonio. Dite bene, e ti dirò la cagione. Poco anzi mi è venuta una lettera dall'altro mondo. Plutone mi si raccomanda e mi prega che non camini cosí gagliardo, che vada pian piano, ché tante sono le pietre e le montagne che cascono dagli altissimi vòlti della terra, che mancò poco che non abissasse il mondo e sotterrasse lui vivo con Proserpina sua mogliere. Gli l'ho promesso, e perciò non camino al mio solito.

Leccardo. Entrate, ché Calidora vi sta aspettando.

Don Flaminio. Che dici, fratello? è vero quanto vi ho detto? Io farò il segno: fis, fis.

Leccardo. Signor don Flaminio, Carizia vi prega a disagiarvi un poco, perché sta ragionando col padre.

Don Flaminio. Se ben è alquanto bellina, io non la teneva in tanto conto quanto voi.

Don Ignazio. Non vi ho io dimandato piú volte se in quel giorno della festa vi fusse piaciuta alcuna di quelle gentildonne, e mi dicesti di no?

Don Flaminio. Era cosí veramente; ma essendomi offerta costei con mio poco discomodo, me ce inchinai.

Leccardo. Signor don Flaminio, Carizia v'aspetta agli usati piaceri, e che le perdoniate se vi ha fatto aspettar un poco.

Don Flaminio. Don Ignazio, non vi partite; forse vi porterò alcuni de' suoi abbigliamenti e de' doni mandati.

Don Ignazio. Aspettarò sin a domani. - Che dici, Simbolo, aresti tu creduto ciò mai?

Simbolo. Veramente delle donne se ne deve far quel conto che dell'erbe fetide e amare che serveno per le medicine, che cavatone quel succo giovevole si buttano nel letamaro: come l'uomo si ha cavato quel poco di diletto che s'ha da loro, nasconderle ché piú non appaiano.

Don Ignazio. Veramente la femina è un pessimo animale e da non fidarsene punto. Ahi, fortuna, quando pensava che fussero finite le pene e cominciar la felicitá, allor ne son piú lontano che mai!

Don Flaminio. Don Ignazio, dove sète? Conoscete voi questa sottana gialla che portò quel giorno? non è questo l'anello che l'avete mandato a donare, le catene e gli altri vezzi di donne?

Don Ignazio. Li conosco e mi rincresce conoscerli.

Don Flaminio. Vi lascio le sue cose in vece di lei per questo breve tempo che mi è concesso goderla.

Don Ignazio. Eccole, tornatele adietro.

Don Flaminio. Vi lascio la buona notte.

Don Ignazio. Anzi notte per me la piú acerba e d'infelice memoria che sia mai stata! O stelle nemiche d'ogni mio bene - ben posso io chiamarvi crudeli, poiché nel nascer mio v'armaste di cosí funesti e miserabili influssi, - deh, fuggite dal cielo, spengete il vostro lume e lasciate per me in oscure tenebre il mondo! O luna, oscura il tuo splendore e cuopra il tuo volto ecclisse orribile e spaventoso, e in tua vece veggansi orrende comete colle sanguigne chiome! O maledetto giorno ch'io nacqui e che la viddi e che tanto piacque agli occhi miei! Ahi, dolenti occhi miei, a che infelice spettacolo sète stati serbati insin ad ora! veder ch'altri goda di quella donna che mi era assai piú cara dell'anima istessa. Ahi, che sento stracciarmi il cuore dentro da mille orsi e da mille tigri, e la gelosia m'impiaga l'anima di ferite inmedicabili e immortali! Ahi, Carizia, cosí onori il tuo sposo? queste sono le parole che ho intese da te questa mattina? non avevi altri uomini con chi potevi ingannarmi, e lasciar mio fratello? e se mi dispiace l'atto, mi dispiace piú assai con chi l'hai tu adoperato.

Simbolo. Padrone, fate resistenza al male, ché non è maggior male che lasciarsi vincere dal male.

Don Ignazio. Ma io non sia quel che sono se non ne la farò pentire.

Simbolo. Dove andate?

Don Ignazio. A consigliarmi con la disperazione, con le furie infernali, ché non so quale in me maggior sia l'ardore, il dolore o la gelosia.

Don Flaminio. Panimbolo, son partiti?

Don Ignazio. Sí, sono.

Leccardo. Don Flaminio, come sei stato servito da me?

Don Flaminio. Benissimo, meglio che s'io fussi stato nel tuo cuore o tu nel mio.

Leccardo. Che dici del capitano, del suo non aspettato e fattoci beneficio?

Don Flaminio. La fortuna non ha ingannato punto il nostro desiderio.

Leccardo. Mai mi son compiaciuto di me stesso come ora, tanto mi par d'aver fatto bene.

Don Flaminio. Te ne ho grande obligo.

Leccardo. Ne avete cagione.

Don Flaminio. Panimbolo, par che siamo fuori di periglio.

Panimbolo. Anzi or siamo nel periglio; e poiché si è cominciato, bisogna finire, ché non facci a noi egli quel che pensiamo di far a lui.

Leccardo. La fortuna scherza con noi, ché scambievolmente abbassa l'uno e inalza l'altro.

Don Flaminio. Patisca or egli quelle pene che ha fatto patir a me! Egli piange ed io rido.

Leccardo. Ben sará se non s'appicca con le sue mani!

Don Flaminio. Questo bisogno sarebbe a punto per farmi felice! Andiamo.

Leccardo. Ed io vo' entrar qui dentro e prendermi spasso di Chiaretta col capitano.


 

 

 




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