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Giambattista Della Porta
Gli duoi fratelli rivali

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  • ATTO IV.
    • SCENA V.   Leccardo, Don Flaminio, Panimbolo.
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SCENA V.

 

Leccardo, Don Flaminio, Panimbolo.

 

Leccardo. (Se mi fussero stati posti innanzi galli d'India cotti senza esser impillottati, caponi duri, brodo macro e freddo, non arei potuto aver maggior dispetto di quel che ho avuto quando viddi morta Carizia. Oh come intesi darmi colpi mortali allo stomaco e alla gola! Veggio don Flaminio molto gioioso; ma diverrá subbito doglioso come saprá quanto sia per dirgli).

Don Flaminio. Leccardo mio, i segni di mestizia che porti scolpiti nel fronte mi dán segno d'infelice novella: parla con la possibil brevitá. Oimè, tu taci e par che col tuo silenzio vogli significar qualche sinistro accidente!

Leccardo. (Desia saper quello che li dispiacerá d'averlo saputo; ma va' meno amareggiarlo al possibile).

Don Flaminio. Deh, comincia presto!

Leccardo. Di grazia, portami al monte di Somma, dove nasce quella benedetta lacrima che bevendola ti fa lacrimare, acciò bevendone assai possa lacrimar tanto che basti, ché or mi stanno gli occhi asciutti come un corno.

Don Flaminio. (Col tardar piú m'accresce il sospetto).

Leccardo. Oimè, quella faccia piú bianca d'una ricotta, quelle guancie piú vermiglie di vin cerasolo, quei labrucci piú cremesin d'un presciutto, quella..., ahi! che mi scoppia il core,...

Don Flaminio. Che cosa? sta male?

Leccardo. Peggio!

Don Flaminio. Ecci pericolo della vita?

Leccardo. Peggio!

Don Flaminio. È morta?

Leccardo. Peggio!

Don Flaminio. Che cosa piú peggio della morte?

Leccardo.... è morta, e morta disonorata!

Don Flaminio. O Dio, che nuova è questa che tu mi dái?

Leccardo. E mi dispiace darvela: e non vorrei sentiste da me quello che sète per intendere; ma avendolo a sapere, fate buon animo. Don Ignazio non so che ingiuriose parole disse ad Eufranone. Il quale, vinto in quel punto dal furore e inasprito dall'ira, con la schiuma in bocca com'un cignale, venne su e caricando la figlia di villanie correa col pugnale in mano per infilzarla come un tordo al spedo. A questo la moglie se le fe' incontro e lo risospinse adietro. Instupedí la povera figlia e aiutata dalla sua innocenza diceva: - Padre mio, ascolta le mie ragioni; se conosci che ho fallato, ti porgerò il petto ché mi ammazzi! - Egli, come un vitello che cerca di scappar di mano di coloro che lo conducono al macello, cercava scappar da man di quelli che il tenevano. Carizia cercava parlare, ma le lacrime l'impedivano; poi disse a fatica: - La conscienza mia pura mi liberará dall'obbrobrio della calunnia, ché questa sola ha lassato Iddio per consolazion degl'innocenti! - Queste ultime parole morîr fra le labra, ché appena fûr udite; e morí prima della ferita. S'affoltavan i parenti per sovenirla; ma - Lasciate lasciate - gridava Eufranone - che l'uccida il dolore prima che l'abbi ad uccider il ferro, e che prevenga la violenza la voluntaria morte; e questo volerla far vivere è piú tosto opra di crudeltá che di pietá! - Cosí morí com'un agnello, e rimase con la bocca un poco aperta com'un porchetto che s'arroste al foco. Ancor morta par bella e t'innamora, perché è morta senza offesa della sua bellezza....

Don Flaminio. Ahi, padre troppo austero e troppo nemico del suo sangue!

Leccardo.... Gli occhi miei, che mai piansero, piansero allora. Eufranone la fe' subbito inchiudere in un'arca e fecela sotterrar nella chiesa vicina per la porta di dietro, per non poner a romor la cittade.

Don Flaminio. Dunque è pur vero che l'anima mia sia morta, e seco morto ogni mio bene; e sepolta ancora, e con tanta bellezza sepolta ogni mia gioia e me sepolto in un infinito dolore! Gli occhi, che avanzavan il sol di splendore, son chiusi in eterno sonno, e la bella bocca in perpetuo silenzio. Ahi, non fia vero giá ch'essendo tu morta, io voglia restar in vita. È morta la sposa nel piú bello delle speranze! Oh com'invan s'affatica chi vuol contrastar col cielo, il qual è piú possente d'ogni umano consiglio! Ho dato la morte da chi sperava la vita; ed io, che di tanto mal son caggione, vivo e ardisco spirar quest'aria? Ho nociuto a me stesso e patisco il mal che ho fatto a me medesimo. Che m'ha giovato aver travagliato tanti anni nella guerra, esposto il petto a mille perigli, imitar tanti esempi onorati per segnalarmi cavalier d'eterna lode, e or per un sensual appetito son stato nocevol cagione della morte d'una innocente? tradito un fratello, infamato lei e il padre, e disonorato il parentado? Ecco oscurata la gloria di tanti anni e di tante fatiche, e divenuto non cavalier d'onore ma d'infamia, non di pietá ma d'impietade. Dove mi nasconderò che non sia visto da uomo vivente? dove andrò, dove mi nasconderò ché fugga e mi nasconda a me stesso? ché la coscienza afflige piú di quanti tormenti può dar uomo vivente. Orsú, come cagione di tanto male, bisogna che pigli vendetta di me medesimo, che con un laccio mi toglia da tanto vituperio. Ahi, Panimbolo, tu fosti autor del malvaggio e da me mal preso consiglio; ed io piú isconsigliato che lo presi, ché da sí cattivo principio non poteva aspettar altro che l'infame e doloroso fine.

Panimbolo. Padrone, non è stato cosí mal il mio consiglio come la mala fortuna, ché l'una è sovraggionta all'altra, e noi per ischivarne una siamo incorsi in una peggiore: e da un error ne vengono mille, e ogni cosa è riuscita in nostro danno, e il mal sempre è andato crescendo di mal in peggio; né la fortuna istessa arebbe potuto rimediar a tanti infortuni. E quando la mala fortuna vuol rovinar alcuno, fa possibile l'impossibile.

Don Flaminio. Non è stata tanto la mala fortuna quanto il tuo cattivo consiglio; né in cose disconvenevoli dovevi tu prestarmi consiglio né agiuto.

Panimbolo. Voi che mi avete sforzato con tanti comandi m'accusate contro ragione. Ma chi può gir contro il cielo? Ed essendo il mondo cosí sregolato e insconsigliato, con che ragione o consiglio potete regolarvi con lui? Non conoscete, come umana creatura, che tutte le cose son instabili e incerte e che il mondo inchina or ad una e or ad un'altra parte? E l'uomo accorto nella necessitá de' pericoli deve accomodar l'animo suo alla prudenza; ma la nobiltá del vostro sangue dovrebbe destar in voi l'ardire e farvi caminar nel termine della modestia, soffrir e conservar voi stesso a piú liete speranze.

Don Flaminio. Io non temo piú i colpi della fortuna, ché è morta ogni fortuna per me: non bisogna piú ordir fraudi e inganni; non ho piú sospetto di niuno, poiché è morta la cagion di tutte queste cose. Ahi, che pena converrebbe al mio fallo? Mi conosco degno di maggior pena che la morte: bisognaria che morisse d'una morte che mai finisse. Ma prima che morisse, desiderarei restituir l'onor che l'ho tolto, e scoprir l'inganno che l'ho fatto.

Panimbolo. Ecco il vostro fratello che viene a voi.

 

 

 




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