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Felice Venosta
Elena di Campireali Abadessa di Castro

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  • I.
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I.

 

Forse nelle veglie, o in romito luogo, mentre la cadente sera ci invita a dolce tristezza, udiste già da caro labbro la storia che ci accingiamo a scrivere. Leggeteci tuttavolta, o voi che studiate dimenticare i dolori che travagliano questa misera terra colla pietà per gli altrui affanni; che dotati d'intelletto di gentili cose sapete compatire, perdonare.

La nostra storia è un nuovo fiore tolto alla città eterna, ove sempre viviamo coll'anima.

Nella medesima guisa che allettaci un'armonia udita e riudita, poichè in essa vi discopriamo sempre nuove bellezze; così è degli amori di una donna romana che si chiamava Elena. Assai sofferse la tapina: e le lagrime di lei vennero raccolte dalla memoria del popolo, trasmesse al vigile cronista, e rivestite di quelle forme che ai tempi d'allora si addicono: la sua storia fu quale noi la sentiamo in oggi nel cuore.

Correva l'anno 1542, quando Elena di Campireali veniva alla vita nella gentile Albano. Il padre suo era riputato il più ricco patrizio del paese; e come tale aveva sposata Vittoria Caraffa, la quale possedeva estesi poteri nel regno di Napoli.

Il signore di Campireali godeva fama di essere uomo assai onesto, e molto prodigo co' poveri: ciò che gli procacciava ogni sorta di benedizioni, e l'amicizia de' conventi.

E trovavasi per lo appunto un a quello di Monte-Cavi onde visitare un frate, che spesse fiate era stato sorpreso nella propria cella in estasi, sorretto da terra dagli Angeli come san Paolo, quando venne a sapere la più terribile delle cose. Il sant'uomo gli disse essere scritto ne' cieli che la sua famiglia si spegnerebbe con esso lui, che soltanto due figliuoli avrebbe, che questi perirebbero di morte violenta.

Non sorridano i nostri leggitori, ché tutti i popoli s'ebbero ognora i loro profeti, ed ogni forte disastro fu sempre previsto. Non saprei darne la ragione, scrive Machiavelli, ma è testificato da tutta la storia antica e moderna, che non accade quasi mai grande sventura che non sia stata predetta.

Il signore di Campireali era un uomo di poco spirito; imbevuto delle massime di que' tempi, credeva a quanto gli veniva detto, e molto se da ministri della chiesa. Epperò dopo la fatale predizione non trovò altro rimedio che d'andare ad abitare il suo palazzo di Albano. E così fece.

Colà si diede alla coltivazione delle ubertose sue terre, e cercò dimenticare quanto gli era stato pronosticato.

Non trascurò tuttavia l'educazione de' proprj figli: Fabio, giovane altiero di sua schiatta, ed Elena, che fu un prodigio di bellezza1, vennero allevati così finemente più che al loro rango si addicesse.

Dopo di essere stata per otto anni consecutivi, come educanda, nel convento della Visitazione in Castro2, Elena ritornò al paterno focolare; ma prima di dipartirsi dalle sante sue institutrici, volle lasciare memoria di , ed offrì all'altare maggiore del tempio un calice, la cui ricchezza ed il cui lavoro peregrino attiravano l'ammirazione di tutti.

Appena giunta in Albano, le venne dal padre procurato un maestro, onde la mente di lei facesse tesoro di quelle scienze, che al convento non aveva potuto apparare. Per lo che il celebre poeta Cecchino, allora già assai innanzi negli anni, fu chiamato da Roma; ed egli ornò la mente della giovinetta coi più bei versi di Virgilio, di Dante, di Petrarca e di Ariosto. Sembra che Elena sapesse già di latino; imperocchè molte delle poesie che declamava erano scritte in quella lingua; e queste e le altre poesie con cui intratteneva le elette brigate, favellavano di un amore che ci parebbe assai ridicolo, se ci fosse dato vederlo in effetto nella seconda metà del decimonono secolo, che come ognuno sa la è quella del maggiore progresso. Quello era un amore appassionato che si pasceva de' più grandi sacrificj, avvolto perciò nel mistero o minacciato dalle più spaventevoli disgrazie.

E tale un amore seppe Elena far nascere nel cuore di un certo Giulio Branciforte.

Elena non oltrepassava allora i diciassett'anni: grande della persona, augusta negli atti, aveva lineamenti e contorni di una grazia incantevole: due occhi neri, nerissimo il diffuso volume della chioma. Tutto in lei era aggentilito dal fiore, dal sorriso della prima età, tutto rallegrato da quell'aura di pace e di contento, da quel molle e misterioso profumo che esala da un'anima ignara delle tempeste della vita, non ben conscia per anco di stessa.

Giulio era un giovine che abitava una casa di misera apparenza edificata sul pendio d'un monte, a un miglio circa dal palazzo dei Campireali, fra gli avanzi dell'antica Alba, precisamente di contro al lago. Quell'abituro venne poscia demolito, e sui suoi ruderi sorse superbo il convento di Palazzuola.

Giulio sopportava colla più grande indifferenza la miseria, in cui allora si trovava; il volto di lui ardito ed aperto, aveva, senz'esser bello, un non so che di attraente che facilmente gli acquistava la simpatia di coloro che lo avvicinavano.

In quanto al suo coraggio la fama ne cantava le lodi; e moltissimi opinavano che, sotto gli ordini del principe Colonna e fra i suoi bravi, si fosse ei trovato più volte in rischiose imprese.

Ed era forse cotesta la ragione che, malgrado non avesse sortito dalla natura appariscenti forme, avesse potuto piagare il cuore di Elena.

Ovunque bene accetto, Giulio aveva avuto quasi sempre in spregio l'amore. Ma con Elena gli si aprì un'êra novella; imperocchè v'hanno nella vita dell'uomo quell'ore in cui siamo costretti a credere, e ad amare. Non è a dire se la gelosia ed il dispetto delle forosette, quando si accorsero che i pensieri di Giulio erano rivolti altrove, nuocessero alle precauzioni che ei prendeva per nascondere la passione. E vaglia il vero, quell'amore fra un giovine di ventidue anni e una fanciulla di diciassette, venne condotto contro ogni regola della prudenza.

Non erano per anche scorsi tre mesi, quando il signore di Campireali si accorse che Giulio asolava troppo di sovente sotto le finestre del palazzo, che esisteva verso la metà della strada che mette capo al lago.

Il signore di Campireali era uno di quegli uomini leali e franchi che non saprebbero fingere per tutto l'oro del mondo: per lo che appena le frequenti apparizioni di Giulio cominciarono a stancarlo, mandò per lui, e tale un discorso gli tenne:

– Non so capire come tu abbia l'arditezza di passare ad ogni istante sotto le finestre di questo palazzo, ed insolenti occhiate lanciare alla figliuola mia, vestito qual tu sei. Se non temessi che darti tre zecchini d'oro potesse spiacere a' miei vicini, lo farei onde tu traessi a Roma a comperare un abito più decente per te. Almeno la mia e la vista di Elena non verrebbero offese dall'aspetto de' tuoi cenci.

Il signore di Campireali esagerava: le vesti di Branciforte non cadevano punto a lembi. Erano fatte di grossolani panni egli è vero, ma erano sempre linde. Se c'era difetto, era che a chiare note mostravano come fossero da molto tempo uscite dalle mani del sartore.

Giulio ebbe l'animoprofondamente ferito dalle parole del signore di Campireali che più non osò gironzare di giorno innanzi al suo palazzo.

Elena rimarcò tosto l'assenza del giovine, che, al dire degli amici, aveva abbandonate tutte le relazioni, per consacrarsi alla felicità che provava a contemplarla.

Era una notte di estate; una di quelle notti d'Italia così placide, così piene di stelle che infondono nell'animo una pace beata.

Soffulta al verone, Elena era assorta in fantastici sogni, mossi in lei dallo spettacolo di sì limpida sera. Un'ora passò d'estasi e di febbrile lirica: i suoi pensieri a mo' di cavalli indomiti senza posa correvano; finchè a mano a mano discesa da quel rapimento, si trovò sul ciglio una lagrima, e sentì più che mai forte il bisogno di una fede e di un cuore ove adagiare l'anima sua.

Ad un tratto ella si riscosse: aveva scorto un oggetto, come un'ala silenziosa, passare rasente la finestra. Si distaccò spaventata sulle prime; ma guardando meglio, riconobbe essere soltanto un mazzo di fiori. Il cuore le battè con violenza; le sembrò che i fiori fossero infissi in una di quelle lunghissime canne di cui v'ha grande abbondanza nelle romane campagne.

Immobile, coll'occhio fisso, Elena sembrava agitata, perplessa. Ma il padre ed il fratello erano in casa; e pensò che il minimo rumore poteva essere seguito da un colpo d'archibugio diretto sul donatore, che il cuore le diceva non essere che Giulio: un senso di pietà tutta la commosse.

Ristette ancora un istante; però fattasi coraggio, prese con ambo le mani il mazzo di fiori e se lo portò alle labbra. Nel baciarlo e ribaciarlo si accorse che nascondeva un foglio. Tutta festosa corse sotto una lampada che innanzi ad una Vergine ardeva, e lesse.

Imprudente, disse fra , poichè le prime linee l'ebbero fatta arrossire di gioia, se son veduta, che sarà di me, che sarà di lui!...

Trasse quindi alle proprie stanze ed accese una di quelle lucerne a tre luminelli, che tuttodì costumasi in Roma. Quel momento fu soavissimo per Giulio, il quale, tutto vergognoso di ciò che aveva fatto, s'era accoccolato sotto una delle immani querce che facevano corona al palazzo Campireali.

Nel foglio, Giulio le raccontava, colla più grande semplicità, quanto gli avesse detto il padre.

«Io sono povero, continuava egli, molto povero. Non posseggo che una casa, che un giardino, che voi forse avrete scôrto sotto le rovine dell'acquedotto d'Alba, e una vigna, che a malgrado di tutte le mie cure, dammi soltanto trenta scudi annui di rendita... Nondimeno io oso amarvi, e assai. Io v'amo con quell'ardore possente, con quella fiamma che compenetra l'ossa, invade ogni fibra e consuma la vita. Non so se tal sentimento sarammi fonte di gioje o di più amare trafitte; ma, da voi amato, dovessi anche perdere la vita sarò felice; imperocchè dipartendomi di quaggiù il pensiero del vostro amore mi infiorerà le spoglie di morte; la vostra immagine mi seguiterà ne' secoli eterni. Oh, morire per voi sarebbe un donogrande che prostrato ai piedi de' miei nemici li supplicherei colle lagrime più infuocate del cuore a concedermelo!... Innanzi vedervi io viveva una vita beata; e posso dire che toccando alla felicità sono divenuto infelice. Nessuno avrebbe allora osato dirmi parole oltraggianti: il mio pugnale avrebbe fatta pronta giustizia. Col coraggio e colle armi io mi riputava eguale a chiunque: nulla mancavami. Oggidì tutto è cangiato: conosco il timore. Se sentite, come spero, un senso di pietà per me, sciegliete un fiore e gettatemelo: io lo attendo; e lo attenderò ogni sera al tocco della mezzanotte sotto le finestre vostre.

Quella lettera venne letta e riletta. A poco a poco gli occhi di Elena si empirono di lagrime, considerava con tenerezza il magnifico mazzo di fiori che aveva dinanzi avvinti con fortissima seta. Si sforzò di strappare una viola, ma non ne venne a capo: fu colta da un rimorso. Fra le fanciulle romane sfogliare un fiore, mutilare in un modo qualunque un dono dato dall'amore, egli è come volere che tale amore si spegna. Corse al balcone; temeva che Giulio potesse perdere la pazienza. Ristette d'un tratto: il pensiero che potesse essere scôrta le rampollò nella mente. Il tempo frattanto fuggiva; l'idea che Giulio potesse credere che lei, come il padre, sentisse sprezzo per la povertà sua, vinse ogni battaglia. Vide sulla tavola un pellegrino lavoro di marmo, lo mise in una bianca pezzuola, ne fece un involto, un batuffoletto, e legatolo ben bene in giro con della cordellina lo gettò abbasso, per lo appunto ove se ne stava raggomitolato il garzone e fecegli cenno ch'e' avesse a dipartirsi. Giulio ubbedì; e la giovinetta udì perdersi di lontano il fruscio de' suoi passi, come pure le parole d'amore, che col canto uscivangli dalle labbra.


 





1 Il ritratto di Elena di Campireali ammirasi tuttora in Roma nella pinacoteca del palazzo Farnese.



2 Castro, borgo negli Stati Pontificj. È situato sulla destra dell'Olpeta; ed era per lo passato bella e popolosa città, che portava il titolo di ducato. Apparteneva alla famiglia Farnese, alla quale venne tolto da Urbano VIII. Nel 1647 venne quasi tutta distrutta da Innocenzo X, perchè gli abitanti, in una sommossa popolare, uccisero il proprio vescovo: d'allora in poi più non risorse. Vi aveva in quella città un convento detto della Visitazione, ove traevano in educazione le figliuole di quasi tutti i principi romani.





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