X.
La mattina del combattimento,
prima cura della madre badessa fu di far rimettere, come si suol dire, l'uscio
ne' gangheri, di nascondere agli occhi del mondo i morti rinvenuti nel
giardino, di curare colla massima segretezza i feriti, di mandare infine quà e
là fidate persone, le quali, spargendo voci tutt'opposte dal vero accaduto, ne
dessero un'idea confusa, sbiadita. Senza che noi lo diciamo, i nostri lettori
potranno per sè stessi immaginare i cicalecci, i commenti che si saranno fatti
là nel convento; imperocchè ognun sa quanto piaccia alle monache di sapere le
storie per minuto. Al primo colpo di fuoco, Elena tremò pei giorni dell'amante,
e ad altro non pensò che di fuggire seco lui appena l'occasione le si fosse
presentata.
E non è a dire quanto grande fu
la sua disperazione quando udì da Marietta, come Giulio fosse gravemente
ferito, e ch'ella stessa ne avesse veduto il sangue a colare. All'ora consueta
donna Vittoria si recò dalla figlia, e di nulla parlò; se non che scorgendo sul
tavolino un mazzo di fiori tinto di sangue, le disse:
– Elena, fa di bisogno gettar
via que' fiori sporchi di sangue.
– E perchè? non fui io forse che
feci versare quel sangue generoso?
– Ami adunque ancora l'uccisore
di tuo fratello?
– Se l'amo; non è egli il mio sposo!
La signora di Campireali s'imbronciò,
e ne' tre giorni che ancor rimase nel convento, tenne favella alla figliuola; e
questa incaparbita stava sulle picche e sui dispetti.
Alcuni giorni dopo la partenza
di donna Vittoria, Elena e Marietta, travestite da operai, fuggivano da Castro,
e non senza lievi pericoli, giungevano a Petrella, e si presentavano al
principe Colonna onde sapere di Giulio.
– Che venite a fare costì? le
disse il Colonna con mal piglio, quand'Elena si fece conoscere. Che significa
questo imprudente passo? Sette de' più valenti uomini d'Italia son morti a
cagione del vostro pazzo procedere. È pur per questo che Giulio Branciforte
venne n'ha guari riputato sacrilego, e condannato ad essere tanagliato
per due ore, e bruciato poscia vivo come un ebreo, lui bruciato! il miglior
cristiano che mi sappia. Senza le vostre chiacchiere, nessuno avrebbe osato
inventare quell'orribile menzogna che Giulio era a Castro la notte che hanno
attaccato il convento. Tutti i miei soldati asseverano ch'ei era a Velletri,
ove l'aveva mandato.
– È però vivo? sclamò Elena
tutta in lagrime.
- È morto per voi, riprese il
principe: voi più non lo vedrete. Vi consiglio a ritornare al vostro convento,
e a non dire che avete parlato con me... guai!...
Elena si recò invece ad Albano
in casa della sua nutrice; scrisse colà lettere sopra lettere a Giulio, e non
ottenendo mai risposta, si decise di ritornare a Castro, persuasa ormai che il
misero era veramente morto, e morto per lei.
Elena non venne punto
rimproverata per la sua assenza: anzi, dal momento che fece ritorno in convento
cominciò ad essere trattata nel modo il più principesco che mai. Era che,
venuto a morte il signore di Campireali, quella fanciulla andava in possesso di
una considerevole fortuna, la quale stuzzicava alquanto la cupidigia di quelle
suore. Ell'era ancor ne' primi giorni di corrotto, quando una mano sconosciuta
le consegnò una lettera di Giulio. Non è facile cómpito il narrare lo slancio d'amore
col quale venne aperta quella missiva, nè la tristezza profonda che ne seguì la
lettura. Branciforte le narrava tutto quanto aveva fatto dalla notte dell'assalto.
E' aveva dovuto fuggire su quel di Napoli sotto mentito nome; condannato ad
essere tanagliato e bruciato vivo, e non sentendosi sicuro colà, aveva dovuto
cedere alle reiterate istanze del principe Colonna, ed era sulle mosse per
recarsi in Ispagna.
«Io sono stato condannato,
proseguiva nella lettera, al più atroce de' supplizi, eppure nessun testimonio
può asseverare di avermi conosciuto, allorchè vestito da corriere cercai
rapirvi dal convento: io devo abbandonare questa bella Italia, il paese ove
nacqui, la casa, il giardino dove corse il tempo della mia innocenza, dove
vissi in compagnia di persone care; e per chi? Nell'ora in cui lo stanco mortale
trova nelle dolcezze de' sonni un lenimento al dolore, un oblio della vita, ti rugge
come fulmine sul capo l'anatema del tradito amante. Da questo momento il cielo
a me ti sommette; da quest'istante io t'avvolgo nel manto d'una maledizione che
ti seguirà sin oltre la tomba: il mio nome ti sarà un rimorso perenne, ti
colmerà di strazianti terrori. Tu mi cacciasti da te come si caccia il
lebbroso, anzi m'apristi la via del delitto. Arditamente io la corro, ma a te
la colpa, sotto il peso d'una spirituale catena tu intanto vivrai al pari di me
misera e infame; esecrata dal cielo e dagli uomini, esecrerai uomini e cielo.
Il vase della mia fiera imprecazione è scagliato; or dispérati e muori»
Noi passeremo rapidamente su
dieci anni d'una vita infelice. L'animo nostro è amareggiato alla vista della
lotta che dovè sostenere la misera, rifugge inorridito ai raggiri di cui fu
fatta segno.
Sembrò impossibile ad Elena che
Giulio avesse potuto vergare quel foglio; ella sentiva in sè qualcosa di
inesprimibile che le diceva non esserne lui l'autore. Diresse più lettere al
giovine, e tutte rimasero senza risposta; di maniera che a poco a poco si
persuase che era veramente dimenticata da lui che sempre amava. In tale
credenza incresciosa le tornò la vita; divenne in uggia a sè stessa. Rifiutò
apertamente tutti gli omaggi che le tributavano i più distinti signori di Roma;
una sol fiata titubò alquanto, cioè quando le venne parlato di Ottavio Colonna,
figlio primogenito del famoso Fabrizio. Le sembrava che dovendo, dietro le
istanze della madre, assolutamente scegliere uno sposo, onde dare un protettore
alle terre che possedeva nello stato romano e nel regno di Napoli, le sarebbe
meno odioso di portare il nome d'un uomo, che Giulio aveva un dì amato. Se
Elena avesse accondisceso ad un tale maritaggio, avrebbe saputo tutta la verità
su di Giulio. Il vecchio Colonna parlava sovente e con trasporto delle gesta
del colonnello Lizzara, e sotto questo nome avrebbe riconosciuto il suo antico
amante, il quale, a mo' degli eroi dell'Ariosto, cercava dimenticare l'infelice
suo amore colle più belle azioni che mai. Giulio credeva Elena maritata già da
tempo: nel modo stesso che, questa veniva pasciuta colle più infami menzogne da
donna Vittoria, l'altro da quest'ultima lo era del pari.
Un giorno venne sparsa la
notizia che lo scomunicato, l'eretico (con tali nomi veniva chiamato Giulio),
era morto nel Messico combattendo contro i selvaggi, e che il buon papa
Gregorio XIII, mosso a pietà dell'anima dell'infelice, aveva chiesto a Dio il suo
perdono.
Elena a quell'annuncio rimase di
sasso; per sei mesi continui stette rinchiusa nella sua stanza, tutta
concentrata in sè stessa; indi, uscendo, per così dire, da quello stato di
letargo, l'animo di lei, già affranto da una disgrazia senza rimedio, fu scosso
da un senso di vanità.
L'abbadessa era morta da poco.
Secondo l'uso, il cardinale di Santi-Quattro, che era il protettore della
Visitazione, aveva inscritto su d'una lista i nomi delle tre monache che
dovevano essere sottoposte alla scelta del Papa. Il nostro cronista dice: che
facevano di mestieri gravissimi motivi per decidere Sua Santità a leggere gli
ultimi due nomi: si accontentava ordinariamente di passare due tratti di penna
su questi, e l'abbadessa era creata.
Un giorno che Elena stavasene
alla finestra, vennero a passare di sotto a questa le tre candidate; la
fanciulla, tutta assorta ne' suoi pensieri, non aveva loro posto mente. L'una d'esse,
facendo un segno alle compagne, sclamò ad alta voce:
– Eh, quella ragazza! è cotesto
il modo di comportarsi con chi è più di voi?
Elena, destata da quelle parole,
guardò, e scôrse tre sguardi insultatori fissati su lei.
– Il tempo della riscossa è
giunto, rispose chiudendo la finestra; sino ad ora fui agnello, ma per lo
innanzi sarò lupo.
Poco dopo, un suo famigliare,
saliva in arcione, e la seguente lettera recava a donna Vittoria, la quale già
da molto tempo abitava Roma, e vi aveva acquistato un gran credito.
«Carissima madre,
«Ho deciso. Io non vo' punto
maritarmi; io voglio divenire badessa di questo convento. Io non vi dirò
ciò che dovrete fare onde il desiderio mio sia pago. Voi meglio di me sapete
come vanno condotte simili faccende: adoperatevi e l'intento nostro sarà
conseguito. Io trovo pazza la mia idea; ma tant'è, ho deciso. Fra tre giorni
prenderò il velo, otto anni d'un continuo soggiorno al convento mi danno
diritto ad una esenzione di sei mesi, la dispensa non mi sarà rifiutata, non
rimane quindi d'ottenere che l'elezione della abbadessa venga protratta di sei
mesi».
Una tale missiva colmò di gioja
donna Vittoria. Ella che già si pentiva di aver fatto sparger la voce della
morte di Giulio, imperocchè l'immensa malinconia in cui era immersa la
figliuola le dava a temere avesse ella ad andare nel Messico, onde accertarsi se
egli fosse veramente morto, sentiva d'un tratto un filo di speranza animarla e
confortarla. D'altra parte però, ciò che chiedeva Elena era cosa difficile anzi
che no, per non dire assurda. Una giovane che non era ancor monaca, una giovane
conosciuta pel pazzo suo amore, essere messa alla testa d'un convento ove tutti
i principi romani avevano qualche parente! Non disperiamo però, andava seco
stessa dicendo donna Vittoria, non disperiamo; a questo mondo si può ottenere
ciò che si vuole. Recossi ella tosto dal cardinale di Santi-Quattro, e dopo una
lunga conferenza tenuta con quel porporato, ebbe la certezza che l'elezione
dell'abbadessa verrebbe differita a sei mesi.
Passeremo sotto silenzio una
quantità di circostanze, che, quantunque dipingano benissimo i costumi di quell'epoca,
ci sembrano non proprie a raccontare. Sappia soltanto il lettore, che due anni
dopo i fatti narrati, Elena era badessa di Castro, e il cardinale di
Santi-Quattro morto di dolore per un grande atto di simonia.
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