XI.
Verso il mese di luglio del 1573
era un fermarsi, un domandare, un raccontare, un far atti di maraviglia nella
piccola città di Castro. Alcuni accusavano la nuova abbadessa di galanteggiare
col vescovo di Castro Francesco Cittadini; ed altri asseveravano nientemeno di
sapere qualcosa di più. Erano male lingue? Erano verità quelle che venivan
dette?.... Sono quesiti cotesti che i nostri lettori scioglieranno da per sè
terminata la presente istoria.
Quel che dava credenza maggiore
alla cosa, era che il nobile Francesco Cittadini di Milano, un bel vescovo di
ventinove anni, recavasi soventi volte al convento durante il giorno (alcune
male lingue aggiungevano anche di notte); che un fornajo conosciutissimo per la
ristrettezza de' suoi mezzi, aveva d'un tratto pagato tutti i suoi debiti, e
comperati i più begli abiti che mai alla moglie; che passando per la casa dello
stesso, udivansi de' vagiti (e su questo tutte le comari del circondario erano
di pieno accordo), mentre tutti avevano veduto portar via morto il figlio che
da poco eragli nato.
Monsignore Cittadini, spaventato
dalle chiacchiere, scrisse a' suoi fratelli a Milano raccontando loro l'ingiusta
accusa, e impegnandoli a prendere le sue difese; poscia fece tenere ad Elena il
seguente viglietto:
«Voi già saprete quali ciarle
circolano in Castro sul nostro conto. Per lo che, se vi è cara la mia
riputazione, potete, ond'evitare un grande scandalo incolpare Giambattista Doleri,
morto da pochi giorni, per quanto potesse avvenire».
Giunse ben presto agli orecchi
del terribile cardinale Farnese la narrazione di quanto succedeva in Castro; ed
ei, senza porre tempo in mezzo; ordinò al podestà di quella città che
arrestasse il vescovo Cittadini. I servi tutti di questi, temendo l'interrogatorio,
se la svignarono via. Soltanto Cesare del Bene, confidente e cameriere del
vescovo, rimase fedele al suo padrone, e gli giurò che morrebbe fra i più
atroci tormenti piuttosto che confessar cose che nuocere gli avessero potuto.
Cittadini, vedendosi stretto da guardie nel proprio palazzo, scrisse ancora a' suoi
fratelli, i quali partirono tosto da Milano. Essi lo trovarono rinchiuso nelle
prigioni di Ronciglione.
Il 9 settembre 1573, Gregorio
XIII ordinò che venisse aperto il processo. Un giudice criminale, un fiscale ed
un commissario si portarono a Castro e a Ronciglione. Cesare del Bene fu interrogato,
rispose di nulla sapere, e venne messo alla tortura. Il misero soffrì nel più
orribile modo; ma fedele alla data parola, confessò soltanto ciò che impossibile
era di negare.
Si presentarono quindi all'eculeo
donna Vittoria de' duchi di C... priora del convento, e donna Bernarda figlia
del marchese P.... maestra delle educande, le quali erano tutta cosa di Elena.
Alla minaccia di tortura confessarono esse ciò che avevano fatto. Si passò
allora ad interrogare le monache sul nome dell'autore del reato; alcune
risposero che sembrava fosse il vescovo Cittadini; altre ch'era certamente il
gatto, imperocchè l'abbadessa lo teneva costantemente fra le braccia e lo carezzava
assai; e altre infine il vento, perchè ne' giorni che c'era vento l'abbadessa era
felice, e del più buon umore che mai. La moglie del fornajo, le comari di
Montefiascone spaventate dalle torture che avevano veduto infliggere a Cesare
del Bene dissero la verità.
Cittadini era ammalato, o
fingeva di esserlo, a Ronciglione, lo che diede occasione ai fratelli di lui,
sostenuti dal credito e dall'influenza della signora di Campireali, di gettarsi
più fiate ai piedi del Papa, e chiederli che la procedura venisse sospesa sino
a che il vescovo avesse ricuperata la salute. Alla promessa del Papa di ciò
fare, il cardinale Farnese aggiunse nuovi soldati intorno al palazzo che al
vescovo serviva di carcere. Non potendo questi essere inquisito, i commissarj cominciarono
le loro sedute col sottoporre all'interrogatorio l'abbadessa. Un dì che la
madre le disse di farsi coraggio, e di tenersi sempre sulla negativa, lei
invece confessò tutto.
— Perchè, le disse il giudice
con cipiglio severo, perchè incolpaste dapprima Giovan Battista Dolori?
— Perchè sperava che, vivendo il
vescovo, avrebbe ei potuto aver cura del figlio mio.
Dopo questa confessione, venne
Elena rinchiusa in una camera del convento di Castro, le cui mura avevano otto
piedi di grossezza; le monache parlavano di quella stanza con terrore, ed era conosciuta
sotto il nome di camera dei frati.
Appena che il vescovo fu
ristabilito un po' in salute, venne condotto a Roma in lettiga, tenuto d'occhio
da tutta la sbirraglia della capitale, e rinchiuso nella prigione di Corte Savella.
Pochi giorni dopo anche la badessa fu trasferita a Roma insieme a donna
Vittoria, donna Bernarda, una conversa addetta alla persona di Elena e la
fattoressa, accusate tutt'e quattro di connivenza, e tutte vennero rinchiuse
nel convento di Santa Marta.
Il vescovo fu interrogato dall'auditore
di camera; e avendo egli negata ogni cosa, Cesare del Bene venne nuovamente
messo alla tortura. Ma lungi dal confessare il misero alcuna cosa che aggravare
avesse potuto il suo signore, pronunciò parole tali da commuovere persino l'animo
de' giudici. Donna Vittoria e donna Bernarda vennero introdotte nella sala del
giudizio; esse dissero che nulla avevano veduto, che nulla sapevano. Avvinte
con funi vennero sollevate in aria. Scorsi dieci minuti donna Vittoria sclamò:
– Scendeteci, siam disposte a
parlare.
Calate, pretesero ignorare
tutto. Si comandò fossero ancora sospese. Dopo venti minuti di corda, non
poterono star salde, e supplicarono venissero sciolte. Dissero, che infatti il
vescovo recavasi soventi volte al giorno al convento, e rimaneva rinchiuso per
molto tempo colla badessa. Finalmente il vescovo venne messo a confronto con
Elena; e comecchè questa dicesse sempre la verità, venne sospesa per un lungo
quarto d'ora a quattro dita da terra.
A tale spietato procedere, Elena
non mosse lamento. Scesa ed interrogata ancora, confermò quanto già aveva
detto. Cittadini, senza confessare nulla, colmò allora d'invettive la tapina,
la quale non rispose che: Dio vi rimuneri della vostra viltà.
Dopo altre misure volute dall'esigenza
delle leggi di que' tempi, leggi improntate di quello spirito di crudeltà che,
dopo i regni di Carlo V e di Filippo II, prevaleva ne' tribunali d'Italia, il vescovo
fu condannato in vita a Castel Sant'Angelo9, e la badessa ad essere pur
in vita rinchiusa nel convento di Santa Marta, ove già si trovava.
La signora di Campireali aveva,
onde salvare la figlia, fatto incominciare una strada sotterranea che doveva
mettere capo alla stanza mortuaria del convento di Santa Marta; e per quanta
cura impiegassero nell'esecuzione di quella, sarebbe alla lunga certamente
stata scoperta, se non che il Papa Gregorio XIII venne a morte nel 1585, e il
regno del disordine cominciò col seggio vacante.
Elena, rinchiusa nel carcere,
soffriva quanto soffrire si può quaggiù, e colla più grande ansietà aspettava
il risultato dei lavori intrapresi dalla madre. Ad un tratto il cuore di lei
provò strane emozioni. Erano già sei mesi che Fabrizio Colonna, vedendo lo
stato d'affievolimento in cui si trovava la salute del Papa, e nutrendo in cuor
suo grandi progetti pel tempo dell'interregno, aveva inviato un suo fido a
Giulio Branciforte, conosciuto nelle armate spagnuole sotto il nome di colonnello
Lizzara, onde ritornasse in Italia. Giulio che desiderava il momento di rieder
in patria annuì tosto alla chiamata del suo antico signore; e, dopo aver
attraversato il mare, sbarcò sotto nome mentito a Pescara, piccolo porto nel
regno di Napoli, e per le montagne degli Abruzzi giunse a Petrella. La gioja
che provò il principe nel rivedere Giulio stupì tutti gli astanti: dopo di aver
confabulato alcun tempo insieme colla più gran familiarità, don Fabrizio gli
disse che lo aveva fatto chiamare per dargli il comando de' suoi soldati.
Al che Giulio rispose:
– Militarmente parlando, l'impresa
non vale un fico; imperocchè se nulla nulla saltasse il ticchio alla Spagna di
distruggere tutti i soldati d'avventura d'Italia, in sei mesi potrebbe farlo;
però voi lo volete, mio buon signore, ed io son pronto a chinare il capo. Voi
troverete in me il successore del bravo Ranuzio, morto ai Ciampi.
Prima che arrivasse Giulio, il
principe aveva ordinato che nessuno in Petrella avesse a fiatare sull'avvenuto
di Castro e del processo; la pena di morte, senza remissione veruna, sarebbe
stato il castigo per colui che avesse cotanto osato. Fra i trasporti d'amicizia
co' quali ricevette Branciforte, don Fabrizio non cessò di raccomandare al
giovine non andasse senza di lui ad Albano. Egli effettuò quel viaggio facendo
occupare la città da mille de' suoi soldati, e collocando un'avanguardia di
mille e dugento uomini sulla strada di Roma. Immagini il lettore come rimanesse
Giulio quando il principe, che aveva fatto chiamare il vecchio Scotti, ancor in
vita, nella casa ove aveva posto quartiere generale, e i due amici s'erano
abbracciati col più gran trasporto, gli disse:
– Ora udrai terribili cose,
amico; ma rasségnati, così era scritto ne' cieli...
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La mattina, Giulio mandò a
chiedere al principe gli accordasse il permesso di poter recarsi a Roma, e ivi
rimanere alcun tempo. La risposta che gli venne data fu che il principe era
scomparso colle sue truppe. Durante la notte aveva avuto notizia della morte di
Gregorio XIII, e aveva obliato l'amico onde battere la campagna.
Tutti sanno che a que' tempi,
durante l' interregno, le leggi erano mute; che ognuno pensava a dare uno sfogo
alle proprie passioni, che non v'eran leggi se non nella forza. Epperò il
principe, cogliendo l'occasione, non tenne punto le mani a cintola; e si narra
che avesse in un sol giorno fatto appendere per la gola più di cinquanta
persone.
Non rimanevano a Giulio che
quaranta uomini circa, appartenenti tutti all'antica compagnia di Ranuzio; e
con un piccolissimo numero di soldati qual era quello, con un ardimento non mai
il maggiore, osò muovere per alla città eterna.
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