VIII.
Incoraggiato da un cenno gentile e
da un sorriso amoroso, Donato addenta il sigaro d'avana, raccoglie il fante di picche,
lo caccia nel mazzo, e mescola copiando assai male la disinvoltura che gli è
tanto piaciuta nell'avversario. Ed è squisita misericordia del cielo se il
signor Asdrubale, tutto intento a tirare di qua e di là il farsettone
abbottonato perchè non faccia grinze sul petto, taglia senza levar gli occhi;
altrimenti si accorgerebbe che allo studente di matematica tremano le mani e si
contraggono le labbra e si scolorisce il volto,
Il giovane rovescia le sue carte,
le squaderna, fruga e rifruga, poi guarda titubante l'avversario, il quale, coi
gomiti appuntati al tavolino e col mazzo sollevato all'altezza del naso, tira
l'orecchio ad una carta ribelle.
A Donato non par vero di aver
perduto, scompagina un'altra volta le carte che gli stanno dinanzi.., poi risolleva
il capo, impaziente della rivincita; il signor Asdrubale non gli bada, ha visto
finalmente l'estremità d'una figura nera, ed affatica a farla uscire dal
mazzo...
«Ho perduto, dice Donato.
L'altro gli fa cenno di aspettare,
poi con uno sforzo scopre tutta intera la carta.
«Sissignore, ha perduto,» dice
mostrando il fante di picche; e soggiunge modulando la voce con dolcezza
melanconica: «mi lasci dire che se lo merita; non è così che si gioca; per
vincere la sorte bisogna prima vincere la propria impazienza; scompaginare le
carte, come ha fatto lei, è una profanazione.»
A Donato riesce di ridere, e
l'altro «non rida, è un canone dell'arte.»
Intanto il signor Asdrubale ha
sbottonato il farsettone, ha cavato di tasca il taccuino, e si è riabbottonato
da cima a fondo. Il giovane leva anch'esso il taccuino ed estrae un biglietto
di cinquanta lire che porge all'avversario.
Ricomincia la partita. Questa volta
è il signor Asdrubale che mesce, ma è ancora Donato che perde.
Fa caldo - Donato suda; l'altro,
impassibile, offre la rivincita... guadagna ancora. Fa un caldo orribile.
Non rimangono più che
centoquarantanove lire nel taccuino dello studente, il resto si è sprofondato
nella voragine di pelle di bulgaro del signor Asdrubale. Poco stante la
voragine si apre un'ultima volta e le centoquarantanove vanno a raggiungere le
compagne.
A Donato casca di bocca il
mozzicone d'avana che gli è costato trecentocinquanta lire; le forze lo
abbandonano, goccioloni di sudore gl'imperlano la fronte e gli rigano le
guancie. La sciagura dovrebbe venir raffigurata in quell'atto.
Che fare ora, poichè non gli rimane
nemmeno il tanto da ritentare la sorte?
Il signor Asdrubale finisce appunto
di raccogliere il suo denaro, leva la faccia sorridente e porge le carte al
giovine, dicendogli con una monotonia d'accento che parrebbe feroce: «La
rivincita?»
Quale fortuna! Quell'ottimo signore
si fida; è disposto a giocare a credito, si adatta a riperdere il denaro vinto
ed a lasciarsene guadagnare dell'altro!...
Donato non ha forza di rispondere,
ma l'avversario ne indovina gli scrupoli e lo previene:
«So quel che mi faccio, dice
socchiudendo un occhio furbescamente, so quanto vale il signor Donato, so fin
dove posso arrivare senza rischio.
E ripete colla stessa dolcissima
monotonia:
«La rivincita?...
Donato ci pensa, ha paura.
«Cento lire!...
Questa volta vince, e si arrabbia
di non aver arrischiato di più.
«Dugento cinquanta.»
«Dugento cinquanta,» ripete il
signor Asdrubale come un eco, intanto che distribuisce le carte; e non faccia
complimenti, caso mai il fante di picche non le accomodasse... scelga lei...
Ma Donato crede di udire una voce
che gli grida di no, e risponde che il fante di picche gli accomoda, e lo cerca
baldanzoso fra le proprie carte, sicuro come è di trovarlo. Quella voce ha
mentito, Donato perde; il signor Asdrubale apre il taccuino e segna colla
matita centocinquana lire a suo credito.
Un mutamento avviene nello spirito
di Donato.
Quanto poc'anzi era pauroso,
altrettanto ora è arrischiato; l'intrepidezza della prima audacia è sempre poca
cosa appetto dell'intrepidezza che succede allo sgomento; il signor Asdrubale
dice di sapere dove e quando si fermerà, Donato invece non sa nulla, è sulla
via della rovina (questo lo sospetta), ma è disposto a correre ad occhi chiusi.
Il terribile gioco incomincia ora; finchè il magro taccuino dello studente di
matematica stava di fronte a quello ben pasciuto dell'uomo di affari, il
pericolo della scaramuccia era determinato e palese come la posta; or si
acciuffano le cifre, si fa posta di parole, si fa battaglia campale di numeri.
Le carte passano da una mano
all'altra, una volta, due, tre; ma il fante di picche è sempre fedele al signor
Asdrubale. Ah! il brutto pensiero che attraversa la mente di Donato! si prova a
respingerlo, scrolla il capo e getta indietro i capelli, ma quel pensiero buio
non se ne va.
«Badi, dice l'avversario
guardandolo fisso, il fante di picche quest'oggi mi vuol bene, scelga un'altra
carta.
Donato si sente smascherato e si fa
di porpora,.., ma che colpa ne ha egli se ha pensato male? Ne ha inteso dir
tante! Vi è della gente così destra, dicono!... Il meno che possa fare per
rattoppare il sospetto è di dichiarare, come dichiara:
«Nossignore, nel gioco bisogna
essere ostinati...
Vince, si rianima, raddoppia, perde
un'altra volta. Assolutamente il signor Asdrubale tiene la fortuna per le
briglie e la mena come vuole.
«Accetto il suo consiglio, balbetta
lo studente, scelgo l'asso di denari e raddoppio la posta.
L'ometto fa un cenno affermativo, e
si curva a notare sul taccuino la nuova vincita. Si ridanno le carte... Amara
beffa della sorte! Ecco Donato in contemplazione innanzi al fante di picche.
Pare al giovane che la carta fatale
obbedisca ad un occulto nemico, che prima gli ha conteso la fortuna ed ora gli
reca la beffa. La guarda intento, si sente voglia di stropicciarla, di
morderla. Gli passano strane idee nella mente sbalordita, ha una visione;
fissando l'occhio nel corpicciatolo meschino di quel fanticello, ci vede come
una somiglianza di famiglia col suo avversario fortunato; se prova a levare il
casco metallico all'uno, od a mettere un casco metallico all'altro, i due si
confondono in un solo; hanno entrambi una faccetta asciutta e petulantella,
ammiccano entrambi dell'occhio, ed il farsettone abbottonato dell'uno par
tagliato dalla stessa mano che ha fatto il giustacuore nero dell'altro.
La visione, che va a poco a poco
acquistando caratteri d'evidenza, è interrotta sul meglio da un'esclamazione
del signor Asdrubale, il quale si ricorda d'aver viscere di misericordia, come
tutti i giocatori fortunati, e compone il volto, i modi e l'accento ad una
tenerezza compassionevole.
«È una vena sciagurata la sua, egli
dice, mostrando l'asso di denari, non ho mai visto scirocco più ostinato,
parola d'onore non ne ho mai visto.
Non so per quale fascino occulto le
parole che celebrano la disgrazia d'un giocatore faccian l'effetto d'un balsamo
sulle ferite della borsa, pur nissuno a mente fredda vorrebbe dare un quattrino
della compassione nuda e cruda d'un che gli avesse levato di tasca gli scudi.
In tutti i modi Donato è
riconoscente all'avversario, e nella sua miseria trova ancora un sorriso da
spendere; l'altro prosegue:
«Ecco, se mai volesse aspettare un
altro giorno fortuna migliore, ed intanto desistere, perchè non è forse
prudente quanto immagina l'ostinarsi, anzi nossignore, non è prudente niente
affatto... io s'intende, sarò a sua disposizione domani, doman l'altro, quando
crede....
Donato si scolora in volto, trema,
ha paura che l'avversario cerchi una scappatoia, ed interrompe la melliflua
proposta ripigliando il mazzo e dicendo:
«Ancora una prova; torniamo al
fante di picche.
L'ometto ammutolisce, riaccomoda le
pieghe della giubba ed il nodo della cravatta, si rimette in positura
perpendicolare e dà un'occhiata di sbieco alle annotazioni dell'enorme
taccuino.
Quell'occhiata ha un significato,
ed il giovine lo comprende. Ma che importa? Non è più ora di calcoli, di
ritegni, di titubanze; ha perduto molto, troppo, perderà ancora; uscito dai
confini delle sue proprie forze, una sola è la rovina, si chiami dieci mila o
cento mila. Perde, raddoppia, riperde, raddoppia ancora, senza tremito, senza
ansia, quasi indifferente. Una cosa sola lo inquieta, il timore che
l'avversario, ad un dato momento, si levi dal tavoliere e dica col suo sorriso
mefistofelico: «Mi basta.» La speranza, se ne rimane una palese a Donato, conta
sull'ostinazione; un soffio favorevole può cancellare in dieci minuti tutte le
paurose cifre messe in fila sul taccuino e rendere l'infausta partita un
trastullo da bimbi, feroce trastullo, ma vano.
Per la prima volta, dacchè si è
seduto in faccia al signor Asdrubale, Donato gira l'occhio intorno; l'ampia
sala brulica di gente affannosa; dal tavoliere di Valente si stacca ogni tanto
uno che si rasciuga la fronte e stropiccia la pezzuola, e stringe le labbra
nascondendo male il dispetto. Nè Donato scampa a quella miserabile vanità di
giocatore; se qualcuno si accosta a lui, e lo interroga sulla sua fortuna,
rizza il capo, sorride nel rispondere: «Perdo.»
E perde; la sorte implacabile non
si stanca.
Gli passano innanzi, come fantasmi
benigni che invano cerca di trattenere nell'afa della sala da gioco, il babbo
canuto, la sorellina gentile, Costanza innamorata. Col pensiero abbandona un
istante quelle pareti fatali, torna a vagar pei campi inaffiati dal Lambro,
risale l'erta faticosa del boschetto e ricompone innanzi agli occhi tutte le
note sembianze di quel notturno paesaggio. Ecco i bruni alberi dondolanti, ecco
le lunghe schiere d'acacie e la via maestra che si allunga come un nastro bigio
nelle tenebre, le stelle che ammiccano in un cielo nero, i nugoli che viaggiano
lentamente e l'anfiteatro di montagne appena disegnato nell'oscurità. A quel
quadro vivo nulla manca, nemmeno il coro intermittente delle rane beffarde.
E perde; la sorte non si placa; gli
sorride un istante, gli fa balenare una speranza che lo rende più audace, poi
s'invola beffandolo.
Il signor Asdrubale, finora
impettito ed abbottonato, comincia a muoversi sulla seggiola, a guardarsi
intorno, a mostrarsi inquieto; ha l'aria di voler dire qualche cosa e di non
sapervisi indurre, finalmente si sbottona, trae dall'ampia tasca, tirandola per
un capo, una pezzuola di seta non mai finita e si asciuga il sudore ipotetico
della fronte. A vederlo in quell'atto pare un uomo che abbia fatto un'improba
fatica; è invece semplicemente un uomo in imbarazzo.
«Oh! senta, dice finalmente,
stringendo fra le due mani la pezzuola per farsi forza; devo proprio dirglielo;
non posso andare innanzi; ella ha perduto tutto quanto poteva perdere; non dico
già che la non abbia ad essere solvibile anche per il doppio, anche per
il triplo, non dico questo, ella è giovane, è quasi ingegnere, e gl'ingegneri
di talento... come dice Martino Bruscoli... tutto questo è probabile, è
probabilissimo, ma è l'avvenire nudo nudo... senza altro fondamento.
S'interrompe perchè Donato dica
qualche cosa, ma Donato guarda istupidito e non dice nulla; ed allora riattacca
il filo a bassa voce come facendogli una confidenza:
«Ho voluto porgerle modo di
rifarsi, ho giocato la sua eredità futura, e mi sono messo a rischio, perchè
ella potrebbe, Dio la conservi, invertire l'ordine naturale delle cose,
buscarsi un malanno, mi capisce; ma se non altro ci è un... fondamento; ora
siamo arrivati al limite massimo, e se persistessimo a giocare sarebbe far le
cose in aria... senza fondamento.
Ancora s'interrompe, ed ancora
ripiglia con accento misericordioso:
«Ah! creda che mi duole vederla
perdere così, è una disgrazia senza esempio, senza esempio... Ebbene senta, per
mostrarle che non voglio abusare della sua situazione, accetterò ancora una
posta, una sola; se la fortuna vuoi favorirlo e rifare la strada fatta, la non
dirà almeno che io le ho sbarrato il passo.
Ah! Si allarga il cuore a Donato.
«Accetto, dice egli, e soggiunge
come obbedendo ad un'ispirazione: ma questa volta chi ha il fante di picche
perde.
È l'ultima posta, ansiosa come la
prima; è la minaccia d'un male senza rimedio, è l'estrema parola della
sciagura.
Il giovine mesce, taglia, fa tutto
da sè; l'avversario lascia fare.
«Povero signore! dice poco dopo il
signor Asdrubale, non ne imbrocca uno, non ne imbrocca; io non ce l'ho proprio
il fante di picche, lo cerco... ma non ce l'ho proprio; povero signore!
E dette queste parole, nota nel
taccuino il nuovo guadagno, raduna le proprie carte, nasconde il tutto nella
giubba e si abbottona da cima a fondo per l'ultima volta.
Donato non lo intende, non lo vede
neppure; rimane immobile, istupidito, cogli occhi negli occhi di quel
fanticello di picche dalla faccetta petulante, dal giustacuore nero e dal casco
metallico.
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