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Salvatore Farina Fante di picche IntraText CT - Lettura del testo |
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II.
La notte è tenebrosa; terra e cielo si confondono nel buio infinito da cui si staccano, più neri, alcuni nugoli che viaggiano solitarii, ed i gelsi e le quercie in sembianza di giganteschi fantasmi. La brezza bisbiglia sottovoce e dondola i letti pensili degli uccelli e degli insetti. Che pensa Donato colla fronte ardente nascosta fra le mani? Non pensa, vaneggia. - È ritornato fanciullo, ha sei anni, ama giuocare alla palla, al cerchio, ha appreso a memoria dei versi che recita fra le ginocchia del babbo, si rizza sulla punta dei piedi per veder la sorellina in culla, non sa ancora che sia il mondo, non impaurisce per le incognite che gli prepara l'algebra della vita. Pur l'avvenire, affretta col desiderio, s'impazienta degli indugi che lo trattengono per via, ha un ideale innanzi agli occhi - vent'anni! Ah! il superbo fascino di questa parola! Eccolo cresciuto, eccolo alla scuola, ai cari studi, ai baldi propositi; ha inteso dire che il babbo non è ricco, che lavora per vivere, che affatica giocondamente in età quasi senile, per dare a lui un'educazione e preparare una dote a Mariuccia. Oh! sì, bisogna pensare a Mariuccia. Ora Donato sa l'algebra, la geometria... Mariuccia avrà la dote! E viene un giorno lieto. Donato apprende che non si è così poveri come si diceva, poichè si possiede una villetta, dove il babbo, ora che ha i capelli bianchi, se ne andrà a riposare colla piccina. Donato solo rimarrà in città... e all'avvenire. Ha promesso ai suoi cari, e più a sè medesimo, di darsi tutto allo studio. I compagni hanno le tazze e le belle, egli non ha vini nè amori di lusso. Una cosa lo tenta, Non gli occhi affumicati di donnette smorfiose, non i rubini delle bottiglie, ben altro: passar come saetta sul velocipede nelle vie di Milano, spingere a sfrenato galoppo un bel baio nei viali di circonvallazione; questo sì, lo tenta. Infine a venti anni si ha forse ragione di dire che la meccanica non basta. Ma non per nulla Donato fu testimonio della dotta parsimonia del babbo; levandosi di bocca uno zigaro che appesta e che costa un occhio del capo, anch'egli cavalcherà il velocipede ed il baio. Certo si potrebbe mettere in disparte quel danaro per la dote di Mariuccia, ma infine a vent'anni, ditelo voi, può bastare la meccanica? E poi ora è studente, ma quando sarà ingegnere! Ed oh! le belle miniere scavate col desiderio, i bei castelli a cui non manca il castellano canuto, nè la bionda castellana gentile! Ma un demone soffia in quelle sante visioni, il castello crolla, ed i castellani rimangono nella via più poveri di prima! Un istante ha cancellato tanti sogni affettuosi, un'ora di abbandono ha potuto più di ventidue anni di affetto... perchè vano è ora distogliere lo sguardo, una rovina si compie per opera sua; ecco il tavoliere, i mucchi d'oro che danno le vertigini, e la prima posta bramosa, e l'ultima posta tremante, e una folla di bassi sentimenti in cuore, e mille colpevoli idee nel capo, e, in un impeto di collera contro il vincitore, contro sè stesso, contro la sorte, contro Dio... ancora una posta disperata di denaro non suo! «Hai perduto! Ancora e sempre hai perduto!» Donato leva il capo dalle palme e sprofonda l'occhio nel buio, solcato a quando a quando dalle parabole delle lucciole e delle stelle cadenti. Non ode più la brezza che va mormorando di lui via via, dai gelsi più vicini alle acacie delle siepi ed agli olmi della vallata; mille immagini gli turbinano innanzi agli occhi, prima distinte e man mano più confuse; poi gli pare che l'aria della notte gli lambisca, la fronte come una fredda carezza, gli par di dormire, gli par di sognare. Ora è l'alba, l'alba apportatrice dei propositi onesti, e uno solo ne rimane a Donato; si leva, corre alla camera del babbo, picchia tremante all'uscio, entra, si butta fra le braccia del vecchio e ne bagna la canizie veneranda di lagrime amare. «Sai, babbo, io sono indegno di te, ho giocato, ho perduto, ho pregato il cielo che mi facesse morire.» E nel cuore del padre queste ultime parole cancellano l'impressione delle prime. Il povero vecchio risponde con un bacio, e non trova parola di rimprovero. E concesso un istante ai muti singhiozzi, si stringe la testa del figlio al petto e dice, ponendo nella parola una dolcezza che arriva al cuore del colpevole più efficace d'ogni rimprovero: «Quanto? - Sei mila lire. Un istante di silenzio, il vecchio tace, Donato nasconde la testa fra le mani disperatamente. «Sei mila lire, dice Norberto; è molto, per noi che non siamo ricchi; ma non piangere così, le lagrime non rimediano a nulla; venderemo un'ala della nostra casetta e l'orticello; il mio vicino me ne ha pregato, gli farò servigio... Mariuccia aspetterà a prendere marito qualche anno di più, finchè tu abbia guadagnato il tanto da rattopparle la dote, e se sarà necessario io tornerò in città, cercherò di riavere il mio impiego, sono sano, mi sento forte... Ah! Donato non può resistere a quelle parole benigne, a quella carezza tremante, a quell'accento commosso e melanconico di un vecchio adorato che considera la colpa del figlio come una disgrazia della sorte. È in piedi d'un balzo, riasciuga la faccia lagrimosa, si guarda intorno... Meglio così... non era che un sogno. È solo nella sua cameretta, appoggiato alla finestrella che guarda alla buia campagna; i neri fantasmi della vallata tentennano il capo, e le rane proseguono il loro rauco concerto, arrestandosi ogni tanto per ascoltare un altro coro che risponde da lontano. Ci ha tanto pensato, sono molti giorni che ci pensa di continuo; che vale arrestarsi ancora in quell'immagine? No, egli non avrà mai il coraggio di dare a quel povero cuore di padre una simile angoscia, di vedere la serenità di quelle sembianze adorate sparire ad una parola. Meglio morire! Meglio morire! E sprofonda l'occhio nel buio, e vi si avventa col desiderio. Potesse tuffarsi nell'infinito che gli sta dinanzi, distruggersi o dimenticarsi nella vertigine degli atomi che corrono nello spazio! Si ferma un istante a questo pensiero gigantesco e vi confronta la piccola causa del suo immenso affanno, ma non ne ritrae forza; tutto in quell'arcano gli par grande ad un modo, la parabola della lucciola, stella delle zolle, la parabola della stella cadente, lucciola dell'infinito. Ogni grandezza è vana, tranne quella del proprio affanno. Meglio morire! Donato esce dalla sua camera, porge l'orecchio nel corridoio, non ode alcun rumore, rientra, afferra una rivoltella, la guarda, poi lascia cadere il braccio lungo il fianco, ascolta ancora... Nessuna voce lo trattiene; ha paura di sè stesso, fugge, scende le scale, esce all'aperto coll'arma in pugno, e si caccia in un viale che mena al boschetto. Tacciono le rane per lasciarlo passare, poi gli gridano dietro la loro rauca beffa. Ed egli fugge sempre brandendo l'arme funesta; finalmente si ferma, si butta al suolo, ritrova un singhiozzo. Un uccello che ha avuto paura si è levato a volo per mutar letto, poi tutto tace, anche le voci beffarde della notte; poi sulle creste dei monti si disegna una striscia di oro pallido - è l'alba. Una rondine mattiniera passa come una freccia e garrisce per svegliare il vicinato; un'altra rondine le risponde, poi un'altra, fin che l'aria si empie di garriti e di voli. Donato guarda a quelle creature agili e festose che volteggiano sul suo capo; da ogni cespuglio, da ogni zolla si avventano al cielo cento gaie personcine; sulla cima d'ogni albero è una conversazione animata, ed ogni ramoscello dondola al picciolo peso di quella turba saltellante e ciarliera, mentre da lontano i galli del paesello si rimandano la loro strofetta baldanzosa. Donato segue sbadatamente coll'occhio quei voli, ascolta quelle ciancie, e si dimentica. La luce ha messo in rotta tutti i fantasmi paurosi, e sveglia la vita da per tutto; i monti par che si sollevino or ora dal piano, le querele e le acacie e gli alberelli e i fili d'erba si parano delle loro goccioline di rugiada per far festa al sole. A poco a poco la luce si fa più viva, penetra più addentro nelle boscaglie, nei cespi, nei pruneti, poi il sole si affaccia con quattro raggi alle giogaie lontane, e finalmente si leva maestoso, fruga in ogni cantuccio più riposto, costringe ogni più tetra creatura a rimandargli con un riflesso il suo sorriso amoroso. Donato si guarda intorno; è in un breve spazzo scoperto, accanto alla silenziosa sorgente dove in altri tempi venne tante volte assetato; tutt'in giro gli alberi gli fanno siepe, presso al sentierolo è un formicaio che un raggio di sole ha svegliato or ora alle grandi faccende d'ogni giorno; una talpa, rimasta fuor di casa più tardi dell'usato, attraversa il sentiero come una palla nera e rientra nel suo piccolo labirinto; dormono i grilli e si destano le cicale stridule; nelle zolle, fra filo e filo d'ogni erba, è un brulichio di creature che ripigliano la vita festose; le portulache silvestri schiudono alla loro esistenza d'un giorno la pompa dei vivaci colori; lontanamente si ode il muggito dei buoi e il grido di un contadino che passa nella via maestra dove finisce il boschetto, e lo strider di ruote d'un carro sulla ghiaia. Donato si sente ancora tornar come fanciullo quando amava la vita, quando lo impauriva la morte, quando ogni pensiero era avvenire, festa ogni sentimento. Ed ora! Che farà ora il babbo? Che farà la sorellina? Dormono; i loro volti soavi sono composti alla serenità; non anco li ha turbati l'annunzio di una sciagura! E quale sciagura! Guarda all'arme che gli sta accanto. Uccidersi! A ventidue anni, quando del mondo non si ha ancora visto nulla, quando di cento affetti non si ha ancora palpitato, e si ha il sangue ribollente, e i muscoli ferrei, e il pensiero gagliardo, e più gagliarda la fede negli uomini e nell'avvenire! Pure sente che non avrà mai forza di confessare al babbo la propria colpa e di rimanere al mondo testimonio d'una infelicità uscita dalle sue mani; certo vi ha dell'egoismo in questa debolezza, ma vi ha pure un sentimento di giustizia e di orgoglio; sappia il babbo, sappia la sorellina che Donato aveva cuore d'uomo, che si pentì sinceramente, che volle espiare. Ah! sì, bisogna morire!... Afferra l'arme con mano tremante, e un colpo parte, e un grido vi risponde. Donato ha scaricato involontariamente la rivoltella che tiene ora lontano da sè inorridito; gli è sembrato un istante la sorte s'incaricasse della giustizia che egli tremava di compiere, si è sentito un brivido per tutto il corpo, poi si è guardato intorno, ed ora, lo dirà egli a sè stesso?... ora ha paura di morire! Pensa che se avesse posto in atto il fatale disegno, già tutto sarebbe finito, e riama la vita, e corre giù per la china del bosco coi capelli arruffati, coll'arme in pugno... «Signor Donato! signor Donato!
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