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Salvatore Farina
Fante di picche

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  • FANTE DI PICCHE
    • IV.
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IV.

 

Sono passati sei giorni e sta per passare il settimo.

Donato non fu mai così assiduo alla scuola, nè così attento alle lezioni; se la storiella delle seimila lire non avesse fatto il giro della scolaresca nelle prime ventiquattr'ore, i velocipedisti della classe non avrebbero tralasciato di far segno alla comune riprovazione quell'ipocrita diligenza alla vigilia degli esami. Ma non si può credere quanto le seimila lire perdute a bassetta avessero arricchito Donato nell'estimazione dei colleghi; egli poteva ora comportarsi a modo suo, intervenire ogni santo giorno alla scuola, fare il sordomuto durante tutta la lezione, sporcar quinterni colla matita, mangiarsi cogli occhi il professore, e rimanere a lezione finita come inchiodato sulla panca per porre in ordine le proprie note; egli poteva anche non farsi più vedere al circolo o al caffè, come appunto faceva, che tanto nissuno pensava a fargliene un carico. A togliergli di dosso il ridicolo della nuova parte, ad ingrandirlo dieci buoni cubiti sul livello del volgo bastava quest'unico fatto, memorando negli annali della Scuola d'Applicazione, che egli aveva perduto sei mila lire e in grandissima parte non le aveva ancora pagate.

Tanta freddezza d'animo pareva indizio di natura eccezionale; la condotta scolasticamente esemplare al domani del giorno nefasto della bassetta, alla vigilia del giorno nefasto della scadenza della cambiale, pigliava aspetto di eroismo.

Il fatto è che Donato aveva il cervello in processione e il borsello vuoto. Nel lasciare la paterna villetta, egli si era pure reso conto, con un rapido esame di coscienza, di questo vero sacrosanto, che non gli rimaneva più un quattrinello in tasca, ma il signor padre non chiese informazioni e il signor figlio non osò darne; e Donato partì, e venne a Milano, e ci visse sei lunghi giorni e quasi il settimo, con mille idee nel capo e con un nuovissimo tesoro in cuore - ma senza uno spicciolo. Per fortuna lo scetticismo degli osti non regge quasi mai allo spettacolo dell'ingenuo entusiasmo con cui gli studiosi sogliono divorare le pagnotte e il resto; nell'età in cui si è buoni solo a consumare, e si consuma con tanta convinzione, è facile desinare a credenza; quando non si è più scolari l'accostarsi alla cattedra d'un oste per chiedergli da pranzo, in nome d'un vaglia che non si è potuto riscuotere perchè era chiuso lo sportello, o d'una somma che deve arrivare proprio al domani, può parere un atto pieno di difficoltà e di incertezze; a vent'anni è naturale e sicuro.

Donato adunque, vinte alcune lievissime velleità espiatorie che gli consigliavano il digiuno, si sfamò.

Quanto alle lezioni di meccanica applicata, non è da credere che egli le applicasse proprio come doveva. Certo lo scolaro era lì, immobile, cogli occhi negli occhi del professore; ma quante volte Donato piantò scolaro e maestro nella classe, per andarsene a Romanò a contemplare le linee d'un bel visino, a scomporre ed a ricomporre i mille congegni del proprio cuore? Tutto l'esser suo è ora fatto obbediente ad una leva, non sa se interresistente o interpotente od altro, ma prepotente certo: l'amore di Costanza; il dolce delirio si aggira sopra un perno solo: l'indimenticabile bacio.

Ah! se avesse dato retta al proprio desiderio, e se la fanciulla avesse dato retta a lui, egli avrebbe chiesto ed ella avrebbe dovuto concedere molti compagni a quell'unico bacio saporito!

Le tornava al fianco come un'ombra, intento, combattuto fra la trepidanza d'essere importuno ed il desiderio d'essere un eroe; rispondeva con un sorriso alla tenera sollecitudine di Mariuccia, la quale aveva visto il letto del fratello intatto e non sapeva che pensare, tappava la bocca al rimorso perchè stesse zitto, sentiva in cuore una gioconda danza di baldi propositi, si prometteva mille ricchezze, e smaniava perchè mancavano due ore sole alla partenza ed egli così perdeva il tempo senza far nulla. E che male ci sarebbe stato se egli avesse detto a Costanza: «ancora uno» e poi «ancora uno, ancora uno?» Un bacio di più non impoverisce chi lo dà e fa ricco chi lo riceve; così pareva a Donato. E siccome Mariuccia non se n'andava mai, gli veniva voglia di tirarsela fra le braccia, di farle chiudere gli occhi, di ripetere il gioco riuscito già così bene. E Costanza? Leggeva in cuore del giovane? Ci vedeva almeno l'amore nato poc'anzi ed ora già fatto gigante? Ci vedeva la gratitudine, il pentimento, la felicità nuova, e il timore di non essere inteso, e il desiderio di farsi intendere con musica di parole e di baci? I labbri rosei sorridevano, i nerissimi occhi saettavano sguardi brevi e sereni, troppo brevi e sereni. Ahi! Nemmeno l'ombra del turbamento amoroso in quel soave visino! E quando finalmente veniva l'oste di Romanò, col suo morello e col suo calesse, tre bei vecchi arzilli e puliti, e bisognava dire addio e partire, allora si stringeva forte al petto Mariuccia ed il babbo, i quali pigliavano in buona fede quell'amplesso per roba loro, stringeva la mano a Costanza, le diceva: «si conservi, signorina» e via di galoppo, trabalzando sul selciato e schioccando la frusta in aria innanzi ai curiosi ammirati per quelle prodezze senili. Allo svoltar dell'unica strada nei campi, Donato perdeva di vista due fazzoletti che sventolavano per aria; e l'oste, il calesse e Morello di comune accordo rimettevano il pazzo entusiasmo giovanile ad un'altra volta; si pigliava un'andatura ragionevolissima....

E Donato li piantava tutti e tre sulla via maestra e tornava in classe a far di sì col capo per dar a credere al professore che la sua meccanica gli era entrata tutta; e un istante dopo, con una devozione che metteva in sacco i colleghi, ficcava il naso nel cartolaro e pigliava le sue annotazioni così: «Cara Costanza!» o così: «Angelo mio! mia vita!...» e proseguiva dando del tu alla fanciulla e prodigandole tutto quel tesoro di rettorica che anche gli studenti di matematica hanno in disparte per le grandi occasioni.

A questo modo sono passati sei giorni e sta per passare il settimo.

 

 

 




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