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Salvatore Farina
Fante di picche

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  • FANTE DI PICCHE
    • VII.
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VII.

 

Non vorrei dare una cattiva notizia al lettore, ma è provato che egli ed io, e gli amici suoi ed i miei, abbiamo tutti un demonio alle calcagna. Donato, nostro amico comune, ora appunto è alle prese col suo, che è un demonietto sopraffino.

Poc'anzi costui gli ha detto: «Ora che tu hai trecentocinquanta lire in tasca, non andrai già al caffè ed al Circolo per far pompa innanzi agli amici d'una suprema indifferenza ai colpi della sorte, non ti darai il gusto di fumar loro sulla faccia un grosso avana, come nelle grandi occasioni, non ti uscirà di bocca, insieme coi nugoli di fumo, questa grossa spampanata che hai la meccanica, le costruzioni ed il resto in quel paese, no, Donato mio, tu non lo farai.»

Se avesse detto «tu lo farai,» Donato forse si sarebbe impuntato a non farlo; invece lo fa, e venuta la sera, col cuore leggiero, col cervello a spasso e con un sigaro d'avana in bocca, egli trotta allegramente al Circolo, - e il suo demonio dietro.

Atti di meraviglia, oh! ed ah! che gli si avventano da ogni parte, sorrisi, strette di mani robuste, interrogazioni parlate e mute - un trionfo.

Donato fa il suo ingresso con modesta dignità, compone il volto ad un'allegria che gli dà un sopravvento irresistibile sui colleghi, snoda la lingua a mille ciancie, dice un mondo di corbellerie che non pensa, è d'una fatuità sublime.

«Sai, dice Cosimo, il piccolo Bonaventura ha rubato l'innamorata a Faustino.

- E Faustino, per la disperazione, si farà la chierica, e si farà chiamare frate Bonaventura, dice un altro ridendo.

- Sai... Valente ha comperato un bel baio.

- E il virtuoso Felice ha giuocato ed ha perduto... cinquanta centesimi.

- Ieri abbiamo fatto una cena al Gnocchi,

- Giusto... che n'è del giornalista? chi ha visto Ilario?

- Io! È indisposto; la cena gli ha fatto male...

- Sempre la stessa mala lingua; non potendo fare un articolo critico, ha fatto un'indigestione.

Donato in mezzo ai razzi di buon umore e di spirito, si accontenta di star zitto e di dondolarsi sulla poltroncina fumando, e quando finalmente dice una parola, tutti ridono in coro, pronti a giurare che non hanno mai inteso nulla di così spiritoso. Così accade spesso nei circoli e fuori.

Ma al nostro eroe è entrata in capo un'idea, e checchè egli faccia, non vuole più uscirne... «Valente ha comperato un bel baio...» lui, Valente, quegli appunto che gli ha guadagnato le sei mila lire!

Certo il demonio gli ha detto: «Tu non penserai a questo, a te non importa dell'uso che Valente ha fatto del denaro guadagnato al gioco.»

«Valente è in gran vena, dice Cosimo, vince ogni sera...

- Chi viene? dice un altro.

- Io!

- Io!

- Io!

Escono. Donato sa dove vanno, non si muove. Il demonio gli dice: «Bada bene, tu non devi più mettere il piede nella casa da gioco, non lasciarti sedurre dalla curiosità di assistere a quello spettacolo, non dire a te stesso che non vi è male alcuno...»

E Donato si leva, esce, e quando è sulla via pensa che tanto vale passeggiare da una parte o dall'altra, e quando arriva dinanzi alla nota casa, conchiude che sarebbe proprio una debolezza il non salire le scale e che egli si sente forte, e che non giocherà...

Eccolo nella sala da gioco, sdraiato sopra un divano in aria di suprema indifferenza.

Il fortunato Valente gioca e vince.

«Osserva, dice qualcuno vicino a Donato, anche stasera Valente ha cambiato posto; egli afferma che la fortuna è una pazzerella e fa il giro del tavoliere, e che tutta l'arte di vincere consiste nel saperla precedere d'un passo.

«Oibò, risponde l'altro; la vera arte di vincere io la so, e non è quella.

- E qual'è?

- È un'arte che non s'insegna: saper aspettare il momento buono....

- E chi te ne avverte del momento buono?

- Non so chi, ma qualcuno certo; pigliando in mano i dadi o le carte, vi sono delle volte che io sono sicuro di fare un grosso punto e di vincere la partita; è come un buon vento che dura un quarticino d'ora, raramente mezz'ora; bisognerebbe saper cogliere il destro una volta, puntar grosso e poi non giocar più.

- E allora perchè non ti sei fatto milionario? Avessi io un vento simile!... Oibò, il vero sistema l'ho già esperimentato; è la teorica delle probabilità. Valente per esempio fa banco; io mi schiero fra i puntatori ed aspetto che egli abbia vinto tre o quattro volte; alla quinta punto ed ho quattro probabilità di vincere.

- E perdi, perchè ti manca la quinta.

- È possibile, ma è più facile ch'io vinca, e se perdo raddoppio.

- E se ti trovi per caso a camminare contro vento vai alla malora....

- Vuoi proprio saperlo, dice il demonio di Donato, qual'è il vero modo di vincere? Il vero modo di vincere è di non giocare; guardati bene dal pensare che in un quarticino d'ora, di buon vento potresti ricuperare il denaro perduto, arrischiando solo una piccola moneta....

Valente ha vinto ancora, sono quattro volte che vince, perderà alla quinta... e Donato non sa che sia, ma crede proprio di sentire come un estro, come un'onda che lo invada, il buon vento famoso forse. Davvero, se ci è una giustizia, non può Valente conservare il baio che ha comperato con denaro non suo... Potrebbe rischiare poco, cinquanta lire sole... perdendo glie ne rimarrebbero trecento, e fuggirebbe... e se vincesse, oh! se vincesse!...

Eccolo innanzi al tavoliere.... gli tremano le gambe, gli batte il cuore.

Qual mano gli si posa sulla spalla a trattenerlo? Volta la faccia impallidita.... è il signor Asdrubale, col farsettone nero abbottonato da cima a fondo, col nodo della cravatta a sghimbescio, col sorriso bonario sulle labbra.

A Donato vengono in mente mille idee in un punto solo. Come mai il signor Asdrubale si trova nella casa da giuoco? E che gli vuole? E perchè lo trattiene? Lo ha dunque spiato? Ha forse avuto incarico di stargli alle costole per impedire una ricaduta? Oppure - la cosa è men bella, ma più verisimile - oppure il signor Asdrubale bazzica nelle case da gioco per ragioni di mestiere? Or gli torna in mente più vivo il negozio stretto poche ore prima; rifà i calcoli fatti e conchiude che le due anime di Cherubino Dolci e dell'ometto dal farsettone nero abbottonato non solamente si assomigliano alla lontana, ma fanno un paio magnifico.... Tutto ciò in un istante, tra due sorrisi ed una stretta di mano.

Il signor Asdrubale non lascia il suo giovine amico, lo tira con lieve violenza in disparte, sorridendogli sempre e guardandolo con sguardo d'amore, e finalmente gli dice:

«Ella voleva giocare, dica il vero; tanto io son pratico di queste faccende, ne avevo quasi un sospetto - e per questo sono venuto, glielo dico schietto, perchè, via, se ella ha da giocare ancora, non vedo perchè abbia da farmi torto.

Donato spalanca tutti e due gli occhi e non gli basta; quello che il signor Asdrubale tiene chiuso non sarebbe di troppo per vederci chiaro,

E l'altro prosegue a dire:

«Ho giocato anch'io, e gioco ancora qualche volta; se crede, può far prima la pace del suo debito; io non desidero di meglio. Le carte sono traditrici, ella potrebbe perdere con altri, e mi dorrebbe molto, molto.

Il giovine capisce l'allusione, e vorrebbe offendersene; e sebbene un sentimento di giustizia gli dica che il signor Asdrubale ha ragione, si prova a fare il viso arcigno; ma l'ometto non gli bada, gli sorride, lo trae con lieve violenza ad un tavolino, lo costringe a sedersi e gli siede dirimpetto, e finalmente domanda un mazzo di carte; tutto ciò con una bonarietà schietta, con maniere tra serie e burlesche che finiscono a far ridere il giovane.

Ride e trema insieme, e si sente come oppresso dalla vergogna e dal rimorso, e ricerca di soppiatto un'accusa sul volto del signor Asdrubale, il quale ora è entrato nel guscio del giocatore vero e mesce le carte con sicurezza e depone il mazzo sul tavolino.

«Che gioco preferisce il signor Donato?

Il signor Donato non sa nemmanco lui, ha appena la forza di fare un gesto coll'animo di dichiarare che si rimette all'avversario, e intanto sbadatamente taglia il mazzo.

«Sta bene; risponde il signor Asdrubale errando sul significato di quel gesto; un gioco semplice, il gioco delle ultime ore, quando non si ha più tempo da perdere e si vuol tentare la sorte con colpi replicati e frettolosi, il solo gioco a due che non sia nè lungo, nè difficile; bravissimo, vedo in lei la stoffa del giocatore; la carta più alta vince.... benissimo; avrei però preferito qualche cosa di meno spiccio e di più interessante; questo suo gioco eroico non dà tempo alla commozione.

A Donato riesce finalmente di far capire con un mugolio che egli è indifferente a qualsiasi maniera di gioco; aggiungerò per debito di giustizia che in così dire egli si guarda intorno e che, se avesse in faccia l'uscio, forse pianterebbe in asso il signor Asdrubale. Intanto due o tre curiosi gli si sono stretti intorno per assistere alla partita.

- A meraviglia, prosegue a dire l'ometto abbottonando l'ultimo bottone della giubba fin sotto al mento; quand'è così le propongo un gioco pieno d'interesse e di commozioni, che permette di tirar l'orecchio alla carta, come si dice; ecco; spartiamo il mazzo per metà, stabiliamo prima una carta, e chi si trova d'averla vince. Le garba?

- Mi garba.

- La posta?

Donato fa un gran sforzo per non balbettare e balbetta:

«Cinquanta lire.»

Qui i tre curiosi, non vedendo denaro sul tavoliere e delusi nell'aspettazione d'un giuoco più forte, se ne vanno ad assistere alla fortuna di Valente.

Il signor Asdrubale non dice più parola, piglia il mazzo, lo mesce ancora e sembra concentrarsi tutto in quest'operazione; quando ha finito presenta le carte all'avversario perchè tagli, poi ne estrae una che deve decidere del gioco:

«Fante di picche!

 

 

 




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