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Salvatore Farina Fante di picche IntraText CT - Lettura del testo |
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X.
È solo. Può ora sprofondare l'occhio nell'abisso in cui è caduto, misurare l'immensità della sua sciagura. Ma che vale? Tutto quanto può dire il pentimento egli l'ha inteso altra volta - e nulla valse. Allora come oggi si trovava solo, faccia a faccia con un pauroso fantasma; allora come oggi lamentava nella sua colpa non la rovina propria, ma il dolore affannoso del vecchio padre - e nulla valse. Or si aggiunge allo stesso strazio la morte della sua più cara speranza, un amore non pur confessato e già gigante, e già perduto per sempre; e su quel cumulo di sciagure - sciagura maggiore di ogni altra, perchè gli toglie anco il conforto delle lagrime - una sfiducia profonda di sè medesimo. Ricercherà egli nelle voci della natura, nelle immagini de' suoi cari, nei mille vaneggiamenti febbrili, un alimento al rimorso, se già ebbe tutto questo e invano? Si farà zimbello di un giuoco bambinesco, e pur d'incrudelire contro sè medesimo, ripeterà ancora una volta il vacuo frasario della coscienza di che ha fatto inutile esperimento? No, anche la coscienza tace; uno squallido silenzio è intorno all'anima sua; quel raggio di sole che percuote la pianura, illumina la morta calma d'un cuore che si disprezza. La sua condizione è palese; ha giocato, ha perduto; ha perduto Costanza, la stima d'altrui e di sè stesso, il diritto di lasciarsi amare dal vecchio babbo e dalla sorellina, la fede nell'avvenire; era questa la posta, egli lo sapeva ed ha giocato - ed ha perduto. Non gli rimane nemmeno più il diritto di morire; uccidersi ora sarebbe «un troppo facile modo di pagare i proprii debiti» - il signor Asdrubale lo ha detto. La mattina è splendida di luce, puro il cielo, l'aria fresca e carezzevole. La morta calma del cuore di Donato gli si riflette nell'occhio intorpidito che si arresta in una inconsapevole contemplazione. I pali del telegrafo gli passano dinanzi vertiginosamente in prima linea, le acacie delle siepi procedono più lente, e i gelsi più lenti; tutta la pianura scintillante se ne va; solo gli orizzonti rimangono immobili, anzi le vette delle montagne, con movimento opposto, par che lo seguano nel viaggio. Così fugge il presente, così non possiamo staccarci dal nostro tempo lontano - dal passato che ci accompagna, dall'avvenire che ci aspetta. Una volta, due, tre il convoglio si è arrestato; finalmente al noto fischio succede una monotona voce: «Seregno!» Donato si scuote, balza fuori dal carrozzone, e si arrende all'invito del primo monello che, schioccando la frusta, offre un calessino sconquassato. La rozza, educata alla identica scuola del Morello famoso, attraversa come un fulmine o poco meno le vie di Seregno, poi strascica gli zoccoli nella polvere della via maestra. Che fa lo sciagurato? Che propone? Non lo sa egli stesso; ha bisogno di rivedere la casa dove fu tanto lieto, di sentirsi vicino, per l'ultima volta forse, a coloro che ama, di respirar l'aria della felicità di cui ora è immeritevole, poi... Poi fuggirà, e se non gli è lecito togliersi la vita, andrà in cerca di morte, domandandola agli uomini ed alla natura. Attraversa i paeselli, osserva le case meschine, i villini eleganti, le fontane pubbliche, guarda a tutte quelle note fisonomie, che, alla tetra luce della nuova sventura, gli paion nuove e non più care come prima. Per tutta la via s'incontra in contadinelle che, canticchiando sommessamente, levano la bruna testa di mezzo all'immenso biondeggiare delle spighe mature... ecco l'ultima salita, ecco il colle, ecco Inverigo coi suoi viali di cipressi, colle sue casette bianche, col suo campanile scintillante al sole, ecco il tranquillo sentieruolo ombreggiato d'acacie, l'ultimo... Donato fa arrestare il calesse, scende, rimane un istante immobile, poi si avvia a passo lento... e si trattiene innanzi al muricciolo di cinta del giardino, del babbo; gli batte il cuore, sente rumore di passi,, si nasconde, ha paura di esser visto; poi si appressa, si arrampica d'un balzo allo sporto del muro, getta, spenzolandosi, un'occhiata di baleno nel giardino e si lascia ricadere a terra palpitante. Quante cose ha visto! la casetta bianca, le finestre dischiuse, non ancora baciate dal sole, il viale, il padiglione di glicinie, la quercia superba... Ascolta, gli par di udire una voce, è lei... no, sì, sono due voci note, la sorellina e Costanza. Le care creature hanno l'anima lieta come il limpido mattino che le ha destate, ridono... se salissero sulla montagnuola e si affacciassero al muricciuolo!... ecco si accostano, si allontanano, ridono ancora... se sapessero!... Ah! questa volta Donato non regge più, una lagrima gli riga le guancie e, dietro a quell'una, mille. Un rumore di passi nel sentiero lo toglie al sua affanno; vuol fuggire, vuol nascondere il proprio dolore alla stupida curiosità d'un contadino indifferente... troppo tardi, appena ha il tempo di celare la faccia lagrimosa fra le mani. Ma il passante si è fermato, non se ne va, e Donato ne sente lo sguardo curioso ed indagatore. Allora si leva in piedi, guarda innanzi a sè e rimane come istupidito. È lui, ancora e sempre lui - il fante di picche!
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