LA CORSA DI PROVA
I.
Siete mai stati sul lago
di Garda, lettori miei? - Se non ci siete mai stati, io me ne consolo con voi. Ormai
la vita a furia di vapore, di telegrafi e di olii di merluzzo è ridotta così
lunga, che se ad empirla da capo a fondo i nostri nonni non trovavano un
sufficiente corredo di piaceri, noi poi possiamo disperarcene addirittura.
Dietro ai piaceri non si va più pellegrinando pedoni, nè si trotta lor dietro a
cavallo, nè si corre in carrozza e si naviga in barca, ma li perseguitiamo
volando a forza di vapore; e le cose che bastavano una volta ad una vita
d'uomo, adesso non arrivano ad occuparne una metà, sicchè andando innanzi di
questo passo deve giungere un giorno che i bambocci di dodici anni saranno
laureati enciclopedici, satolli di beefsteaks e di passioni; avranno
viaggiato le cinque parti del mondo e le altre che fossero state scoperte, e di
nuovo dal futuro non aspetteranno che la morte. - Ragionandola di questo modo
io verrei a dar ragione a mio nonno ed a Rossini, che preferiscono le vetture e
i ronzini addormentati e sonaglianti alle strade ferrate e alla non mai stanca
velocità della vaporiera. Ma ci sarebbe poi questa grand'eresia? Facciamoli
contenti d'alcuna felicità questi vecchietti che s'erano avvezzati così
blandamente ad esser felici! Se andranno alla pace di Dio persuasi che noi
siamo della loro opinione, il mondo non ci avrà perduto nulla, nè la valvola di
Watt diverrà restia a manovrare.
Tuttociò per venirvi a
dire, che se non avete ancor visitato il lago di Garda, potete ripromettervi un
gran piacere dal visitarlo. Gli è vero che in questa visita, partendo qui da
Milano, non consumerete più venti ore in diligenza, e due o tre giorni, tempo
permettendo, in battello; e invece sette ore a vapore fino a Desenzano, e
quattro altre sul piroscafo del lago fino a Riva, sbrigano divinamente la
bisogna; ma per badare anche al lato buono della medaglia vi farò osservare,
che un sigaro non è meno buono perchè si consumi troppo presto, e che a rigore
di natura la vita non dovrebbe misurarsi dal tintinnar del pendolo, ma dal
numero delle sensazioni, e se lo spettacolo del lago di Garda avesse a finir troppo
presto, abbiamo quello di Como, e il Maggiore, e quello di Lugano, e quello di
Ginevra. Più in su poi la
Svizzera è proprio tempestata di laghetti e di laghi che sono
degnissimi specchi alle nostre antiche e storiche Alpi; e nel lontano orizzonte
dell'Europa Occidentale s'ascondono come Pleiadi vicine al tramonto quegli
azzurri e incantati laghi della Scozia, sull'acque dei quali godono scherzar
tanto le fantastiche Muse della poesia inglese. Siete incontentabili? - Montate
sopra quella nave gigantesca che si sta ora varando in Inghilterra,
inscrivetevi fra i diecimila passeggieri del mostruoso Leviathan, e
spiccate un salto al di là dell'Atlantico alle foci del San Lorenzo. Non
parlando dell'Oceano che è il papà di tutte le acque, quanti grandi e variopinti
e poetici laghi troverete sulla terra donata all'Europa da Colombo, e ridonata
a sè stessa da Washington? - L'Eriè, l'Ontario e che so io?... Tutti o piccoli
o grandi mari mediterranei, ombrosi sulle rive di vergini foreste, ricchi nel
loro grembo di onde calme e cilestri. di spume lievi e increspate, e di sonore
e sublimi tempeste. Sponde verdi e feraci, asilo un tempo della muta solitudine
e della paurosa semplicità, ora popolose di città, di villaggi, di officine
evocate dal nulla dal soffio creativo degli Anglo-Americani: acque interminate
e deserte, securo nido, or sono due secoli, dei voraci storioni, e delle
foliche aleggianti a stormi fra le alghe scapigliate, ora solcate da migliaia
di barche, di navi e di battelli a vapore! - Oh dove mai avrà confine l'opera
dell'uomo? - Gli è mai possibile ch'essa riposi contenta di sè, come il
mietitore sul campo pieno di covoni? - Dopo la mietitura si tornerà sempre alla
semina e dopo la semina la mietitura, ed io per me credo, che se i nostri
posteri troveranno il bandolo di visitare comodamente tutti i laghi della
terra, qualche temerario Colombo aereo insegnerà ai loro figli la strada per
giungere a quelli della Luna e dei pianeti. Oh che belle acque, quali nuovi
modi di calme, di venti, di tempeste, qual nuovo tenore di natura avranno essi
ad ammirare sui laghi di lassù!!...
Per ora accontentiamoci
di quello di Garda, il quale (già voi avete indovinato la mia opinione) è uno
de' più bei laghi che si possano vedere o immaginare. Io, per quanto onore
volessi fare alla mia immaginativa, confesso che prima di vederlo non avrei
saputo fingerlo tanto bello. Catullo, che era buongustaio ed aveva viaggiato
fino in Cilicia, preferiva le rive del Benaco ad ogni altra villeggiatura, e
Virgilio ne ha parlato con quel rispetto di cui era debitore al padre del suo
umile Mincio. Betteloni e Maffei, due carissimi poeti che tutti conoscete, ne
sono perdutamente innamorati, ed io stesso, povero poetucolo che pochi
conoscono, ho un posto per lui nel mio cuore proprio muro a muro con quello
dell'amante. - E come fare altrimenti? Quelle acque così pure, così limpide,
così azzurre, così profonde, che nel guardarle mi fanno sempre pensare alla
prosa del Leopardi, e agli occhi delle Madonne di Raffaello; que' labirinti di
ulivi, di castagni, di cedri, di giardini; quei paeselli sospesi come colombi
sopra una rupe, fra la trasparenza del cielo e quella non meno tersa e lucente
delle acque; quelle creste di montagne accavallate tumultuosamente le une sulle
altre, come una greggia di montoni spaventati da un lupo, e che sfumano
misteriosamente in una gola vaporosa azzurrina, dentro la quale si indovinano
le nevi e le ghiacciaie del Tirolo; quegli approdi facili e ospitali;
quell'elegante cullarsi e veleggiare delle barche peschereccie; quei porti
formicolanti di moto, e di allegria; quella vita, quella serenità, quella
libertà che si spira coi polmoni dell'anima in tanta e sì gioconda ampiezza di
sponde d'acque e di cielo, tutto mi indurrebbe a dir al Signore quello che gli
diceva san Pietro sul Monte Tabor - «Deh Maestro, piantiamo qui se vi piace i
nostri padiglioni!».
Chi non sa fra gli
amorosi del lago di Garda, che il suo vero diadema è quella costiera incantata
che cammina, serpeggia, si inerpica, corre e discende fra Salò e Tusculano? -
Se non avessi imparato dalla storia che il Paradiso terrestre era in Asia fra
il Tigri e l'Eufrate, io non esiterei a collocarlo su questa magica riviera
bresciana del mio lago; ed Adamo e Eva non dovrebbero aversene a male. Gargnano
è, si può dire, il centro di quel Paradiso; e di là scendendo verso Salò è per
quasi due miglia un sì vario e continuo prospetto di villaggi, di paesi e di
ville, che ben potrebbe vantarsene qualunque più orgogliosa città.
Proprio su quel lembo di
terra ove finisce Villa di Gargnano e comincia Bogliaco, pochi anni sono, si
vedeva una modesta e pulita casetta che moveva le voglie a tutti i viaggiatori
di buon gusto, che la guardavano dal vapore. Una facciata seminascosta fra i
limoni e le magnolie, con poche e grandi finestre cariche di fucsie e di
garofani; una piccola e fiorita serra, e un boschetto di castagni e un pendio
di verdi colline da una banda; un bel verziere dall'altra; sul dinanzi un
giardinetto nè scimmieggiante disordinatamente l'inglese, nè tagliato a fette
come un melone, e una gradinata erbosa fino al filo dell'acqua, ecco le
vaghezze nè doviziose nè rare che pur bastavano ad innamorare ogni cuore ben
fatto di quella semplice dimora. Ma qui la mia pasqua è finita, o amici
lettori; e me ne dà cenno la penna che va innanzi più restia. Io non mi sono
accinto a mostrarvi una veduta del mondo nuovo, nè ad abbozzare poeticamente
una lezione di geografia: è una storiella affidata alla memoria da qualche
ricordo d'amicizia ch'io voglio raccontarvi; e in una storia, se c'entra come
sfondo quella bellezza naturale e prospettica che ne è quasi l'aria e il
colore, ci devono anche entrare le persone, quasi anima e favella del
paesaggio.
Due sposini novelli
abitavano quella casa che ho finito or ora di descrivervi con tanta civetteria;
due sposini fatti ed appaiati a bella posta da Domeneddio l'uno per l'altro.
Gabriele Savelli era un
bel giovane; maschio, sincero, amoroso e susurrone come un vero Bresciano; di
modesta fortuna e prediletto d'uno zio che un giorno o l'altro doveva farlo
milionario. La sua casa paterna era a Villa di Bogliaco, ma rimasto orfano si
può dire in fasce egli l'aveva abbandonata ancora fanciullo; il collegio,
l'università, e il tirannico amore dello zio l'avevano tenuto fino a
ventisett'anni a Milano, a Pavia ed a Brescia. Il suo cuore, gli è vero, faceva
di tanto in tanto qualche visita di scappata al vecchio nido paterno, ma le
visite del cuore non bastavano; e quel povero nido lasciato in balìa degli
uccelli di rapina era divenuto un vero covo di gufi. Castaldi, contadini,
ragni, pioggie e lucertole lo invadevano d'ogni parte. Le finestre erano senza
vetri; non c'era un'imposta che si saldasse a tutti e quattro i gangheri; una
tegola sopra cento era ancora intatta, ma tutto il tetto scompariva sotto un
praticello muschioso che poteva mantenere abbondevolmente un paio di pecore e
forniva l'insalata a tutti i passeri del vicinato. Al di dentro era un
guazzabuglio di travi puntellate, di pavimenti sconnessi, di masserizie
diroccate, e di legumi puzzolenti. Le scale scricchiolavano sotto i piedi, come
le ossa dei ballerini nella Danza dei Morti; le muraglie piangevano lagrime
sudice e grosse più di quelle dei dannati; il fumo passeggiava per tutte le vie
fuorchè per la cappa dei camini, e sopra questi disordini, protetto da
inferriate, da impannate, da cenci messi ad asciugare, da nidiate di vespe e da
ricchissimi regnateli si stendeva un buio romantico e misterioso, come quello
d'una ballata stregoneccia di Bürger. Gli abitanti poi, lo potete credere, erano
in perfetto accordo colla casa. Lo zio tutore, avvezzo a misurar pertiche a
migliaia e ad insaccar danari colla pala, non avea tempo da curare quel lontano
poderetto. Tutto era in mano d'un castaldo briaco e rissoso, d'una femminaccia
strapazzata, e di sei o sette ragazzi diversi di nome, di sesso e di età, ma
egualmente spettinati, sucidi e maneschi.
Una bella mattina saltò
il grillo a Gabriele di far una corsa a Gargnano. Non vi saprei dire perchè
quel grillo non gli saltasse prima; ma il fatto sta che approfittando d'una
circostanza che dovea tenere lo zio lontano da Brescia per alquanti giorni,
egli fece allestire il calesse e andò sulla riviera. Egli forse aveva un
granino di poesia nel cervello, e con quella gita gli pareva di riviver nei
primi anni della sua infanzia e di evocare più vive le care memorie di suo
padre e di sua madre. Badate che io ho detto forse, poichè Gabriele nel
consueto correre della vita si mostrava tutt'altro che poeta: e il caffè, il
bigliardo, l'osteria, l'azienda dello zio, e qualche buon libro lo rendevano
poco meno che felice. Quando non lo era abbastanza, litigava cogli amici,
rompeva le stecche del bigliardo, e le buttava addosso al garzone del caffè;
indi pagava il guasto, dava la buona mano al garzone, e rannodava cogli amici
l'antica concordia intavolando questioni politiche e filosofiche e bevendone
talora un sorso più del bisogno; due usanze tradizionali delle quali non si
diparte mai ogni buon bresciano. Un altro conforto poi egli trovava nelle
occhiatine dolci delle donne. Cosa valete? Quella sua bellezza robusta e
barbuta, e la scomposta eleganza della persona, e il brio sovente rumoroso del
parlare gli aprivano un bel credito; ed egli si giovava allegramente, ma
convien anche dirlo, da galantuomo di questi favori della fortuna.
Quando dunque egli
smontò alla sua casa di Gargnano, il solo gesto ch'egli mosse fu per mettersi
le mani nei capelli. Quale stonatura! Quella casaccia in mezzo a tanta bellezza
di terra e di cielo! Quell'ammasso di ruine e di spazzature nel più bel
cantuccio delle sue ricordanze! - Si ebbe quasi a pentire di esserci venuto; ma
la gita era fatta, il paese era sì incantevole, la stagione sì propizia che
volle per quella volta fare di necessità virtù, e scialare sul lago la vacanza
lasciatagli dallo zio. Si piantò adunque sull'albergo; e riprese usanza coi
vecchi conoscenti della sua famiglia che gli faceano intorno una festa da non
dire. Le caccie, le pesche, le gite, le cene, le beverie furono interminabili;
ma quelle brigate del paese non gli finivano. C'erano troppi astii, troppe
invidie, troppi pettegolezzi! - E pur facendo suo pro di quella vita
giovialona, diceva ad ogni poco fra sè: - «Non mi ci piglieranno un'altra
volta! Qui lo veggo c'è del bresciano assai; ma manca il buon accordo, e la
sincerità! Basta, per ora giacchè siamo in ballo, balliamo!»
Visse a quel modo una
settimana, e poi tornò a Brescia dove suo zio giunse due giorni dopo. - Papà,
gli disse Gabriele dopo i primi saluti (fin dalla prima infanzia s'era così
avvezzato a chiamarlo Papà) - Durante la tua assenza m'è nato in capo un
progetto.
- Quale? gli chiese lo
zio.
- Vorrei restaurare la
nostra casetta di Gargnano. - Oh se vedessi che bei siti! se conoscessi che
buona gente, che...
- Come, come? lo
interruppe lo zio. - Ma come fai a sapere tutte queste belle cose se sei
partito di colà che avevi sei anni?
- Ecco, riprese
balbettando e un po' rosso di confusione il giovane; - ecco come sta la cosa.
Un mio amico... sì, un mio intimo amico che è di quei paesi, me ne ha invaghito
colle sue descrizioni.
- Bene! non vuoi
altro?... Penseremo, provvederemo...
- No, no! riprese
Gabriele con premura. - Vorrei mettermici subito.
- Oh bella! cosa ti è
saltato ora addosso questa furia?
- Non saprei...
soggiunse il giovane scolorando in viso e lambiccando le parole. Non saprei...
ma un proverbio dice... di non rimetter mai al domani quello che si può far
oggi.
Lo zio gli mise gli
occhi addosso, perchè quella maniera di atteggiarsi e di parlare era nuova e
strana assai in suo nipote.
- Non ci veggo alcun
guaio, riprese egli alfine, poichè non ce lo vedeva infatti. Giacchè lo
desideri va' pure a Gargnano, e accomodati la casa come ti piace.
- Faccio attaccare!
disse il giovane impetuosamente.
- Eh! che diavolo ti
pensi? sciamò lo zio. - Prima di pranzo!?
- Bene: andrò dopo
pranzo, rispose Gabriele con un sospiro.
In fatti si mise a
tavola collo zio, ma non poteva seder quieto e meno che meno mangiare. Lo zio
lo guardava sempre più stupito, e non sapeva cosa pensare. Finalmente
quell'eterno pranzo di due portate finì, il calesse fu all'ordine, e Gabriele
dopo abbracciato lo zio con una straordinaria effusione vi si gettò dentro che
mandava fuori raggi di contentezza fin dalle punte degli stivali. Lo zio
intanto tornato nella sala da pranzo si rimetteva a più gravi considerazioni
vedendo ancor piena la bottiglia di Gabriele. Questi dal canto suo fischiando,
cantando, dimenando la frusta e ballando col sedere sui cuscini del calesse
usciva da Porta Torlonga.
Cosa voleva dire questo
suo mutamento? - Perchè Gabriele balbettava e impallidiva? Perchè non aveva
egli bevuto la sua bottiglia? - Perchè dopo avere promesso a sè stesso di non
metter più piede a Gargnano vi tornava allora col disegno di restaurarsi la
casa? - Eh, lettrici belle, voi lo avete già indovinato il gran mistero! -
Dichiaro adunque che soltanto per gli uomini io m'indurrò a chiarirlo nelle
prime parole del capitolo seguente.
|