XIII.
In quel momento s'udì un
gran rumore intorno al palazzo, e molti soldati entrarono alla rinfusa nella
sala portando che la sommossa era al colmo, e che il popolaccio armato e
furibondo stava per invadere la piazza. Il Capitan Generale scese a rompicollo
per ordinare le milizie; i cortili e le strade rimbombavano di urli, di spari,
di bestemmie, e il Barone di Nicastro solo dietro la cortina rimase spettatore
pacifico del tafferuglio. La folla dopo brevi istanti sboccò nel piazzale; la
cavalleria le fu addosso furiosamente alle spalle; essa si ristrinse sotto il
palazzo, e le schiere del capitano andarono qua e là sparpagliate. Allora fu
veramente un disordine, un parapiglia, e una carneficina spagnuola. Un
mostricciuolo d'un facchino arrampicatosi per le inferriate del pianterreno
montò a cavalcione dello stemma di Castiglia che ornava la facciata del palazzo,
e di colà diessi col suo archibugio a bersagliare i soldati.
- D'onde viene questa
tempesta? disse un di costoro alzando il capo.
- V'è! v'è!... oh che
cane d'un pezzente!... Come sta cheto al suo posto!... Che bei tiri misurati! -
dicevano molti, ristando dalla zuffa per badare alla meravigliosa audacia del
facchino.
- Coraggio!... tira
diritto!... nascondi il capo dietro la pietra! gli andava soffiando il Barone
per un fesso della vetrata.
E il subbuglio s'era
acquetato, e gli amici applaudivano, i nemici ammiravano quell'uomo tristo e
cencioso, che solo erasi posto a bersaglio d'alquante centinaia di moschetti
senza stogliersi perciò dalla sua bisogna. Ad ogni tiro uno degli ammiratori
cadeva morto, e gli altri seguitavano ad ammirare.
- Por los hijos de
Granada, che l'è un prodigio! diceva un sergente veterano. E non sentì lo
scoppio dell'archibugiata perchè ne ebbe traforato il cranio da un orecchio
all'altro.
- Viva la España!... Viva la
regina e le Cortes!... Bravo!... Viva la ciudad de Granada! vociavano
alla rinfusa soldati e cittadini; mentre lo strano cavaliero seguitava quieto
quieto, come se mirasse, sto per dire alle rondini.
Allora ad un cattivello
di giornalista saltò il ticchio di rivaleggiare col facchino: e infatti,
aiutandosi delle spalle de' vicini, s'inerpicò pei pilastri d'una chiesa lì
presso, fino ad un cornicione che correva sulla porta maggiore. Lì acconciatosi
stese il moschetto, e sparato il colpo, la palla capitò a traforare il cappello
piumato d'un colonnello.
- Che è questa novità?
disse costui volgendosi a guardare verso la chiesa. E, come avviene in simili
casi, mille teste si volsero a guardare dov'egli guardava.
- Cosa fa quella
lucertola?
- Dàgli, dàgli a
quell'arrogante! si cominciò a susurrare fra i soldati.
- Pazienza uno; ma due
non si hanno a sopportare per verun conto; dicevano molti ponendo in mira i
moschetti.
Il Barone aperse
furiosamente la vetriera, e uscito sul poggiuolo, prese per le spalle il
facchino, cercando di trarlo a salvamento.
- Siete in due: son certo
che se più tardate siete morto! gli diceva egli con voce affannata.
Ma il facchino o non udì
o non volle scavalcare dallo stemma. E d'altronde l'aiuto gli veniva troppo
tardo, perchè nel punto istesso cento colpi gli fischiavano intorno; e mentre
il giornalista colle cervella frantumate cadeva infilzandosi nella baionetta
d'un caporale, egli, ferito nel cuore, stramazzava sulla folla, uccidendo colla
percossa un capitano di stato maggiore. Il Barone si ritrasse colle falde del
vestito crivellate dalle palle, masticando fra i denti qualche sanguinoso
improperio al numero due. La zuffa intanto riappiccava più accanita che mai;
Don Camillo rimase prigioniero del popolo, che espugnò a viva forza il palazzo;
ma questo fu ripreso dal Capitan Generale e con esso Don Camillo: Don Camillo
tentò di scappare per una finestra, e gli assalitori credendolo un nemico
fuggiasco lo ricacciarono nel suo buco a colpi di mazza. Finalmente un corpo di
milizie delle Cortes penetrò in Granata, col quale s'affratellarono perfidamente
le milizie del Capitan Generale; si gridarono nuovi evviva e i baci e i canti e
gli abbracciamenti furono cose da non dire. Quelli che avevano combattuto si
lavarono le mani e andarono a pranzo; gli altri ch'erano rimasti nei forni e
nelle cantine rividero la luce del sole, e s'impancarono pei caffè a narrare le
proprie prodezze; il Capitan Generale e Don Camillo, rimasti prigionieri,
furono messi in una sola lettiga, e con un buon corteo di fantaccini mandati al
parlamento per darvi ragione dei fatti loro. Convenne fare di necessità virtù,
si diede il saluto a quelli che restavano, e il convoglio si pose in via dopo
l'ora di notte.
- Tutto, diceva
sospirando Don Camillo - tutto per quella maledetta faccenda delle due Spagne!
- Due Spagne che vi impicchino!
gridò il capitano dandogli una gomitata nello stomaco. - Di Spagne ce n'è una
sola, ed è il più bel paese del mondo!
- Sono Barone di
Nicastro, rispose Don Camillo. La prego ad usar meco con qualche rispetto. Del
resto poi le so dire che non posso cantar le lodi della Spagna, io, che senza
la minima colpa vi fui fatto e rifatto prigioniero di guerra una dozzina di
volte in dodici ore.
- Tanto meglio; rispose
lo Spagnuolo - segno che il signor Barone è un galantuomo. - Vede ella,
soggiunse additando un cotale che veniva al paro della lettiga con un
lanternino tra mano; vede ella quell'alfiere?... Colui non fu mai fatto
prigioniero in trent'anni di milizia e in cento rivoluzioni. Servì un anno la
regina, un anno Don Carlos e un anno le Cortes; e quello che è più bizzarro, in
quell'anno che serviva la regina servì anche Don Carlos e le Cortes; nell'anno
che serviva Don Carlos servì anche le Cortes e la regina; e nell'anno
finalmente che serviva le Cortes servì anche la regina e Don Carlos. Così
giunse a mettersi da un canto cinquecento mila reali col reddito de' quali,
giubilato ch'egli sia, si ridurrà a vivere in una sua bella villeggiatura sul
Guadalquivir!...
- Qual bella sorte hanno
i birbanti in Ispagna! sclamò il filosofo.
- Giuraddio, me vivo,
nessuno mormorerà della Spagna! gridò il Capitan Generale, menandogli ne'
fianchi la solita gomitata.
- Sono Barone di
Nicastro! soggiunse inalberandosi Don Camillo.
- Scusi, rispose l'altro
con un inchino. - Io son Grande di Spagna: le offro la mia protezione.
- Ne approfitterò,
riprese il Barone; purchè non la impicchino come ribelle sulla piazza di
Madrid.
- Eh, signor mio! disse
a sua volta il Grande di Spagna - a Madrid non si impiccano i galantuomini!
- Buona questa! pensò il
Barone - che fosse galantuomo davvero costui? Vediamo di sincerarcene; che se
lo fosse non dovrebbe lagnarsene con tutte le croci che gli son piovute sul
petto.
- Scusi, aggiunse indi a
poco: Io sono un giudice di Sardegna, ella è un magnate Spagnuolo. Mi faccia
una confessione!
- Caro giudice di
Sardegna; rispose, il Capitan Generale. I magnati di Spagna usano confessarsi
al prete e dormire quando li piglia il sonno.
E ciò detto si sprofondò
in un canto della lettiga e prese a russare tanto rumorosamente, che più
discreto per avventura sarebbe stato il russare concorde di alcuno fra i suoi
reggimenti.
- Non c'è caso; borbottò
Don Camillo, accomodandosi anch'egli per dormire: quando si è in due bisogna di
necessità essere corni e croce!...
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