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Ippolito Nievo
Il barone di Nicastro

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  • IL BARONE DI NICASTRO
    • VIII.
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VIII.

 

Presto arrivano alla Zeta quelli che cominciano dall'A; figuratevi poi coloro che saltano di piè pari una buona metà dell'alfabeto! Al sonno felicissimo della Marchesa successero, per un lazzaretto, veglie da Principessa: ella fece alto e basso, ordinò, sgridò, schiamazzò, e tutti furono contenti: recise la coda del Barone, gli gettò la parrucca dalla finestra, unse col Macassar la sua nobile chioma, gli comperò dallo scrivano della tartana un paio di scarpe senza fibbie, e tenne per sè le fibbie ch'erano d'oro; gli proibì di inforcare que' suoi occhiali da gufo e lo ammaestrò a saldarsi nell'occhiaia una lente volante. Il filosofo torse, ritorse tutti i muscoli facciali, e ottenne per le prime lezioni un sufficiente risultato; la lente stette al suo posto: ma per tenerla gli conveniva chiudere le palpebre e guardare coll'altro occhio. - Povero filosofo!... poveri dobloni tesoreggiati dagli avoli e dagli arcavoli!...

Ma il Barone non ci trovò di che ridire; perchè i voleri d'una dama sì virtuosa, la sensibilità della sua indole, e la dolce tirannia dell'amore non sopportavano spilorcerie: tanto più che, grazie alla compitezza del guardiano, il vino di Samos, il caviale di Azov, lo stracchino di Gorgonzola, i fichi di Smirne, e i tartufi di Piemonte, lautamente imbanditi, solleticavano la verginità del suo palato. La Marchesa ingrassava a vista d'occhio, come la quaglia in un campo di frumento; madonna Rosaura riempiva di belle polpe il suo floscio corsetto, e ambedue cantavano la primavera, il Barone mangiava, sospirava, sorrideva talvolta e dimagrava come un chiodo, Floriano si guardava le unghie dalla mattina alla sera, pregava il Signore di salvarlo dai giudizii temerarii, e dormiva al pian terreno sopra una coltre che due mesi prima aveva servito di giaciglio agli scimmiotti d'una matrona inglese: se madonna Rosaura lo stuzzicava per chiasso colle sue giullerie, egli in grazia de' suoi sessant'anni sonati teneva duro col muso alla parete, finchè non fosse spento il lume. - Quando Dio volle il guardiano comunicò ai suoi ospiti che la quarantina era finita e il Barone, col maggiordomo, colla Marchesa putativa e colla nutrice di questa, fu accomodato d'una lancia che lo tragittasse a Genova. In breve spazio di tempo toccarono il molo, ed ebbero addosso una furia di facchini che si contrastavano le robe loro, come le spoglie d'un campo nemico.

- Oh caro il mio Giorgio! sclamò tutto d'un tratto la Marchesa, appendendosi al collo d'un bel tenente di cavalleria che le veniva incontro a braccia aperte. Oh marito dolcissimo!... oh gioia del cor mio!... Con permesso, signor Barone.

- Oh sposo adorato! disse a sua volta madonna Rosaura, stringendosi al seno un grosso capitano di mare. - Serva sua, signor Floriano

Ambedue guizzarono, via coi loro eroi per il chiassuolo di traverso; il facchino le seguiva col baule di pelle d'asino, colla scatola di cartone, e colla bisaccia da notte. Il Barone e Floriano rimasero sul molo ritti, scimuniti, come due iniziali che abbiano perduto il resto della parola. Ma non si tramutarono in istatue di sale; perchè io so di sicuro che la sera stessa il Barone giaceva in un tepido letto al N.° 33 dell'Albergo dei Tre Re al civico N. 3333; nel quale albergo incappò egli venturosamente dopo averne scartati altri dieci che portavano un tristo numero, o avevano per insegna le Due Colombe o le Quattro Spade. - Giaceva egli in quel letto il povero Barone, cinto per ogni lato da fiale, da alberelli, da tazzini, da boccette, da unguenti, da cerotti, sicchè non pareva uscito da poco dal Lazzaretto, sebbene più che mai prossimo ad entrarvi.

- Oh me misero! oh me sfortunato! gemeva l'illustre infermo.

- Si consoli, soggiungeva il buon servitore, mi assicurò da basso il credenziere, che vi hanno Marchese assai più pericolose; vale a dire quelle che prendono la cosa sul serio e non per burla.

- Sciagurato!... tu non conosci e non hai studiato il valore degli uomini e delle cose! sclamò il Barone. - Ma io!... io che so la storia di Taide, di Frine e di Cleopatra!

- Si riconforti, caro padrone! mormorò Floriano. - Le disgrazie talora raggiungono anche la virtù.

- No, caro messere! rispose il filosofo, - non stavvi a credere che io perda la fede nella virtù, perchè male me ne incolse una volta di darle retta troppo ciecamente!

- Si assicuri!... non era virtù di buona lega, caro padrone!...

- Taci, ignorante, e studia quanto ho studiato io; riprese sbuffando il malato, - ti ripeto che se male me ne incolse, restami la pazienza che fa del male bene. Ma un'altra volta, lo giuro innanzi a te, messer Floriano! non mi fiderò mai e poi mai di stare in due in una camera!... Due!... numero fatale... numero pestifero!... Ahi ahi ahi! gridò il Barone che s'era dimenato un po' troppo.

- Cosa le occorre? disse il maggiordomo balzando in piedi.

- Nulla! rispose il Barone, senonchè corri subito in cucina!... Chiama un spazzino, un cameriere, un guattero; ma torna con qualcheduno che ci faccia il terzo, altrimenti ho timore che, contendendo fra noi, finirò una volta o l'altra col romperti nel capo questo...

Non era un'arma da Barone, ma che pure in certi frangenti è necessaria anche ai Baroni, quella che brandiva con piglio minaccioso nel pronunciare queste parole; siccome poi egli si tenne dal nominarla, così me ne dispenso anch'io, lasciando alla vostra fantasia il divertimento di figurarsela, e alla vostra salute l'augurio che possa essa farne senza in saecula saeculorum.

 

 

 




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