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Ippolito Nievo
Il barone di Nicastro

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  • IL BARONE DI NICASTRO
    • XXVIII.
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XXVIII.

 

Il quale tuttavia non ne morì, e appena rinvenuto trovandosi nel suo antico talamo dalle gialle cortine di seta, confuse le sue lagrime con quelle di Floriano, che gli baciava devotamente la mano di gomma.

- Anche tu Floriano, anche tu mi hai tradito! disse con fiochissima voce l'illustre infelice.

- Signore e padron mio; rispose piagnucolando Floriano che sputava le parole pei molti denti che gli mancavano; fu per salvargli quell'anima... se no la andava alla perdizione!... Oh mi creda che se noi non avessimo creduta morta l'eccellenza vostra, io non mi sarei sobbarcato a questa penitenza.

- Ah penitenza la chiami! soggiunse con un brivido il Barone. - E quei due bamboli, Floriano, quei due bamboli!?

- La Provvidenza mi ha ricompensato della mia buona opera; rispose col collo torto il sagrestano. - Il primo ha tre anni, e l'altro ventidue mesi.

- Bravissimo! mormorò il Barone - e - prendi, aggiunse cavando di tasca e sporgendogli il rescritto del Bramino di...: tu hai sposato senza saperlo una donna che ha centoventisettemila quarti di nobiltà indiana, e per giunta... - Puh! fece Don Camillo con un sussulto: maledetto chi ha inventato i canocchiali.

- Per carità, signor Barone! borbottò scandolezzato Floriano.

- Eh lasciami almeno maledire chi voglio a mia posta! riprese Don Camillo con un sospiro. - Ora per mio ultimo malanno mi converrà cercare un'altra donna che prolunghi il mio albero genealogico!

- L'ho già trovata, rispose Floriano; una santa donna, la Baronessa di Sassobianco.

- Sì, sì, vada per la Baronessa; ripigliò Don Camillo, - già pur troppo m'accorgo che mi toccherà morire senza aver trovato l'armonia Pitagorica.

- Purchè non sia un'eresia la troverà in Paradiso; soggiunse Floriano.

- Vammi un po' al diavolo! gli gridò dietro il Barone, e voltatosi verso la parete si diede a ricapitolare le sue conchiusioni filosofiche. Partitosi Floriano, venne indi a poco la volta della Tesoruccia, che quasi morì di dolore all'udir che se avesse pazientato tre anni e mezzo la sarebbe divenuta moglie del Barone. Siccome la madre di costei era rimasta abbruciata nell'incendio d'un teatro diurno di Genova, così Don Camillo ebbe il conforto d'aver a che fare solamente col lampadaio quando costui si credette in dovere di salire ad ossequiarlo; e da ultimo capitò anche Madonna Nicefora, la quale gli fece ingoiare la biografia di tutti i suoi polli dal giorno ch'egli s'era partito da Nicastro infino allora. Sopraggiunsero poscia il rettore della Parrocchia, il maestro, lo speziale, il cancellier criminale, il cursore e il campanaro; dopo di che il Barone saltò dal letto, ove era rimasto per accomiatarsi più presto da quegli oratori, e si ritirò in quella biblioteca donde quasi ott'anni prima era uscito per cercare nelle vicende umane i commenti e le prove della filosofia. Per altro anzichè perdere ancora gli occhi in que' polverosi zibaldoni che ne adornavano gli scaffali, o mettersi a scrivere contro Bruto i venti volumi promessi al giudice americano, egli tolse un sol pezzetto di carta, e dopo breve raccoglimento vi vergò sopra con mano sicura queste poche righe:

 

Vera ricetta per guidar la Scienza a trovare la Virtù ricompensata colla felicità, nella trina e perfetta armonia Pitagorica, secondo le dottrine comunicate da molti celebri trapassati al Baron Clodoveo di Nicastro nell'anno di grazia 1111, e l'esperienza pur troppo fattane dal Barone Camillo, negli anni di disgrazia che corrono. Il tutto in relazione al motto araldico gentilizio: «Pesare e pensare» e per norma e sconforto de' miei nipoti e pronipoti fino all'ultimo aborto.

Pesar poco, pensar nulla; fare il bene e fuggir il male per ispirito di contraddizione; operare, se i tempi lo consentono, grandi e generose cose per sentimento estetico; e cercar il resto nelle nuvole o a Parigi, dove qualche cosa si potrevbe trovare in barba al Misogallo.

Scritto di mio pugno, da me Camillo Bernardo Lucio Clodoveo Barone di Nicastro, la sera del giorno 11 Ottobre 1856, appena tornato dal mio sventuratissimo viaggio pei due mondi; e scrivo per corollario in foggia di enigma, che i due mondi sarebbero beati se si cancellasse da essi il numero due, simbolo di altalena, di contraddizione, di immobilità.

 

Scritto e piegato questo bizzarro documento, Don Camillo salì con gran fatica e con una scala a piuoli, sulla quale con due gambe e con somma agevolezza era salito otto anni prima per leggere le sublimi pergamene del suo antenato; ripose la cartolina nel ripostiglio, chè d'allora in poi era rimasto vuoto e sbardellato; lo richiuse gelosamente, e sceso che fu, ne collocò la chiave in un buco sopra il camino, dove gli individui di sua famiglia avevano dovere sacrosanto di rintracciarla, perchè avessero finito quello studio teorico della vita e degli uomini che ad ognun d'essi incombeva. Dopo ciò mise supina la scala dietro la libreria, si terse il sudore che gli gocciava di sotto la parrucca; e uscì per domandare a Floriano quando contava presentarlo alla sposa.

Per non allungarla di troppo vi dirò ch'egli si ebbe a riammogliare colla Baronessa di Sassobianco due mesi dopo all'incirca, e che un tal matrimonio non fu molto avventurato, avvegnachè la sposa godesse meritamente la fama di zitellona acerba e lunatica.

- Ohimè! sospirava il Barone quando aveva la fortuna di trovarsi solo; ohimè la duplicità da ficcarsi anche nel mistero della generazione!...

E di tal trista necessità consolavasi affaticando delle sue eterne lamentazioni le orecchie del buon rettore della Parrocchia.

- Oh sono molto infelice! gli diceva egli una cotal sera di dicembre.

- Lo veggo; rispondeva sbadigliando il rettore.

- Or dunque come va pigliata questa matassa? tornava a dire Don Camillo. Se la duplicità contraddittoria prende a perseguitare un Barone, un filosofo e un viaggiatore della mia fatta, come ne vanno esenti così facilmente due simili cialtroni?

- La duplicità oggettiva ha la sua causa subbiettiva, continuava a discorrere l'abate che tirava allo scolastico, - proprio come i colori, benchè siano nella luce, hanno bisogno dell'occhio cui manifestarsi. Ora non è egli vero che Floriano è tutto per l'anima, non pensa che all'anima, non opera che per l'anima?

- È vero!

- E non è vero puranco che il lampadaio ha cura soltanto d'inaffiare il suo corpo di malvasia, e rimpinzarlo di polli e di salati?

- È verissimo!

- Per questo essi sono felici! sclamò trionfando il rettore - per questo, che, ambidue a loro modo, riducono la duplicità umana ad una assoluta unità. Mentre vostra eccellenza che vuol badare all'anima e al corpo ci perderà come si dice il ranno e il sapone.

- L'anima e il corpo!... l'anima e il corpo? - andava brontolando Don Camillo - ecco la sorgente delle infinite contraddizioni, delle infinite miserie nostre!... E dovevo proprio impararla dalla bocca d'un abatucolo!... - Ma io non mi lascerò domare dalla paura o dalla vigliaccheria! - soggiunse indi a poco - natura m'impastò di materia e di spirito, e mi pose in un perpetuo bilico fra l'angelo e il maiale! io non sacrificherò una parte dell'esser mio all'altra parte, per amore del quieto vivere. Vivrò forse fra i dolori e morrò tra la disperazione e lo spavento, ma vivrò e morrò intero come fui stampato.

Il Barone si ritrasse brontolando alla biblioteca, ove la sapienza dormiva taciturna e infeconda in un buio pieno di mistero o di nulla. Il vento flagellava le imposte; i vetri e le porte scricchiolavano; uno scroscio profondo che si distingueva a volte tra i diversi rumori della procella faceva pensare che lo spirito di Bruto ghignasse ferocemente in fondo a qualche scansia.

 

 

 




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