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Eugenia Codronchi Argeli (alias Sfinge)
Il castigamatti

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  • L'UOMO CHE VOLEVA ESSERE CHIC.
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L'UOMO CHE VOLEVA
ESSERE CHIC.

 

Alcuni anni or sono, quando il mondo pareva pacifico, le classi più danneggiatemoralmente — dalle miserie della disoccupazione, non erano quelle del proletariato, ma quelle della così detta elevata società.

Il conte Giorgio Machirelli di Fontanèlice apparteneva al proletariato spirituale. Giovane, bello, ricco, indipendente, non era felice e sentiva che qualche cosa mancava alla perfetta soddisfazione di . Voleva avere una sua propria personalità, voleva essere qualcuno, in un ambiente che contentasse la sua ambizione.... o meglio la sua vanità.

La piccola città di provincia in cui era nato e in cui era il primo signore, offriva un orizzonte troppo limitato, indegno dei voli della sua immaginazione.

"Bel gustodiceva a stesso — essere il primo in un villaggio! Questo paradosso poteva enunciarlo Giulio Cesare.... che si sentiva il primo nel mondo!"

Non aveva la passione della politica, la sola che avrebbe potuto condurlo a qualche facile conquista; ne era anzi nauseato, perchè intorno a ne aveva respirata troppa e aveva assistito a tante vicende che, non essendo abbastanza ingenuo, abbastanza idealista, abbastanza esteta per apprezzarle in vario modo, gli erano sembrate disgustevoli e ridicole. Un ex-cuoco della sua famiglia era sindaco della città; un astuto ciarlatano ne era il deputato: e quello era il partito avanzato. Alcuni cretini senza idealità, nobili spiantati o grassi borghesi, alleati dei preti, componevano il partito conservatore. Egli non avrebbe voluto essere con gli uni con gli altri. Si occupava un poco di agricoltura (troppo poco) e viaggiava. E la sua ambizioncella lo mordeva agli stinchi come un botolo irrequieto.... Era piuttosto intelligente, discretamente equilibrato, e press'a poco conosceva stesso; a grandi cose non poteva aspirare. Che fare, dunque, per distinguersi dagli altri, per far parlare di ? Pensò allora di diventare un uomo chic.

In verità la vita mondana della sua città era una cosa buffa e soffocante, o meglio, non esisteva. Salotti? Nessuno. Il sottoprefetto dava un ballo in carnevale e un ricevimento il giorno dello Statuto; ma quelle riunioni gli parevano degne d'essere comicamente descritte da Balzac o da Anatole France (egli non conosceva la letteratura italiana, ma era abbastanza edotto di quella francese). La nobiltà era decaduta o aveva espatriato verso centri maggiori. Eppoi la politica divideva la gente. Vi erano belle donne, certo; ma chiuse nei ginecei. Restavano quelle del popolo: ma dedicarsi alle sartine, farne delle cocottes, prendendo la responsabilità di lanciarle nel vizio, non gli piaceva. Aveva avuto un'educazione morale e religiosa di cui gli restava nel cuore qualche cosa, insieme al culto dei suoi genitori, morti prematuramente.

Avventure? Con chi? Prender moglie? Troppo presto. Eppoi, le ragazze provinciali, coi suoi gusti eleganti, non lo attiravano. Dacchè viaggiava, dacchè faceva conoscenze nelle città di bagni, nei grandi alberghi di montagna, le sue giovani concittadine lo facevano soltanto sorridere. C'erano di belle ragazze, però. Ma oche! Indietro di secoli! Alcune anche assai ricche, figlie di industriali o di agricoltori; ma si potevano sposare creature così arcaiche? Avevano modi, abitudini antidiluviane, chiuse nella loro timidezza provinciale, nella loro onestà fiera ed ombrosa. Mai teatri (poche settimane al tempo della fiera d'agosto), mai spettacoli, mai nulla che potesse raggentilirle e modernizzarle. Il loro solo spasso, oltre qualche piccola passeggiata e le feste di chiesa, era la finestra. Sicuro; all'ora del "corso" tra qualche vaso di geranio e di limoncina, si vedevano apparire ai davanzali teste e busti femminili, per qualche momento. Anzi l'eleganza delle signore e signorine della città era tutta dedicata a quelle apparizioni. Come nei grandi centri le signore ordinano alle sarte vestiti da ballo, da passeggio, da ricevimento e così via, in quell'ancora selvaggio borgo le donne ordinavano alle sarte camicette eleganti (le gonne potevano essere semplici) così: "Desidero una camicetta da finestra". Giorgio ne rideva e sdegnava quelle buone provinciali ingenue e semplici fino alla comicità.

Una di quelle signorine, veramente, di fisico gli piaceva molto. Il padre aveva la villa vicina a quella Machirelli a Fontanèlice. Avevano fatto lassù nel bel cerchio di colline, fra quelle vigne opulente, accanto al bel fiume fresco dall'infinito corteo di pioppi, intima conoscenza. Intima per modo di dire.

Il signor Pasotti, ricco agricoltore, si era costruita una casa massiccia, di cattivo gusto, più fattoria che villa, poco lungi dalla bella e grande casa dei Machirelli, una forte e squisita costruzione settecentesca, ornata sulle finestre e sulle porte da gentili svolazzi, coi suoi balconcini gonfi, con le sue sale deliziosamente rococò, ora abbandonate e malinconiche. Il padrone non amava quella villa solitaria e ci stava poco. E disprezzava quei suoi vicini volgari che un tempo erano stati dipendenti della sua famiglia.

I Pasotti avevano una figlia: la signorina Adelina, che era la più bella e la più ricca ragazza della città e che somigliava a sua madre nella virtù di perfetta massaia. Bella assai la signorina Adelina! Alta, ben fatta, sana. Il suo corpo non aveva bisogno di busto per essere una meraviglia. I capelli erano un favo di biondo miele, gli occhi grandi, pieni di luce avevano un colore tra il verdolino ed il giallo, somigliante al color fresco e trasparente di quella deliziosa prugna che chiamano reine Claude. Era tutta fiorente e bella e mangereccia, più frutto che fiore! Linda e pulita come una gattina, non portava mai profumi, ma odorava della cotonina dei suoi vestiti e dell'aroma naturale della sua carne che pareva polpa di pesca.

Giorgio le disse una volta: "Signorina, non sa? Quando la guardo mi viene voglia di morderla".

Ma essa non gradì il complimento.... perchè fece la faccia scura e finse di non udire. Era un'anima semplice e una mente non coltivata. L'avevano tenuta alcuni anni in un collegio di monache, dove non aveva imparato nulla. Solo sapeva cucire e ricamare. Era una vera fata dell'ago. Suonava anche un po' il pianoforte, ma unicamente gli spartiti delle opere che si davano d'estate al teatro comunale o pezzetti staccati, ballabili volgari, scelti dal suo vecchio maestro, che era il capobanda municipale.

Giorgio preferiva che la signorina Adelina non suonasse, tanto più che le sue mani parevano rossi gamberetti.... E come si vestiva male quando voleva mettersi in eleganza! A vederla così infagottata, veniva a Giorgio la voglia di spogliarla.... Ma questo non glie lo diceva. Eppoi quanti errori d'italiano faceva! In casa parlavano il dialetto e la povera Adelina perdeva l'abitudine della.... proprietà dei vocaboli! Una volta disse a Giorgio: "Vuol venire, signor conte, a vedere la nostra veneranda?" Voleva dire "veranda", la bella veranda a cristalli tutta coperta di glicinie, orgoglio del buon signor Pasotti.

Un'altra volta disse: "Io lavoro ogni mattino sotto il pergolese". Voleva dire il "pergolato" formato da un'immensa vite tutta turchina. (Il solfato di rame ha cambiato il colore dei vigneti; i quali verdi non sono più ma azzurri.) Quella rossa bocca perlata di splendori avrebbe dovuto sempre tacere. Giorgio era persino irritato di dover trovare ridicola quella bella creatura. Con alcuni suoi amici l'avevano battezzata "la Veneranda" e quando erano tentati di ammirarla troppo, il ricordo dei suoi strafalcioni li guariva dall'entusiasmo inutile, perchè era una ragazza assolutamente, tradizionalmente per bene. Nessun contrabbando con lei, nessuna modernità di relazioni, nessun flirt. La parola e la cosa le erano ignote.

 

§

 

Il conte Giorgio da gran tempo non si vedeva alla villa di Fontanèlice in città. Egli oramai passava la maggior parte dell'anno a Roma, a Nizza, a St. Moritz, a Biarritz, a Ostenda, a Venezia, a Parigi. Procedeva pei gradi della sua carriera d'uomo chic, meno facile di quanto da principio gli fosse sembrato. Già, perchè egli era un uomo istintivo e semplice, e la vita in cui si era messo gli pareva, in fondo, una mascherata.

Fra le diverse conoscenze maschili cosmopolite, si era specialmente legato con un principe meridionale, don Pandolfo di Torrebruna, che viveva fra Parigi e Roma, specie di avventuriero elegante, sulla quarantina, che era diventato un poco il suo mentore o meglio il suo Mefistofele. Si era abbarbicato a Giorgio perchè lo sfruttava, avendolo indovinato ricco e generoso. E Giorgio gli pareva un discepolo avente i requisiti per fare onore al maestro. Gli diceva: "Sei ricco, hai un bel nome, sei giovane, hai dello chic naturale; ami le donne ma non farai mai delle vere sciocchezze per una di esse.... Hai un solo difetto: sei troppo bello e hai troppa salute. Un po' di calvizie incipiente, l'aria un po' stanca, ti darebbero più linea. Però porti bene il vestiario, ti fai con disinvoltura il nodo della cravatta: una cosa di grande importanza.... Nel nostro mondo, ricordatelo, la cravatta.... è l'uomo! Le donne ti guardano con simpatia.... perchè dài l'impressione di infischiarti di esse. Ciò è molto chic. Prometti bene!"

Giorgio invitava il principe a pranzo e in auto, gli offriva poltrone ai teatri dove non erano le barcacce eleganti, ed altre simili cortesie. Il principe per suo conto aveva proposto Giorgio ai clubs più quotati, lo aveva presentato nei salotti e negli atrii dei grandi alberghi, dove si svolge la vita cosmopolita. Giorgio ebbe molto successo. Alto, biondo, col suo piglio un po' spavaldo, con le sue spalle da corazziere, con le sue maniere di gran signore, con la sua bella faccia vandyckiana, vestito a Londra, possessore di una magnifica automobile, di cavalli da sella, di cani, di un cameriere ben stilato, alloggiato a Roma al Grand Hôtel, passava per un Nabab, e tutti lo accoglievano con sorrisi.

Don Pandolfo era soddisfatto del discepolo e gli diceva: "Ora sei quasi perfetto. Ti mancano alcune sfumature.... ma ciò verrà a poco a poco".

E poichè Giorgio, che il successo e la vanità inebbriavano un poco, insisteva per gli ultimi ritocchi alla sua perfezione, il principe formulò per lui una specie di vade-mecum di insegnamenti definitivi, un qualchecosa di simile ai consigli di Laerte ad Ofelia.... o meglio una mosaica tavola delle leggi per la condotta di un uomo che si rispetti, nella buona società.

"Vedi? bisogna nascere con la disposizione: bisogna avere la bosse: si nasce gente chic.... come si nasce genii. La signorilità, sì, sta bene: ma è un'altra cosa. Si può essere gran signori con dieci secoli di selezione famigliare e non essere gente chic. Brummel era di modesta origine e arrivò ad essere.... quello che fu. L'uomo chic deve aver l'aria di disdegnare il mondo intero e di non prendere niente sul serio. Deve annoiarsi sempre; sorridere (ridere mai) ignorare tutto quello che gli è inutile. L'arte di ignorare le cose e le persone è una delle nostre regole sine qua non. I nomi non illustri, per esempio, è chic di non ricordarli mai.... e anche qualche volta quelli illustri. La cortesia, vedi, è vieux-jeu; sarà signorile, sì, ma non è più di moda. Essere finemente scortesi è darsi un contegno, è prendere un atteggiamento: qualche volta, sai, è difficile avere una fisonomia morale propria. Spesso uno.... non è nessuno. Allora, se si può dire di lui: "È scortese, altezzoso, si delle arie" è già qualche cosa, capisci? Un uomo elegante deve amare le bestie più che le persone. Un grande amore è quasi ridicolo.... è mal porte: la passione per qualche sport invece, è molto opportuna. Anzi, non per una cosa seria, ma per qualche gioco appunto, correre dei rischi, rompersi magari il collo, è molto elegante. Prediligere una donna che non abbia una posizione fatta in società, è pericoloso. Non te lo consiglio...."

"Oh bella! Ma se mi piacesse? — interruppe Giorgio la prima volta che udì la giaculatoria.

"Ciò non importa. Non si sceglie la donna che ci piace quando si vuol essere un uomo quotato in società: si sceglie la donna che piace.... agli altri! È assai chic avere una liaison con una signora molto nota anche se non la si ama. Si può avere allora in compenso una cocotte che ci piace: e che si può lanciare. Ciò è molto di buon genere e, naturalmente molto costoso.... quindi tanto più chic. Eppoi ci sono le ragazze con le quali si può flirtare, anche se non si vuole sposarle. Questo è di gran moda.... ed è molto divertente...."

Giorgio, tra sbalordito e scandolezzato in principio, subì il contagio, imparò, mise in opera i consigli, visse di quella vita febbrile e vuota, falsa e viziosa, di fruge consumere natus, si avvelenò in quell'atmosfera di serra, senza ossigeno e senza luce di sole. Gli parve d'essere ubbriaco, un ubbriaco cosciente che sa di esserlo, ma che non fa nulla per il suo proprio risveglio. La sbornia lo divertiva; spendeva, spandeva. Le sue duecentomila lire di rendita gli bastavano appena. Non andava più, nemmeno di sfuggita, a casa sua; si vergognava dei vecchi amici, del suo agente, del suo fattore, dei suoi vecchi e fedeli dipendenti che avevano servito i suoi genitori ed i suoi nonni.... Gli pareva d'essere un altro; oppure d'essere ad un veglione, ad un'orgia elegante.... che si prolungasse all'infinito. Aveva il senso lucido del suo abbassamento, ora che aveva ottenuto il suo scopo, ora che era diventato un uomo in vista, un uomo veramente chic, il cui nome era citato in tutte le cronache d'oro dei ritrovi cosmopoliti. Sì, perchè sentiva che a nessuna delle sue intrinseche qualità doveva i suoi successi.... Il suo denaro, che la gente supponeva superiore alla verità, e la sua vernice esteriore, erano quelli che gli attiravano i suffragi: la sua discreta intelligenza, la sua sana mascolinità, la sua coscienza, si umiliavano della loro perfetta inutilità. Le cocottes non si occupavano che del suo portafogli, s'intende; ma anche parecchie signore.... purtroppo: ed egli cascava dalle nuvole sbalordito e avvilito.... Il suo fondo di provincialismo sano e semplice, la sua rettitudine tradizionale d'uomo inconsciamente radicato a certe leggi intangibili di onestà di casta, si spaventava e la sua coscienza lo mordeva come un pungolo agitato da una invisibile mano.

Nemmeno le ragazze lo apprezzavano per le qualità cui egli teneva di più, ma sempre per la cornice che lo inquadrava. Quelle con poca dote pensavano ai suoi quattrini, quelle ricche al suo titolo. Se ne avesse dubitato, il suo amico e maestro, il principe Pandolfo, si sarebbe incaricato di aprirgli gli occhi.

Le signorine più eleganti, le più di moda erano quelle che lo sbalordivano e lo scandolezzavano di più, e gli era occorso qualche tempo per avvezzarsi a quella rivoluzione nelle consuetudini e nelle tradizioni.

Una sera, a Roma, al Grand Hôtel, ad uno di quei balli di beneficenza che sono una delle più urgenti sconcezze da togliere dall'uso, perchè offendono la dignità delle sciagure umane, egli aveva incontrato una bella fanciulla del clan più moderno, che gli era piaciuta. Piaceva anche agli altri e, secondo l'insegnamento di don Pandolfo, era degna di ammirazione. Egli si accorse subito che destava la simpatia di lei. Lalla non aveva molta finezza di maniere, ma era bella di una bizzarra bellezza di animaletto di lusso, che ha nella vita una sola occupazione: la coltura del proprio corpo. Fast, male educata, rumorosa, elegantissima, scollatissima, accettò — o offrì? — il flirt con Giorgio con impudica schiettezza. Ballò con lui il tango, la machiche, il passo dell'orso e del tacchino con così lascivo abbandono ch'egli ebbe l'impressione.... di non avere più nulla da chiederle. Eppoi al buffet, dietro una grande palma, ella aveva divorato ghiottamente un marron glace, succhiandosi poi ad una ad una tutte e cinque le punte delle dita; ed avendole egli detto sorridendo: "Doveva essere assai buono! Perchè non me lo avete fatto assaggiare?" ella gli aveva offerta la bocca inzuccherata.

Alcune sere dopo, in un'altra di quelle riunioni senza fisonomia e senza vero stile, in un altro grande albergo, casa di tutti gli sradicati, di tutta quella gente senza patria e senza focolare, di quei cittadini di Cosmopoli che parlano lo stesso argot, di quella gente che vorrebbe divertirsi e che in fondo si annoia, di fantasmi senz'anima, di corpi che non sanno nemmeno più godere, di macchine che non conoscono nemmeno più la gioia vera ma solo gli spasimi del vizio, una sera una signora gli disse "Perchè non sposate Lalla? È ricchissima e vi adora".

Egli inorridì come se gli avessero proposto una turpitudine, e si accorse di avere arrossito....

 

§

 

Ma la sua avventura più clamorosa e più gloriosa, che lo pose all'apice della mondana celebrità, fu la sua relazione con la dama più in vista e più originale dello snobismo internazionale, con la vera regina della eleganza più bizzarra e più dernier-cri. La duchessa Vera era una russa straricca che aveva sposato un autentico signore italiano: il duca d'Albula. Il duca giocava, ed ella recitava la sua parte di prima-donna mondana applauditissima. Aveva una certa intelligenza istrionica, un certo gusto d'arte, una vanità sfrenata, dei nervi senza pace e senza stanchezza. Ignorava il vero sentimento e la vera sensualità, le due ricchezze che perdono le donne. Per queste due assenze, l'agile barca del suo destino non poteva naufragare totalmente, ed essa aveva mostrato di sapere navigare attraverso pericolosi pèlaghi....

Era stata alcune volte sul punto d'essere seriamente compromessa, ma la sua grande posizione mondana ed il suo sangue freddo l'avevano salvata in tempo. Passava per stramba.... e questo le faceva tutto perdonare. Aveva una magnifica villa aperta a ricevimenti fantastici; un cuoco famoso, automobili, cani, uccelli rari. I suoi levrieri russi, che sporgevano i lunghi musi dalla sua limousine, erano i più belli che si potessero vedere; ma l'ultima sua passione era una giovane tigre ch'essa portava con al guinzaglio, qualche volta perfino in società.

La duchessa Vera aveva una spettrale figura, dalla maschera artificiale. Era, in verità, bruna o bionda? Non si sapeva. Aveva gli occhi scuri, approfonditi da sapienti tocchi, i capelli d'un rosso innaturale, scuro, cupreo, come di rame offuscato dalla fiamma. La pelle era di un bianco uguale ed opaco, le labbra sottili color di sangue e la dentatura balenante. Le mani magre e nivee avevano le unghie colore delle labbra. Tutta quella pallida magrezza con tre note rosse: capelli, labbra, unghie, era giudicata supremamente attraente. Tutte le cose che la circondavano erano pallide e spente. Non si vestiva che di tinte neutre, non portava che perle e brillanti (favolosamente belli), e le sue stanze erano tappezzate di stoffe incolori come fondi di stampe e di acqueforti.

Il grande salotto nel quale riceveva di giorno aveva le pareti bianche, i mobili di broccato grigio argenteo con grandi cuscini di velluto nero. Tappeti di velluto bianco e bianche e molli pelli d'orso e di volpe coprivano il pavimento. Sulla chaise longue un immenso lenzuolo di piuma di cigno. Sui mobili di ebano e avoriostipi e secretali cinquecenteschi magnifici — erano grandi, larghe e basse coppe di cristallo, contenenti rose bianche senza foglie, ninfee, bianchi narcisi, gardenie, giacinti candidi.

Quella donna artificiale e anormale s'innamorò, a modo suo, del conte Giorgio di Fontanèlice. Sazia di giovani pallidi, sbarbati, stanchi, quasi calvi, quasi vecchi, volle aggiogare al suo carro di Venere.... futurista il bel moschettiere sano e biondo, che odorava di forza e di giovinezza.... Eppure quei meriti erano così superflui per lei che in tutte le cose e anche nell'amore, preferiva le tinte tenui, indecise, evanescenti....

A Giorgio quella donna non piaceva. Gl'ispirava anzi da principio una specie di repulsione e lo intimidiva con le sue eccentricità. I suoi profumi lo stordivano, i suoi gusti lo urtavano, le sue raffinatezze lo sbalordivano.... e lo umiliavano. Ma essa lusingava il suo amor proprio. Tutti lo invidiavano, tutti lo guardavano con una deferenza speciale dacchè era il favorito della duchessa Vera; le donne lo trafiggevano con gli strali avvelenati dei loro occhi invidiosi e bramosi. Eppure egli era segretamente stufo, in pochi mesi, di quella relazione piena di transazioni coi suoi gusti nativamente sani e in fondo incorruttibili. Quella donna che stava sempre sdraiata, che mangiava solo pochi cibi prelibati, manipolati da un sapiente artista della cucina, che beveva bibite complicate e gelate, che fumava quaranta sigarette oppiate al giorno, che si attossicava coi profumi delle essenze e dei fiori, che non rideva mai, che diceva di non amar altra musica che quella di Debussy, di Hahn e di Strawinsky, aveva un'anima di pupattola a cui la passione era sconosciuta, aveva un corpo glaciale, destinato ad un solo scopo: conservare la propria linea.

Era in fondo meno cattiva, meno perversa della sua fama e della sua apparenza; non per morale ma per indolenza. A Giorgio almeno pareva così. E ne era già sazio, non per abuso (chè con quella donna si prendeva il piacere solo in pillole) ma per incompatibilità di temperamenti.

Il marito della duchessa passava per un cinico pieno di spirito. Soleva dire: "La vita di mia moglie mi diverte come una commedia ben riuscita. Io sono il primo ad applaudirla". Con Giorgio era cortese, quasi amichevole. Abbiamo detto che il duca d'Albula amava il gioco: amava anche il bere, e spesso, di notte, era alterato dallo champagne e di giorno preferibilmente dal gin. Aveva un suo fantino ed un suo cane (la sua compagnia prediletta) che bevevano a gara con lui: sicchè tutti e tre, compresa la povera bestia, erano spesso ubbriachi al tempo stesso, in un terzetto ripugnante o comico (secondo il punto di vista).

Una sera al club egli aveva vinto e bevuto molto ed era di buon umore. Giorgio era per caso, perchè di solito passava quelle ore nel salotto bianco e nero della duchessa, che quella sera aveva l'emicrania e lo aveva congedato. Il duca d'Albula battè una mano sulla spalla di Giorgio e gli disse con un sorriso tra ebete e furbo, senza nemmeno abbassare la voce:

Caro Machirelli, non ti ho ancora detta una cosa che so da un pezzo.

— Cosa sai? — fece Giorgio turbato.

So che sei l'amante di mia moglie.

— Sei pazzo!

— No. Ma te ne sono grato: perchè sei il solo della serie che non le sia costato un soldo!

Giorgio impallidì d'orrore. Disse:

— Sei ubbriaco, va a coricarti!

Ma quel cinismo e quella rivelazione (perchè sentiva che eran vere le parole dello sciagurato) furono la definitiva doccia fredda alla sua sonnecchiante coscienza. L'uomo antico si ridestò in lui. Ebbe nausea di stesso o meglio della mascheratura di stesso ed ebbe schifo di aver vissuto qualche anno come un pagliaccio chic che fa le capriole nel circo dello snobismo senza nemmeno avere il merito di rischiare, come i pagliacci autentici, ogni sera, la vita.

Don Pandolfo si accorse del novello stato d'animo del giovane amico e collega (non lo chiamava più discepolo) e se ne afflisse. Cercò d'ancorarlo a rimanere sulla breccia. Egli conosceva, per le descrizioni di Giorgio, la provincia, la vita che vi si conduce, le donne e gli uomini primitivi di laggiù, di cui avevano sorriso insieme dall'altezza della loro eleganza. Gli disse:

— Ma cosa vuoi andare a fare al tuo paese? Quella non è più una vita per te. Vuoi andare a piantar vigne e patate? Ma per questo c'è il tuo fattore. Ruba? E lascialo fare! È molto chic di lasciarsi derubare un poco, è molto bien porte. Vuoi fare all'amore con quelle buone provinciali? È indegno di te.... Quando si è amati da una donna come la duchessa Vera si ha il diritto di essere difficili!

Non si potevano più intendere. Don Pandolfo era un degenerato. Egli non aveva più radice nel suolo nativo, non aveva più casa, non aveva più la religione delle memorie.... i suoi polmoni non potevano più respirare altro che in un'atmosfera artificiale; l'aria libera e pura lo avrebbe ammazzato. Giorgio non era ancora così imbevuto di quei miasmi.... e, a mezza ubbriacatura, fuggì.

Non sapeva ancora fare la psicologia di stesso. Sorrideva ancora un poco degli altri e di , perchè aveva conservato l'abito dello scherno elegante, ma il fondo nativo era stato il più forte e la sua robusta costituzione fisica e morale lo aveva tratto a salvamento.

Alle insistenze di don Pandolfo per vederlo, egli rispose solo queste righe:

"Non cercare di vedermi. Il conte Giorgio Machirelli di Fontanèlice, che tu hai conosciuto, è morto. Ne sopravvive un altro, quello vero: io. Ed io parto oggi per la mia vecchia casa, che si riaprirà a vita novella. Vado a fare l'agricoltore e a sposare la Veneranda. Voglio avere molti figli e coltivare molto bestiame come un antico re biblico. Ho bisogno di persuadermi che sono ancora un uomo, un uomo vero, utile a qualche cosa al mondo. Homo sum.... Da alcuni anni non ero più ben sicuro che il rispettabile appellativo mi convenisse.... Ma forse queste cose tu non puoi capirle. Capirai invece un'altra cosa che ti farà piacere. Ti assolvo per sempre dall'obbligo di restituzione dei diversi prestiti che ti feci. Sarebbe assurdo che una persona chic come te pagasse i suoi debiti; sarebbe, come diresti tu, du dernier bourgeois! Ciao. Sta bene."




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