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Eugenia Codronchi Argeli (alias Sfinge)
Il femminismo storico

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  • ISABELLA D'ESTE GONZAGA.
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ISABELLA D'ESTE GONZAGA.

 

 

 


«D'opere illustri e di bei studi amica

«Ch'io non so ben se più leggiadra e bella

«Mi debba dire, o più saggia e pudica,

«Liberale e magnanima Isabella».

 

Così cantava messer Lodovico: e questa volta il magnifico cantore non adulava la «erculea prole». A me pare anzi che questa altra laude abbia mai superato il merito essenziale di questa radiosa Principessa che splende, viva e sorridente, sul fondo stellato d'oro del «sacro» Rinascimento italico, sì come nobilissima espressione di trionfale femminilità. E penso che per questa bionda e dolce signora, molte anime muliebri debbano, come me, sentire non soltanto ammirazione e rispetto, ma anche, direi, un poco di nobile invidia; poichè in lei ebbe forma un meraviglioso sogno di vita, forse da altre esistenze non raggiunto mai. Ella compose per , ed a sua gloria, una esistenza conforme alle sue inclinazioni, una esistenza che somiglia a una bella opera d'arte, inspirata da un profondo e sincero ideale di pura bellezza. Ella sentì il bello, dovunque esso fosse, quasi guidata da un sottil fiuto di nobile animale, e riconobbe in tutte le cose gentili e belle le sue sorelle naturali ed eterne; e verso quelle fu attratta, e se ne contornò, e ne visse, avendone la più grande, la più eletta gioia di tutta la sua vita.

Il tempo in cui ella visse fu un tempo singolarmente felice, del quale l'atmosfera fu somigliante a quella di un'ideal serra calda, atta a far germogliare e magnificamente fiorire piante squisite e delicate.

Momento storico di significazione profonda e non mai abbastanza svelata a noi, nella sua complessa psicologia, che potè dare, in breve volger di tempo, l'anima di Gerolamo Savonarola e quella di Pietro Aretino!

Tra i due così diversi impulsi, quello del misticismo battagliero, quasi feroce, e quello del godimento raffinato, quasi pagano, l'equilibrio non doveva essere facile da stabilirsi: e certamente, nel complesso, la morale non ebbe da lodarsi molto di quel periodo, in cui la gloria del genio italiano splende di così viva luce.

Non dirò di quei costumi maschili; chè il piccolo signore della terra ha, presso a poco, in tutti i tempi, un suo particolar modo di passar sopra a tutte quelle leggi che non siano di suo gradimento: ma anche, ahimè, la maggior parte delle donne di allora non sarebbe da prendersi a modello, ed a quasi tutte quelle nostre antiche sorelle, insigni per casato o per bellezza, di cui è giunta fino a noi la memoria, noi dobbiamo perdonare, grande o piccino, qualche peccato. Lunga troppo sarebbe la teoria delle evocazioni: Lucrezia Borgia, Bianca Capello, Isabella Orsini, Giulia Farnese, Caterina Sforza (la bella guerriera senza paura ma non senza macchia), per nominare solo le celeberrime, fanno arrossire, se se ne leggano le storie o le leggende, qualunque volto di donna onesta.

Quale delizia invece, quale intimo senso di dolce riposo non ci procura l'imbatterci in questa serena figura di principessa di casa d'Este, nella cui vita, che dotti uomini italiani e stranieri ci hanno messa sotto gli occhi, con ricca copia di documenti, tersa come un limpido cristallo, non si rinviene nemmeno la più lieve ombra!

 

***

 

Nata nella fiera casa dei signori di Ferrara, la bella città dalle vie larghe e piane, dai bruni palazzi che sembrano custodire gravi segreti dietro le chiuse porte meravigliose; nella reggia dove germoglia potente e tragico l'amore, dove si aggira la pallida ombra di Parisina, dove più tardi rideranno i baci della figlia di Alessandro VI e dovrà forse maledire la sua nascita eccelsa la principessa Eleonora: nella reggia che udrà la calda voce amorosa del bel cavaliere Torquato, e la voce di gioia del grande Ariosto: nacque nel 1474 e vi passò l'adolescenza quel puro e vago fiore che fu Isabella, figlia di Ercole I da Este e di Eleonora di Aragona.

La sua anima vibrante, la sua mente poetica e bene equilibrata erano state nutrite di belle e buone cose, di studi bene impartiti da distinti precettori fra i quali Jacopo Gallino e Battista Guarino: e l'affetto per i suoi maestri accompagnò per tutta la vita l'alunna, che diede loro costanti ed affettuose prove della sua munificenza.

Fidanzata a nove anni, per ragioni di Stato, a sedici andò sposa a Francesco Gonzaga, marchese di Mantova: e nessuno forse avrebbe pensato che quell'uomo dall'aspetto grossolano, dalla oscura faccia di moro, sarebbe stato il più fortunato ed il più incolume di guai coniugali di tutti i mariti del suo tempo!

E in un'altra città grave e silente, assisa su grigie acque, un poco triste eppure gloriosa di antiche memorie, sorta su la terra che elesse a suo asilo un'antica fata: la città di Virgilio e di Sordello, cantata dal padre Dante e da Lodovico Ariosto, nella torva reggia dei Gonzaga, andò la giovinetta sposa, dagli occhi glauchi come pura acqua di lago, colei che ci sorride ancora dai cartoni del divino Leonardo (ora al Louvre e agli Uffizii) e dalla tela del grande mago del colore, Tiziano (ora a Vienna); colei che se non fu la più classicamente bella, fu certo la più incantevole fra tutte le principesse del Rinascimento. Piena di poesia è l'evocazione di quel giorno di primavera in cui partì la gentilissima per la novella sua patria, sopra un bucintoro indorato, in mezzo ad altri quattro bucintori e cinquantuno navigli, accompagnata da un regale corteo di principi, di ambasciatori, di servi, navigando le acque del Po.

Ma che importa ad Isabella se grigio e brumoso è il paesaggio lombardo, e se la reggia è oscura?

Ella porta nel chiuso cuore un lembo di cielo: tutta la sua anima canta, e rinfresca, ringiovanisce, illumina tutte le cose che comunicano con lei.

Non turberò io qui con indiscrete analisi psicologiche la bionda lontana che visse un suo dolce sogno d'arte e di bellezza: e se mi punge il curioso desiderio di sapere se ella conobbe mai quella specie di bisogno metafisico che per le nobili anime è l'amore, io rintuzzerò inesorabilmente la punta della mia arma indagatrice. Sappiamo che ella non peccò: lasciamo dunque in pace, s'ella lo custodì laggiù nel suo intimo cuore, il suo amoroso mistero!

Ma veramente, su questo proposito, io sono d'accordo con un grande scrittore nostro moderno, il quale ha scritto queste parole: «Il sano gusto dell'arte, nelle donne sane genera a poco a poco una specie di scetticismo amabile e di mobilità gioiosa che le difende dalla passione»: parole che racchiudono tutto un trattato di scienza del cuore femminile! È vero: quando la donna ha sortito da natura un di più d'intelletto di quello necessario a guidare gli atti della sua vita: quando ha in se medesima, latente, un cumulo di forze vive, di energie gagliarde che ne fa ella? Ella deve darle a qualche inclinazione del suo spirito o del suo cuore: e questa inclinazione suole essere, nella maggior parte dei casi, la grande illusione.... l'amore, che è la porta di tutti i nostri guai! Quando invece l'intelletto femminile sia felicemente aperto alla luce dell'arte, quando questa luce s'impadronisca di tutte le inoperose energie del nostro intelletto e del nostro cuore, allora si determina, nello spirito femminile, l'invidiabile stato, il solo veramente felice, che il nostro Poeta, in poche linee, mirabilmente descrive.

E questo stato, io penso, fu dal cielo concesso ad Isabella d'Este Gonzaga.

Fu essa, per comune consenso di storici, un modello di ogni virtù. Come moglie fu un tesoro, non soltanto di fede, ma di amichevole affetto, di savia cooperazione nelle cose dello Stato, di valido appoggio nei momenti difficili, di consiglio ponderato e fiero.

Lunghi epistolari, pubblicati per cura di valentuomini provano la verità di queste asserzioni. Del marito che non le fu, pare, molto fedele (così è sempre andato il mondo!) ella ignorò forse, o perdonò, i tradimenti: e le relazioni tra i due coniugi furono sempre cordialmente affettuose. Quando era lontana gli scriveva ogni giorno: e le sue lettere, sempre vivaci ed argute, erano spesse condite di qualche piccante episodio, gustosissimo, che dovette destare nella scrivente, prima che nel lettore, una infantile ilarità. Ci pare quasi, talvolta, di udire ancora il suono delle sue risate! È sempre grazioso il modo di congedarsi da lui, da suddita ossequente e da tenera moglie insieme: p. e.: «Ringrazio sumamente V. Ex. et basoli la mano et bocha».

Ebbe alto e vivo, cosa ahimè rara in quel tempo, il sentimento della italianità. Si conosce la sua esclamazione di gioia, per la eroica difesa di Faenza contro il Valentino: «hanno salvato,» essa disse, «l'onore d'Italia

Più tardi, in una bellissima lettera da Bologna a Renata di Francia, dopo la descrizione delle feste per l'incoronazione di Carlo V (ch'essa nomina «Cesare») dopo aver detto dell'incontro di questi col Pontefice in S. Petronio conclude così: «Restami a pregar Dio che del colloquio per il quale questi doi grati signori se sono radunati insieme habbia da seguire quelli boni effetti che da ciascuno sono desiderati per la quiete et universale pace di Christianità

Fu diverse volte madre, ed anche in questo sentimento che non merita, secondo me, lodi singolari, perchè imperiosamente istintivo, ella portò la sua dolce effusione, la sua sorridente e vigile tenerezza.

Una volta, da Ferrara, scrisse al marito: «Se queste feste fussino le più belle del mondo, senza la presenzia di V. S. et del nostro puttino, non mi potriano satisfare.» Quel «puttino» fu poi Federico II Gonzaga, creato duca da Carlo V; ed essendo egli in Roma, giovinetto, ostaggio di Papa Giulio II, colpì, per la sua grande bellezza, la mente di Raffaello; ed è il divino adolescente dipinto in una delle Stanze Vaticane, nella «Scuola d'Atene».

Ah, certo dovette dare alla dolce innamorata della bellezza una soddisfazione grande l'aver generato un esemplare umano di così meravigliosa venustà!

 

***

 

Dopo la conscia gioia di sentire battere, nel proprio cervello, a calde ondate il pensiero, nessuna gioia è più grande di quella di comprendere ed ammirare l'ingegno altrui.

E questa pura gioia riempì la nobile vita della marchesana di Mantova.

Ella comunicò con tutte le mirabili forze intellettuali del suo tempo, e da quelle fu commossa ed agitata come una pianta che sia mossa e fecondata dal vento che a lei reca il polline di vita. Ed a sua volta adoperò, e mise in movimento con infaticabile ardore, tutte quelle meravigliose potenze creative, eccitandole sempre al bene, dirigendole talvolta, proteggendole, dolce e munifica, tenendo le fila di molto alto destino in quella sua mano lunghetta e bianca di cui Leonardo ci ha tramandata la linea gentile.

Nulla cosa bella le sfuggiva, nessuna opera singolare di quel tempo era ignota alla sua smania di ricerche, e di continuo ella inviava messaggi in questa o in quella città, per rintracciare qualche prezioso oggetto di cui la fama le fosse giunta, o per allogare ai grandi maestri dell'arte ora questa, ora quell'opera. Buona conoscitrice di antiche cose, ch'ella chiamò le sue «care anticaglie», squisita giudicatrice delle moderne, ella superò sì per il gusto innato che per la grazia del suo proteggere che sa di cordiale amicizia più che di favore sovrano, i più celebri mecenati di quei secoli: il magnifico Lorenzo, suo cognato Lodovico il Moro, Leone X: ed ebbe, tra tutti, come è stato giustamente detto, la fortuna di presiedere, volta per volta, alle tre grandi manifestazioni del Rinascimento italiano: di potersi valere, cioè, dei Primitivi, dei rappresentanti del periodo aureo, e di quelli della fine del Rinascimento, un crepuscolo di imperiale splendore!

Lavorarono così per lei: il Perugino e Mantegna (questi può dirsi il pittore cesareo della Corte di Mantova), Leonardo e Raffaello, Tiziano e Giulio Romano: e certo nessuno degli altri grandi mecenati si vide intorno, adunata con sapiente e paziente fatica, così meravigliosa e densa fioritura di artefici: Aldo Manuzio, Pietro Bembo, Bibbiena, Lodovico Ariosto, Paolo Giovio, Bernardo Tasso, Baldassarre Castiglione, Bandello, Mantegna, Giovanni Santi, Leonardo, Vecellio, lo scultore di medaglie Cristoforo Romano, Lorenzo Costa, Pietro Perugino, Giovanni Bellini, Raffaello, Giulio Romano, Correggio, Sebastiano del Piombo, ed altri, ed altri ancora. E con quasi tutti fu in corrispondenza di lettere, e nessun epistolario femminile di quel tempo è più vivace, più elegante del suo. Ne qualche rapido saggio, non lasciandomi vincere, per economia di spazio, dalla tentazione di citare assai più lungamente. Una volta, al Trissino, che le aveva dedicata la sua opera Ritratti di donne d'Italia, scrive da Garda, dove si era recata a diporto con la sua dolce amica e cognata, la duchessa di Urbino: «Magnifice Amice Nr. hon. La littera versi et opereta vostra non ci potriano essere stati presentati in loco più conveniente.... essendo questa riviera di Garda tutta disposta a poesia et speculatione. Havemoli accettati et letti molto volentieri solamente per essere composizione vostra et a nostro giudicio elegantissima et ingeniosa. Se ben troppo et fori de la verità excede in laudarmi. Et perchè il volgar proverbio è: «So che tu non dici il vero, pur mi piaci», la teneremo cara per esser composta da una persona così dotta et nobile....»

A Lodovico Ariosto scrive per ringraziarlo del dono dell'Orlando, e comincia così una lunga lettera: «Magnifico messer Ludovico. Il libro vostro d'Orlando furioso m'è per ogni rispetto gratissimo»; e finisce: «et farvi nota l' affectione singulare che vi ho per le rarissime virtù vostre, le quali meritano di essere favorite. Così di core mi offro sempre a tutti i piaceri et comandi vostri.»

Bisogna ch'ella sia veramente stanca di qualche cavalcata, di qualche festa, o di qualche viaggio (ella ebbe per il viaggiare, specialmente in incognito, come una semplice pellegrina in cerca di emozioni estetiche, una grande passione) perchè la mano del suo fedele segretario Capilupo sostituisca la sua: chè quasi sempre scrive ella stessa i suoi messaggi d'arte; e sa essere ora dolce ed amichevole, ora breve e severa come, per esempio, quando mostra il suo scontento a Pietro Perugino per il quadro allogatogli e di cui ella stessa gli ha dato il soggetto: «Il combattimento dell'Amore e della Castità.» Un quadro che a lei non sembrò degno del grande maestro umbro dall'anima che parve la più religiosa del suo tempo, e che invece, come la critica ha messo in luce, non possedè alcuna fede alcuna virtù. Mistero della concezione d'arte! Non è dunque vero che per commuovere altrui l'anima dell'artefice debba essere commossa?

 

***

 

Le lettere d'Isabella d'Este a Leonardo sono dolci, quasi timide: ne sente la terribile grandezza di Nume! L'ammirazione che gli ebbe fu così grande che non esitò davanti ad alcuna difficoltà pur di procurarsi la gioia di godere la vista delle sue opere divine. Così, una volta, inviò apposta un corriere da Mantova a Milano, a Cecilia Gallerani, pregandola di mandarle il ritratto fattole dal grande fiorentino, che ella era ansiosa di ammirare. E la cortigiana, che pure aveva alto intelletto, obbedì tosto al volere della gran dama, e si affrettò con una umile lettera, a mandarle il ritratto.

Graziosissima è una lettera di Isabella a Leonardo in cui (nell'attesa del ritratto proprio) gli alloga un quadro che abbia per soggetto: «Gesù nella sua adolescenza». Ella dice in essa al caro messer Leonardo che il quadro gentile sarà per lui un riposo dopo la grande fatica dei cartoni (ai quali stava allora lavorando) della «Battaglia di Anghiari». E come fu sempre con lui longanime nella aspettazione! Per avere qualche sua opera, è certo se mai le riuscisse di averla, mise in moto addirittura mezza Italia!

Tutto quanto la circondò dovette essere bello. Sotto il suo impulso la Reggia dei Gonzaga rise per tutte le pareti, per tutte le vôlte d'ogni maniera di pitture e di ori: così su quella, come su l'antica casa dei Buonacorsi, sul vicino castello fortificato e sul suburbano palazzo del Te, parve passare il caldo alito di una nuova ellenica primavera.

E non solo di opere d'arte, il grande lusso della vita, ma anche di ben dirigere le industrie ella si occupò con fine e tenace intelletto. Soleva comandare e scegliere le più belle stoffe, non solo per , ma per tutta la Corte; ordinava maioliche a Faenza, vetri a Venezia, mobili ai più esperti lavoratori, e persino si occupò, tale fu in lei l'istinto dell'ottimo, di migliorare le razze degli animali.

Per gli oggetti antichi ebbe un vero culto, alimentato da un infallibile discernimento; anzi, questo culto le fece una volta commettere un atto che dovette costarle un violento sforzo sopra se medesima: si rivolse a Cesare Borgia, ch'ella detestava, perchè volesse cederle un «Cupido» di cui le era giunta fama, e ch'essa si struggeva di possedere.

È bensì vero che il Valentino si affrettò, galantemente, di soddisfare il desiderio della bella signora: la quale fu, poi, punita di quell'atto non conforme al suo carattere, perchè il «Cupido» era opera, bellissima sì, ma moderna.

Imparentata con tutte le Corti d'Italia Isabella vi faceva visite frequenti, e dovunque andasse regnava, per la sua grazia; e dappertutto suggeva, come ape dai fiori, il miele di ogni nuova e buona idea, di ogni costumanza gentile, di cognizioni e di amicizie preziose. Tornata in patria, faceva tesoro di quanto aveva veduto ed appreso, e non si stancava di migliorare e di abbellire: così, per lei, sorse, nel più bel foro di Mantova, una statua di Virgilio.

Il suo «studiolo», così ella chiamò, e con tal nome divenne celebre, un appartamento di poche stanze, era il sancta-sanctorum, il cuore della Reggia: e la fama che ne giunge a noi è fatta a posta per giustificare l'amore che per il dolce suo nido ebbe la magnifica signora.

Ella aveva allestiti, nel suo palazzo, due appartamenti, secondo il suo piacere: al piano terreno era il museo delle sue preziose «anticaglie», che era chiamato «la Grotta»: un poeta del tempo ha detto:

«...e giù posto a terreno

Quel loco che la Grotta il mondo appella.

L'appartamento del piano superiore era detto il «Paradiso», e di questo le stanze più intime, a lei più care, erano il suo celebre «Studiolo». Una meraviglia. Le pareti ricoperte di squisite tarsie di legno, i soffitti tutti a delicati ori su fondo azzurrino, su cui si legge, oltre al nome della Dea di quel tempio, la sua bella e forte divisa: «Isabella Estens. March. Mantuae 1524. Nec spe nec metu». Le tavole e le tele dei prediletti maestri la adornavano, le porte eran squisitamente scolpite nel marmo: e collezioni di medaglie e di camei, di rari strumenti musicali (era Isabella esperta arpeggiatrice di liuto) di armi damaschinate, di pietre preziose incise. Ivi si allineavano i libri che Aldo Manuzio le mandava, in rilegature stupende; ed alti specchi di Murano riflettevano tutti quei peregrini tesori. I soggetti delle pitture, voluti e comandati da lei, erano tutti lieti: qui una «Leda» di Lorenzo Costa, danze di amorini del Perugino; poi due quadri di colui ch'è stato detto «il più grande poeta della pittura», Antonio Allegri; e due tavole meravigliose di Andrea Mantegna: l'una «Venere e Marte sorpresi da Vulcano», l'altra «Minerva e Diana che scacciano i vizî».

 

***

 

È facile a noi, mi pare, di comprendere, come nessuna delle corti del Rinascimento potesse stare al pari di quella di Mantova, la quale era ritenuta da tutto il mondo come un vero Museo.

Io penso quanta viva ammirazione dovette suscitare intorno a , in un tempo di così diffuso «esteticismo» questa adorabile creatura, animatrice di tanta bellezza, dall'anima così armoniosa, che ebbe tanto pensiero su la bella fronte, sotto la corona del lucido oro! E se pensiamo da quali uomini ella fosse circondata e adorata, dobbiamo veramente imaginarla temprata di incorruttibile acciaio, poichè sappiamo che da nessuno di tutti quei principi del sangue o dell'ingegno, le due grandi aristocrazie della terra, ella fu mai indotta a piegarsi al male. Era a' suoi piedi il magnifico Pietro Bembo, che fu detto il grande «flirteur» del Rinascimento, colui che offriva il suo cuore a spicchi, come un vivo melagrano, a tutte le gentildonne del suo tempo: l'ammirava il Bibbiena, che fece rappresentare per la prima volta, in suo onore, a Roma, la scurrile Calandra: Baldassare Castiglione, che nel «Cortigiano» ci dice come ella fosse l'ideale della compita gran dama: l'ammirarono tutti coloro che la conobbero.

A Ferrara, quando vi si recò, contro sua voglia, per assistere alle nozze di suo fratello Alfonso con Lucrezia Borgia, fu proclamata, di tutte le principesse ivi convenute, la più bella: di , una delle dame del suo seguito, scriveva: «La signora Isabella è da li nostri e da quelli son venuti porta il vanto de la più bella, e questo è senza fallo, poichè appetto sua signoria erano le altre un niente. Così dunque porteremo il palio a casa di madonna mia». Ah, che deliziose lettere ella scrive, ogni giorno, dalla sua Ferrara, al marchese suo marito! Che curiosi particolari di quelle nozze splendide eppure non liete, in quel mite calendaprile del 1503! Peccato non potere citare. Un gran posto, in quel carteggio, è occupato dalla descrizione dei bellissimi abbigliamenti della «sposa» (sulla quale, Isabella, da fine diplomatica, evita di dare il suo giudizio) delle altre dame e delle sue proprie: l'«eterno femminino» non si smentisce!

Non trascura però di dare al marito le notizie che possono fargli piacere: come p. e. quando gli annunzia che in un combattimento dato in onore degli sposi, tra gli uomini d'arme ivi adunati, la vittoria è toccata a Vicino da Imola, al servizio del marchese di Mantova: «Vesino restò a cavallo, et cum gridi infiniti andò volteggiando per il stechato. Insomma, la palma è nostra».

A Milano, dove era stata nel 1491 per le feste nuziali di sua sorella Beatrice con Ludovico il Moro, fu l'astro più luminoso di quella eletta radunanza. Uno dei tratti del suo piacevole spirito ci è tramandato da un episodio arguto messo in luce da un dotto scrittore. Si doveva un giorno ragionare, tra le più colte dame e i più dotti cavalieri, di letteratura e d'arte, e allora si accese una disputa tra la marchesa di Mantova e un cavaliere milanese, Galeazzo Visconti, tutti e due innamorati del Boiardo, se fosse da preferirsi, tra i suoi eroi, Orlando o Rinaldo. Isabella teneva vivacemente le parti di Rinaldo, per quello charme de la canaille che piace tanto chi sa perchè? alle donne oneste; e la cronaca dice che ella perdette, e che dovette pagare una scommessa al suo elegante avversario, durante una lieta cavalcata.

Gaia, vibrante, serena, forte della sua interiore purità, ella ebbe del suo tempo, l'amabile piacevolezza, lo scetticismo bonario, il gusto del conversare un poco ardito e sensuale, che pur seppe contener sempre nei limiti dell'onesto.

Sappiamo che cantava con una bella e calda voce accompagnandosi con esperta mano sul liuto: e anche per il canto sceglieva i versi più dolci e più belli. Pietro Bembo, mandandole una volta sonetti e strambotti composti per lei, così le scrive: «Confortami che se saranno cantati da V. S. si potranno dire fortunatissimi. Ne altro bisognerà perchè agli ascoltanti piacciano e siano più avuti cari, per la bella et vaga mano et la pura et dolce voce di V. Ill.ma Signoria».

E il Trissino, in una canzone, celebra così la sua valentìa:

Ma quando le sue labbra al canto muove

Tanta dolcezza piove

Dal ciel, che l'aere si rallegra e il vento.

A me piace anche pensarla recitante i versi di grecotoscana vaghezza di Angelo Poliziano: p. es., qualcuno de' suoi un poco birichini rispetti:

So innamorato d'una rosa rossa,

E il giorno non mi so da lei partire,

Quando ci passa il suo bel petto mostra

Ed è sì bianco che mi fa morire!

E penso anche con che ghiotti orecchi l'avranno ascoltata quei gaudenti di allora, per i quali ella ebbe sempre il dolcesognato sapore del frutto proibito! Chè «noli me tangere» stava scritto su le piccole fresche labra canore, sui belli occhi celesti di madonna!

Ella si contentò di tendere l'orecchio a tutte le grandi voci del Rinascimento, di comunicare coi grandi Spiriti che daranno a lei, omaggio riconoscente e meritato, l'immortalità; si contentò che davanti a lei piegassero il ginocchio, con devoto cuore, gli artefici divini che tenevano alti nel bel sole italico, i sacri orifiammi del Genio; i cavalieri dotti e cortesi che si chiamarono: Lorenzo, poeta e signore magnifico, Giovanni Pico della Mirandola, che aveva un fiume di sapienza sotto la bella chioma inanellata, Lodovico il Moro che riscattò i suoi torti di principe italiano con l'affetto che ebbe all'eroe da Vinci; o finalmente, se anche non nelle grazie di Isabella, il bieco e pure grande Valentino. E fra tutti ella passa come vestita di amianto, tra il coro delle laudi ardenti e sensuali, tra tanta suggestione di ambiente, in contatto coi più veementi spiriti di quel singolare momento storico: ella non vacilla mai.

Come argute dovettero essere, ad esempio, le relazioni tra questa dolce e casta signora e uno dei maestri che lavorarono per lei, il più giovane e il più bello (ella conobbe Leonardo già maturo) l'amatore appassionato e terribile, Giorgio Barbarelli! Giorgione! A questo nome una lunga teoria di femmine, voluttuose e magnifiche, passa per la nostra mente: sono dame illustri, cortigiane, modelle, umili popolane, che furono amate da lui con insaziabile ardore, cui egli diede i baci fugaci della sua breve vita, cui rapì, ad ognuna, un segreto di bellezza, un recondito pensiero, da lui eternato su le tele, nell'oro caldo dei cieli ch'egli dipinse, ne' fantasiosi paesi, nel mistero di quelle composizioni che turbano ancora, dopo tant'anni, l'anima di chi le contempla! E fra tutti quei molli, avvincenti sorrisi di bellissime vinte, egli, il giovine ardente e bello, nato amante, così, per fatalità, come era nato pittore, avrà guardato con la devota, quasi religiosa ammirazione con cui si guarda una cima irraggiungibile, la nobile signora di Mantova, che piè-leggera camminava tra le fiamme di tante vive passioni, ardente ella medesima, senza abbruciarsi nemmeno un lembo del suo manto marchionale.

Così amo io evocarla, magnificamente bella e soave, in una sua lunga veste di broccato d'oro dalle ampie maniche foderate di ermellini o di vaî, cinto il collo, adorna la fronte di gemme splendide, che pure scintillano meno dell'oro caldo della sua chioma.

Intorno a lei tutta la «Società» del Rinascimento: bellissime dame e damigelle, adolescenti dalle lunghe chiome, cavalieri serrati nelle cotte di velluto, di zendado o di ermesino, oppure scintillanti d'armi damaschinate. Volan per l'aria le strofe di Poliziano e di Lorenzo, si slancia verso il cielo la recente cupola di Brunellesco, ridon per tutta Italia le tele di un manipolo di grandi che comunicano altrui la gioia dei loro sogni immortali: l'anima dell'uomo (e non è essa forse l'universo?) si ridesta alla bellezza ed alla gioia, avendo gettato come un ponte di luce, su le tenebre, che la riallaccia alla divina serenità dell'antica Grecia.

Che fa se la grande profetica anima del Savonarola esala in roventi parole, che sembran l'onda di biblici fiumi, le sue tristi profezie? Che fa se la politica italiana giace inerte, ferita la sua grande ala di vecchia aquila? La gloria di un popolo è multiforme: non abbiamo dunque il diritto di lagnarci di un periodo nel quale la bellezza, fiorisce sul caro suolo italico e irraggia il mondo come da un trono.

Solo molto più tardi alle idee si sostituiranno le azioni, e la nostra patria sarà fatta una, autonoma e imperitura: allora la patria ideale delle anime era l'arte, l'angelo delle vittorie era il genio dei nostri artefici immortali.

 

***

 

Isabella d'Este Gonzaga fu dunque del rinascimento, agli occhi miei, l'anima femminile più serenamente poetica, la mente più equilibrata, il più limpido e più puro sorriso. E il suo amabile ingegno, il suo sano eppure ardente amore per l'arte, fu l'essenza stessa della sua vita, fu la stella dolce splendente che la guidò nel suo cammino, fu la fiamma viva che purificò l'aria intorno a lei, divenuta per virtù di quel fuoco, refrattaria ad accogliere ogni alito impuro.

Arte! Magica, incantatrice parola, il più dolce aroma della vita, la benedizione maggiore che il cielo abbia data all'uomo nel mare delle sue amarezze! Io vorrei vedere risplendere i sacri segni dell'amore dell'arte specialmente sopra ogni fronte femminile: vorrei che tutte noi donne volgessimo ogni più valido sforzo a renderci atte a comprendere l'arte, a gioire in virtù di essa.

Poichè è fatale che al mondo anche noialtre (non c'è in faccia all'Eterno, diversità di aspirazioni nell'anima dei due sessi) dobbiamo inebriarci di qualche cosa, dare a qualcuno, a qualche inclinazione, a qualche ideale, il di più delle nostre energie intellettive, ah diamoci tutte, o sorelle, diamoci all'adorazione dell'arte, la sola verità terrena immutabile, la consolatrice eterna! Essa soltanto non ci tradirà mai, essa sarà per i nostri cuori assetati di ideale, una luce fedele e non peritura, la quale ci guiderà, sorridendoci e sorreggendoci come una pietosa amica, lungo il nostro cammino. Essa soltanto ci darà, nella realtà, il sogno: perchè tutto il resto, fatalmente, è sempre inferiore alla nostra aspettazione, è una gioia che passa, è un sorriso fugace ed incostante. L'arte sola, o sorelle, è fonte inestinguibile di gioia: l'arte è salvazione.




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