
Vagabondando fra le belle, care,
antiche conoscenze delle gallerie Capitoline, una tela del Guercino «Cleopatra
innanzi ad Augusto» ha colpita, giorni sono, la mia fantasia come una cosa
nuova, ed ha svegliate, insieme ai miei ricordi storici, le mie pugnaci
velleità critiche. Non intendo certo discutere qui, nè altrove, l'arte
pittorica di Francesco Barbieri, pittore di bella fama nella scuola della
«fosco turrita» Bologna: non sul colore, non sul disegno del maestro da Cento,
appunterò io gli strali della mia critica: ma come pensatore di quella tela,
anzi di quella figura di donna, io lo condanno a comparire davanti a questo
postumo tribunale.... accusato del delitto di lesa maestà e di lesa storia.
***
Esaminiamo il corpo del delitto.
Prostrata, in atto umile, la bellissima donna rivolge al giovane romano i dolci
occhi di madonna, imploranti, e pare attenderne anelante il verbo di
misericordia: tale una bella schiava, decaduta dal suo potere di favorita,
invocherebbe mercede dal suo signore e padrone. Errore di verosimiglianza
storica, errore ch'io mi sento irresistibilmente tentata di rilevare, per
l'attrazione di simpatia che provo, a malgrado delle sue innegabili colpe, per
quella forte e singolarissima donna che fu la regina d'Egitto. Un attento
studio psicologico fatto su le istorie della figlia de' Tolomei (sia pure la
sua una psiche piuttosto complicata) può darci la retrospettiva sicurezza
morale, che ella non si prostrò mai, alla maniera che pensò il Guercino,
nemmeno allorchè fu vinta: nè si può, parmi, essere d'altro avviso, nemmeno in omaggio
a quel titano di Guglielmo Shakespeare, che fa spesso la storia a suo modo.
Figuriamoci se il suo fiuto
sottile di donna politica, se la sua coscienza di donna bella, se il suo
sangue, eredità incorrotta di dominatori, per lungo ordine di secoli, le
avrebbero concesso di prostrarsi nella polvere innanzi all'imberbe ch'ella
voleva soggiogare, per farne un docile alleato! La tradizione ci narra che il
giovane romano non si lasciò prendere al laccio, aiutato nella resistenza,
dalla sua gelida natura, in cui l'ambizione longanime era l'invincibile forza:
ma certo la sua nemica non ebbe a mettere al passivo di quell'impresa fallita
(i politici sogliono, ahimè, non guardare ai mezzi in vista dello scopo: e non
solamente in Egitto!) nessun atto che recasse offesa alla sua dignità sovrana.
Farà forse qualcuno le meraviglie per questa mia discesa in campo pe' belli
occhi di Cleopatra: chè a Scuola, nelle storie «ad usum delphini» s'impara a
nutrire un sacro orrore per la nemica di Roma, per colei che «ha scorticato
Marc'Antonio» come dice Goldoni, per «Cleopatras lussurïosa», come dice il
padre Dante, il quale forse non la disprezzava tanto, quantunque l'abbia messa
nelle «tenebre eterne». Ma io resto salda nella mia opinione, e spezzerò la mia
lancia donchisciottesca, per la memoria tanto vituperata della principessa
egiziana: forte anche di quello che ha detto il Manzoni, cioè che «i fatti
bisogna interpretarli e giudicarli con qualche cosa ch'è superiore ai fatti».
L'impresa mia, lo riconosco, è
alquanto ardua: Cleopatra, ahimè, non è popolare, e sono certa che un
plebiscito mascolino la dannerebbe, inesorabilmente, a morte. Per quell'odio
fatalmente latente fra i due sessi, quale uomo potrebbe pensare senza
retrospettivo dispetto, che la piccola mano della Lagide ha menato pel naso
Giulio Cesare, l'uomo forse il più grande della latinità? Ma in un nobile
consesso femminile, di donne nobili per intelletto e nobili per virtù d'animo,
chi mai oserebbe, pur essendo senza peccato, di gettare la prima pietra alla donna
sventurata che tanto amò? Pensando, studiando, criticando senza partito preso,
non è possibile non accorgersi d'essere davanti ad una creatura di gran razza,
ad una figura deliziosamente estetica, a una donna assolutamente di valore.
Richiamiamo un poco i nostri
ricordi: volete? Successe Cleopatra, sul trono d'Egitto, a dodici re di sua
gente, una gente greca che governò da prima l'Egitto in nome del grande
Alessandro, e che gli successe fondando la dinastia dei Lagidi, la quale occupò
quel trono gloriosa nella guerra e nella pace: e fu, Cleopatra, l'ultima
signora di quella sacra terra innanzi al dominio romano.
I poeti, amici proni di Augusto,
l'hanno descritta un mostro di scostumatezza e di male arti di regno: ma nulla
di ciò è provato: nulla, all'infuori delle sue avventure d'amore con Giulio
Cesare prima, poi con Marc'Antonio. E Plutarco, il fedele e meraviglioso
narratore, non vilipende il suo nome. Esso è quello d'una Regina che riunì in
sè molte debolezze femminili e una vigorosa intelligenza, uno spirito colto e
una raffinata educazione Alessandrina: il gusto squisito d'artista della razza
greca alla quale apparteneva: poco dominio di sè nelle passioni, qualità
affettive insuperabili. La dissero frivola, lusinghiera, profondente tesori per
adornarsi (non dimentichiamo ch'ella era una Regina d'Oriente!): possedeva le
più meravigliose perle che allora si trovassero al mondo: ma in pari tempo
copriva Alessandria di monumenti d'arte, che tramandavano all'avvenire la sua
gloria di Sovrana: amava la gaia vita, i piaceri, i giuochi, i profumi, le
follìe: ma nessun dono mai le fu più caro della biblioteca di Pergamo, ricca di
duecentomila volumi, omaggio a lei di Marc'Antonio, ch'ella fece custodire come
un tempio. Ella soleva giuocare con l'Amore, e s' innamorò di Antonio e lo amò
d'uno dei più possenti e tragici amori che l'umanità ricordi. Tenne testa a
rivolte di palazzo, sedò personalmente tumulti di eunuchi, sfidò Cesare e
Roma.... e fuggì ad Azio. Non seppe resistere al dubbio periglio in faccia alle
galere romane e affrontò serena e volontaria la oscura morte, piuttosto che
vivere spogliata del serto dei suoi padri. Tipo complicato, singolare, mobile,
diverso, ch'io non esito a definire quello d'una «sentimentale», quantunque non
del tutto rispondente all'idea che d'una sentimentale può avere una coscienza
del secolo decimonono. Mi pare che in lei il sentimento prevalesse su le
sensazioni: per queste, difficilmente si rinunzia alla gloria prima, alla vita
poi. Nè la sua lunga fedeltà a Marc'Antonio mi pare indizio di temperamento
puramente sensuale. Certo, il fondo della sua psiche è la sincerità.
Il divino Giulio ne fu
ammaliato, piegò innanzi a lei il suo ginocchio di Semidio, l'amò
violentemente. Non potè, non volle tornare nell'urbe senza che l'Egiziana ve lo
seguisse; e là la condusse e le offerse ospitalità nel suo palazzo su le rive
del biondo Tevere, ed ella col piccolo Cesare Tolomeo e col suo seguito, vi
dimorò alcun tempo conducendovi una vita semplice, austera, degna d'una matrona
romana.
Bandì il lusso asiatico,
dimenticò per quel tempo di essere una Regina d'Oriente, per essere soltanto
l'amica di Giulio Cesare. Una bella e sapiente amica che, pari a una greca del
secolo d'oro, accoglieva intorno a sè i Savï e i poeti, disputando con loro di
cose di bellezza. Mi piace imaginarmi nei rossi vespri di Roma, sotto le brune
chiome dei lecci, la Lagide
incantatrice ascoltare l'eloquenza di Cicerone, e a quella «tenere bordone»
nella sua dolce favella. Un così soave parlare, aveva ella, una così melodica
voce che ognuno ne restava colpito: ed in tante favelle poteva rivolgersi
altrui, che quasi mai l'interprete le era necessario: agli egiziani, arabi,
ebrei, etiopi, ai siri, ai medii, ai parti, essa parlava nelle loro lingue: e
certo ella apprese, su le fiorite rive del Tevere, la lingua dei dominatori del
mondo. Il divino Giulio ne era folle, come folle può essere un nume: da gran
cavaliere quirite le prodigava ogni maniera di omaggi, fino ad innalzarle una
statua nel tempio di Venere. Ma egli l'amava come ama un nume, con una sola
parte del suo cuore: ed ella sognava l'amore che dà tutto, l'amore in cui abbia
principio e fine il mondo!
Il pugnale di Bruto mise fine
all'idillio di Roma: come il Dittatore cadde, ella riguadagnò il sacro suolo e
attese.
Poco di poi, Marc'Antonio, con
le sue legioni, con le sue galere, occupava l'Oriente; e il capitano di Roma,
il soldato di Farsaglia e di Filippi, l'amico prediletto di Giulio Cesare,
invitava ad abboccarsi con lui a Tarso la Regina d'Egitto. L'incontro, il romanzo d'amore
di quei due, è qualche cosa di così bello, di così tragico, di così epico, che
l'arte nulla ha mai potuto aggiungervi: la storia di Cleopatra ha ispirato
circa trenta tragedie, molti canti, e un'infinità di opere d'arte pittorica; ma
la finzione non ha mai, a mio credere, superata la realtà. Quella storia,
specialmente l'epilogo, è una epopea di verità.
Quale meraviglioso sogno di
poeta può eguagliare la magnificenza della regale trireme che porta Cleopatra
verso Tarso, navigando su le brune acque del Cidno? La poppa è d'oro, i remi
tutti d'argento, di porpora le vele che, quali enormi farfalle, fendono l'aria
luminosa. Da tripodi d'oro s'innalzano verso il cielo molli e sottili profumi,
fanciulle vaghe come nereidi recano intorno coppe preziose colme di vino biondo
come il miele, garzoni belli come fanciulle offrono, in piatti d'oro, dolciumi
prelibati, piccoli etiopi, bruni e lucenti, agitano grandi ventagli composti
con le piume di uccelli rari. Sopra un dado, sotto il suo trono scintillante di
gemme, tra la pompa di tappeti molli come chiome di ondine, la Regina sta e aspetta.
Vestita di porpora e di bisso, il serto regale cinge la sua breve fronte,
bianca come la luna, i suoi occhi splendono più delle gemme, la sua chioma
profonda come le tenebre le ricade sugli omeri ignudi.
E sistri e flauti, celati alla
vista, suonano voluttuose melodie, e la trireme maestosa s'avanza su le acque
brune.
Cleopatra era conscia della sua
forza; ma quella forza che vinse il divino Giulio, che fece del prode
Marc'Antonio un vile sublime, poteva essere fatta soltanto di corporale
bellezza? Ognuno ricorda il motto di spirito di Pascal: «Se il naso di
Cleopatra fosse stato più corto, la faccia del mondo sarebbe cambiata», ma
quello, evidentemente, non è che un motto di spirito. Antonio, il romano
raffinato come un orientale, il forte e insaziabile amatore, il maturo e gaio
conoscitore di femmine, marito infedele di caste e vaghissime matrone, folle
signore di meravigliose cortigiane, Antonio non doveva essere facilmente vinto
nella pugna d'amore. Eppure soggiacque.
Amore, il più orgoglioso dei
despoti, si vendicò di tutti e due i combattenti, che lungamente erano rimasti
vincitori di lui, di lui «nella pugna invitto!»
La figlia de' Tolomei e il triumviro
romano si abboccano, nemici, decisi a giuocarsi, a perdersi: ma entrambi
provano per la prima volta, la vera, la onnipotente passione. Si amano; e che
vale più per loro il trono secolare dei Lagidi, il Campidoglio, Roma? Si amano:
l'altare di Eros è il solo loro trono.
E Cleopatra depone lo scettro:
non è più regina, è solo donna, è solo una perfetta amante. Ha tutte le
soavità, tutte le pieghevolezze, tutte le graziose puerilità della donna
innamorata. Il suo amante, ch'è sempre artista, anche quando folleggia,
immagina feste, travestimenti, caccie, combattimenti fluviali: ogni maniera di
svaghi. Ed essa è sempre con lui, sorridente e sottomessa, lieta di quanto lo
fa lieto. Egli combatte, ed ella non lo abbandona: diventa una bella guerriera,
e l'«Antoniade», la nave ammiraglia della flotta egizia, discende nelle acque
perigliose.
Ma l'ira di Roma minaccia il
romanzo d'amore.
Dicono gli storici che il Senato
romano tremava alla vigilia della battaglia d'Azio, tanto la fama dei suoi
nemici valeva.
Azio! Commovente, epica
evocazione! Debolezza di donna che il nostro cuore perdona, sublime viltà
d'uomo innamorato che non sappiamo esecrare! Ma se è vero che una bella morte
può redimere tutta una vita di errori, come non ammirare facendo tacere, per un
poco, la nostra coscienza di cristiani, la morte di Cleopatra? Se nella vita
ella avea potuto qualche volta discendere dal suo trono, con la morte ella vi
risale per sempre.
I soldati di Ottavio non avranno
viva la discendente di tanti re. Vestita di porpora e di bisso, col serto dei
Lagidi su la breve fronte bianca come la luna, coricata sul suo letto di cedro
e d'oro, istoriato da sapienti artefici alessandrini, ella dorme per sempre,
calma e superba, come Iside divina.
I brutali legionari romani
entrano, calpestando i molli tappeti, versando i monili di perle dalle coppe
preziose.
«La Regina?» — «Eccola» dice
una delle sue donne. E l'aquila romana s'inchina alla maestà della morte.
Gli onori supremi, meglio che ad
Alessandria, furono resi a Cleopatra nella città eterna. La sua morte vi fu
festeggiata con giuochi e sacrifizi, sì come quella di potente e temuta nemica.
Forse che l'odio di Roma poteva addensarsi su d'una vaga testa di donna, se
questa, sotto il raggiante serto, non avesse avuto una mente forte e
consapevole? In lei spariva finalmente l'Oriente guerriero, nemico di Roma, e
il popolo romano ne esultava: ma la sua memoria rimaneva, eterno retaggio di
Poesia e di Bellezza, alla Storia e all'Arte.
E noi, dopo così lungo ordine di
secoli, noi esteti d'una età in cui mal si ristora chi alle fonti della
bellezza spera spegnere la propria sete, all'eterno retaggio esultiamo ancora.
Il dilettevole — lo ha detto persino Leopardi — «è utile sopra tutti gli utili
della vita». Creare della gioia è beneficare l'umanità: una cosa bella è gioia,
per sempre, sia essa finzione d'arte o realtà. E la vita di Cleopatra è un
capolavoro vissuto. Ella fece della sua vita una grande opera d'arte, certo
inconsciamente, come inconsciamente l'artefice dà vita al capolavoro. Dica pure
il bieco Macbeth che la vita non val nulla, ch'essa è «una favola raccontata da
un idiota»; ma quando la vita, come quella di Cleopatra, è una favola
raccontata da un poeta, allora può valere la pena di viverla: e la favola è
immortale.
Ecco perchè a me pare che
l'episodio di questa classica favola non sia stato bene veduto dalla mente nè
bene raccontato a noi dal pennello dell'antico maestro colorista Francesco
Barbieri, detto il Guercino.
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