
Io voglio parlare a qualche
delicata anima femminile di Giulia Récamier, di colei la cui fama vola nel
mondo da più di un secolo, sì come fama di uno di quei monumenti di divina
perfezione, la quale ahimè per essere umana, è destinata a perire, in breve
volger di tempo, in tutto.... fuorchè nel ricordo.
Ma questa donna tanto celebrata
per la sua grande bellezza ebbe, a' miei occhi, una bellezza interiore ancor
più grande di quella che adornò il suo corpo mortale; bellezza che il
meraviglioso involucro offusca, a prima vista, in faccia alla folla, gettandola
come nella discreta luce del secondo piano di un quadro: ma che si rivela
all'indagatore non volgare con un profumo di gentilezza sottilmente squisito, e
finisce col diventare, di quella figura, il carattere essenziale.
A me sembra che il sortire da
natura il dono completo della bellezza produca in faccia alla propria coscienza
ed in faccia alla vita, una grave somma di responsabilità. L'uso della
ricchezza è uno dei più serî problemi umani, non è vero? Ebbene, quale più
grande tesoro della bellezza, quando essa sia giunta alla sua estrema
perfezione? Ed io dirò qui come Giulia Récamier sapesse fare uso della sua
divina beltà secondo la legge della perfetta saviezza.
Sarebbe superfluo ch'io mi
mettessi a fare l'elogio dell'esteriore di Giulia Bernard, la piccola borghese
di Lione, che andò sposa, non ancora uscita dall'adolescenza, a Giacomo Récamier,
maturo banchiere parigino, per il quale ella fu sempre e soltanto una dolce ed
affezionata figliuola. Ella, nata nel 1799, morta nel 1849, racchiude nel
periodo abbastanza lungo della sua vita, la parte più importante della moderna
storia di Francia: e di lei hanno detto i cronisti del suo tempo, e i maggiori
artisti l'hanno celebrata con la penna e col pennello.
Chi ora guardi il suo celebre
ritratto del «Louvre» (quello stesso ch'ella offerse, unico refrigerio alla sua
vana sete, al principe Augusto di Prussia, e che le fu rimandato alla morte di
lui) prova una delle più forti e soavi commozioni estetiche che sia dato
provare, e comprende quanto dovesse essere grande l'incanto di quella deliziosa
bellezza. Davanti a quella imagine si sente come il bisogno di ripetere,
facendovi una variante, un motto celebre, e si esclama mentalmente: «Signora,
io vi ringrazio di essere così bella!»
Ma io voglio ora parlare di
quella sua bellezza che tutti non sanno o non vedono, e spero di poter
comunicare altrui un'altra commozione, non inferiore alla prima, tanto che si
possa sentire salirsi dal cuore alle labra questa seconda esclamazione:
«Signora, io vi ringrazio di essere così buona!» Ah veramente a me pare che
nella vita umana la bontà non sia ancora onorata abbastanza! O forse che
un'opera di grande bontà non è pari, in virtù attiva, ad un'opera di genio?
Anzi io vorrei, se ci fosse il culto delle virtù astratte, sotto forma di
simboli, io vorrei dare l'onore del più elevato altare alla perfetta Bontà: la
quale «con le ginocchia della mente inchine» dovrebbe essere adorata. E Giulia
Récamier fu idealmente buona, ed io vedo la sua bontà splendere davanti agli
occhi della mia mente, più luminosa ancora della sua fulgida bellezza, più
ancora del candore di giglio della sua immacolata castità.
Quando ella fu condotta, sposa
giovinetta, dal marito nominale che l'amava con affetto di tenero padre,
dalla provincia in quel torbido centro di vita che allora più che mai era
Parigi, sotto il governo del Direttorio, non vi rimase a lungo ignorata.
Quantunque di modesta famiglia,
e per tradizioni e per relazioni personali ella fosse devota all'antico regime,
pure si guadagnò in breve, non solo la generale simpatia, ma la popolarità, ed
occupò subito un posto eminente su la scena di quel teatro a rappresentazioni
così straordinarie. Parigi era preso allora come da una frenesia di godimento e
di gioia di vivere, dal bisogno collettivo di rifarsi del tempo perduto, del
dolore sofferto.
L'adorazione della bellezza era
una delle forme di quel nuovo spirito di gioia: e, guidata dagli
«intellettuali» di allora, l'anima collettiva, affettava ancor più che forse
non sentisse, tendenze verso il ritorno al gusto pagano. Il pittore David era
uno dei maggiori apostoli di quella «Religione» e ad ogni cosa bella si
decretavano, per ideale plebiscito, onori quasi divini.
La prima volta in cui Giulia
Récamier apparve in pubblico, a Parigi, fu in un giorno bello e solenne.
Il Direttorio dava una festa in
onore del giovane vincitore d'Italia: e aveva scelto, non essendovi altro luogo
abbastanza vasto, il cortile del palazzo del «Lussemburgo», trasformato
magnificamente. Nel fondo, sopra una specie di altare, la statua della Libertà:
a suoi piedi, nei paludamenti romani, i cinque Direttori; poco discosto i
ministri, gli ambasciatori, i generali, tutti i grandi personaggi di
quell'eccezionale momento storico: e di faccia, disposti in anfiteatro,
gl'invitati, a migliaia. Entra l'«eroe» seguito dal suo giovane «stato
maggiore»: ancora magro, col fine profilo di medaglia romana tra i lunghi
capelli, egli gira su la densa assemblea, accolta per onorarlo, il suo grigio
sguardo di dominatore. Talleyrand, allora ministro degli esteri (che portava
nel governo rivoluzionario insieme alla sua mobile coscienza il sapore di
squisita signorilità di altri tempi) dà il primo saluto a Bonaparte, e questi
risponde brevi, nervose parole, che suscitano un uragano di applausi. Poi
comincia a parlare Barras.... Allora, dal suo posto di invitata, tra quella
folla febrile, Giulia Récamier è vinta dal desiderio di vedere meglio il
giovane eroe nella cui mano breve sta il destino il Francia: e si leva in
piedi, curiosa, sul suo scanno. È vestita di bianco, il colore suo preferito;
intorno al collo le gira un lungo filo di perle, le gemme che ella predilige;
la sua fronte è più bianca dei suoi veli, più bianca delle sue perle.... Un
fremito di ammirazione corre per l'assemblea: non più Bonaparte ma Giulia
Récamier è il bersaglio di tutti gli sguardi attoniti, sorrisi dalla incantevole,
novissima apparizione. Bonaparte se ne accorge e si volge a guardare colei che
gli contende l'attenzione del pubblico: gli occhi d'aquila s'incontrano un
attimo con quelli di colomba.... e la bella donna, sotto il duro inflessibile
sguardo, impallidisce e trema. Da Napoleone imperatore, cui ella nella bontà
del suo cuore, non seppe perdonare nè la morte di Enghien nè gli esilii di
amici diletti, ebbe a soffrire in seguito cattivi trattamenti: pare anche
accertato ch'egli tentasse metterla nel numero delle sue conquiste femminili,
di quelle ch'egli prendeva, così, come fortezze da espugnare e abbandonava
tosto sdegnosamente, come vile bottino di guerra.... Ma ella era l'invitta, e
il Côrso terribile la trovò inespugnabile come i ghiacci del nord ch'egli
doveva, a suo danno, sperimentare un giorno....
***
La vita di Giulia Récamier non
ha tappe importanti che la dividano in periodi notevoli e diversi. Due
rivolgimenti finanziari sofferti da suo marito a breve distanza l'uno dall'altro,
furono causa ch'ella dovesse rinunziare al lusso col quale aveva iniziata la
sua vita a Parigi; ed ella fece serenamente, con fortezza d'animo esemplare, la
rinunzia a tutto ciò che era la naturale cornice della sua persona.
Ma la sua casa, convegno di
tutti i più eletti spiriti di Francia, durante il periodo della ricchezza, lo
fu tuttavia anche dopo il tramonto della fortuna: direi anzi che mai come alla
Abbaye-Au-Bois, l'ultimo e modesto suo asilo, fu così ricco e così saldo il
drappello de' suoi illustri e fedeli amici.
Gli amici: ecco la vita di
Giulia Récamier, di colei che Iddio ornò di così magnifici doni e che pure
privò delle più dolci e profonde gioie della esistenza. Pare che un amichevole
accordo, forse cagionato dalla grande sproporzione delle età, avesse stabilite
tra i coniugi Récamier le relazioni che uniscono un padre ed una figliuola:
così che ella non fu moglie, non fu madre, non fu amante, e concentrò tutte le
energie effettive della sua giovane anima nelle effusioni dell'amicizia. E la
sua amicizia fu ardente ed immutabile, e i tesori di devozione femminile che
racchiudeva in sè, li gettò, con regale munificenza, dalle sue belle mani
aperte, sul capo de' suoi amici, quanto più sventurati, tanto maggiormente a
lei cari: e coloro ch'ella onorò del dolce nome di amici, amò veramente come
fratelli, come figliuoli, fino al sacrificio, fino all'eroismo, vincendo ogni
ostacolo per soccorrerli, sfidando per essi il pericolo, sempre lieta e sicura,
come chi compie un dovere sacro al proprio cuore. Ma tutti i suoi amici furono
veramente degni di lei; perchè non solo ebbero essi grande la mente, ma grande
il cuore: ed ella ebbe la profonda soddisfazione di non ingannarsi mai
nell'accordare il suo affetto, in cui una specie di affinità elettiva compiva
la selezione.
Tutti coloro che furono i suoi
amici fedeli, che l'amarono fraternamente anche vecchia e malata, avevano tutti
cominciato con l'amarla di ardente amore: ma a poco a poco ella aveva saputo
compiere il prodigio (ah se ogni donna potesse rapirle il segreto!) di
trasformare, Circe al rovescio, in fratelli dell'anima, in puri e devoti
spiriti, gli amanti che bruciarono da prima per lei di fiamma impura.
Se si pensa al magnifico
esercito (è la parola) di uomini che l'amarono, usi come siamo a considerare la
fragilità umana come una malattia dalla quale difficilmente si scampa, siamo
quasi tentati di dubitare della trionfale resistenza di lei a tutti. Ma
a poco a poco noi ci pentiamo sinceramente del nostro dubbio ingiurioso,
studiando bene sui documenti la vita di lei, respirando l'atmosfera di purità
ch'ella diffonde dintorno a sè.
Passiamo dunque un poco in
rassegna quello che ho chiamato «esercito».
Noi vediamo Luciano Bonaparte,
giovane e bello, ne' suoi gesti un poco teatrali, spasimare, gemere di amore
per lei. Egli compone opere letterarie (veramente, assai mediocri!) in cui
esala la piena del suo sentimento: è una specie di epistolario, dedicato da un
«Romeo» alla «divina Giulietta». Ma «Giulietta», tra dolce e birichina, un poco
sorridendo, un poco rattristandosene, non accoglie l'omaggio, e mette tutto il
suo cuore a tentare la guarigione del suo infelice amatore.
Vediamo il principe Augusto di
Prussia, valoroso e bello come un eroe della sacra Hedda, perdere il senno per
lei: lo vediamo a lei per lunghi anni fedele, giungere perfino a proporle di
sposarla, scongiurandola di ottenere il divorzio. A questo patto pare che
Giulia, per un momento, esitasse.... ma ben presto vinse la pietà per l'uomo
buono e paterno che aveva liberamente sposato, promettendogli fede; e con
l'ausilio della religione che le suggeriva il rispetto dei legami del
matrimonio, anche se questo sia solamente morale, ella fece per nobiltade
il «gran rifiuto».
Vediamo ancora, cosa
stupefacente! due generazioni di Montmorency prese d'amore per lei! Tanto che Adrien de Montmorency diceva che
della loro famiglia: «Ils n'en mouraient pas tous, mais tous étaient
frappés!» Di questa nobile famiglia, Matteo, il
rivoluzionario-aristocratico, dalla grande anima di cristiano, insieme col
filosofo Ballanche e con Chateaubriand, composero la perfetta triade che può
veramente dirsi l'essenza delle affezioni di Giulia Récamier.
E nemmeno l'ombra della gelosia
offuscò mai le relazioni di cordiale amicizia tra quel drappello di eletti;
ella era tra loro un legame saldo ed affettuoso, non già una cagione di
dissidii: tutte le corrispondenze del tempo lo provano, e provano anche,
documento ancora più straordinario! che le mogli di coloro i quali non vissero
che di lei e per lei, l'amarono e la rispettarono senza riserve, inchini
davanti alla sua perfetta virtù. Anche con alcune donne fu legata coi vincoli
di un tenero affetto, e non è giunto fino a noi ch'ella suscitasse tra le sue
simili (c'è quasi da strabiliare....) il poco nobile ma purtroppo assai
frequente sentimento dell'invidia!
La duchessa di Devonshire, una
delle sue migliori amiche, diceva di lei: «D'abord elle est bonne, ensuite
elle est spirituelle, après cela elle est très belle!»
Madama Swetchine, la illustre
scrittrice russa, che da prima ebbe qualche prevenzione contro di lei, finì per
adorarla; e le scriveva: «Ce charme pénétrant, indéfinissable qui vous
assujettit même ceux dont vous ne vous souciez pas!»
La sua celebre amicizia con
madame de Stäel giunge, in Giulia Récamier, fino all'eroismo, poichè ella sfida
la collera di Bonaparte mostrando «a viso aperto» la sua devota affezione per
la grande esiliata, partendo in mesto pellegrinaggio per andare a consolarla
nella lontana terra del suo esilio.
E come imperiale castigo,
s'ebbe, ella medesima, l'esilio, pel quale errò, tre lunghi anni, fuori della
patria, con pochi mezzi di fortuna, lontana da coloro che amava di più.
Ah l'ultimo gran capitano che
splende su le pagine della storia non aveva l'animo cavalleresco davvero!
Eppure la bellissima esiliata
non glie ne serbò rancore: e di questo abbiamo innumerevoli prove. Con due
consanguinee del Côrso ella fu unita di profondo affetto, affetto che dimostrò
loro nella buona e nella cattiva fortuna: con Carolina regina di Napoli; e con
la bionda, malinconica Ortensia, che esalava la sua invincibile tristezza, in
dolci e belle pagine musicali....
Quantunque di idee legittimiste,
Giulia Récamier era così buona francese da non poter vedere senza orgoglio la
gloria di Bonaparte, e da non sentirsi commossa alla sua rovina. Trovandosi
ella un giorno, dopo Waterloo, in una casa amica, in compagnia di Lord
Wellington, e avendolo udito dire con arroganza: «Je l'ai bien battu!»
gli chiuse in faccia, per sempre, le porte della sua casa!
La sventura aveva per Giulia
Récamier la stessa potenza di attrazione che per le anime volgari ha lo
splendore della fortuna: impassibile in faccia alle adulazioni ed agli onori,
ella accorse sempre dove fossero lagrime da tergere, dolori da mitigare.
Ballanche diceva ch'ella era
nata una Antigone e che si era tentato invano di farne una Armida, ed
aggiungeva: «nul ne peut mentir à sa propre nature». Un altro che molto
l'amò, Benjamin Constant, le scriveva un giorno: «... planer, comme vous le
faites encore, entre le Ciel et la terre. Je crois que le Ciel l'emportera, et n'ayant
malheureusement rien à gagner à ce que vous soyez mondaine, je suis pour le
Ciel!» E la Harpe le scriveva: «Je
vous aime comme on aime un ange, et j'espère qu'il n'y à pas de danger!»
L'amore ch'essa accendeva,
nobilitandosi e trasformandosi nel sentimento durevole dell'amicizia, il quale
veramente, soltanto tra due esseri di sesso diverso, quando essi abbiano
raggiunto lo stato di Grazia, può divenire perfetto, assumeva in ogni
uomo espressione e carattere diversi, secondo le diverse nature di ciascuno. In
Mathieu de Montmorency divenne misticismo. Egli ebbe l'amicizia mistica, e si
sentì come investito dal sacro officio di dirigere e volgere sempre più in alto
lo spirito della bellissima donna, assetato come egli era di morale perfezione.
Sceglieva per lei i libri di lettura, le faceva sermoni di alta morale,
giungeva persino a biasimare in lei la innocente coquetterie che era
pure tanta parte del suo incanto. Poichè ella non ebbe l'onestà austera, ma
quella dolce e lieta, che non si compone in attitudine eroica, quasi ad
aspettare l'applauso della folla: e se qualche volta fu sinceramente commossa
per avere cagionato, inconsapevolmente, qualche profondo dolore, le piacque
però sempre, e non lo nascose ipocritamente, di essere ammirata.
In Ballanche, il filosofo dal
gran cuore e dal volto deformato, l'amore deluso divenne sottomissione di cane
fedele. Tutto chiuso come un'urna nel suo affetto che non finì che con la
morte, egli la seguì sempre dappertutto come un'ombra discreta, rassegnato e
paziente, ma tutto bruciante come un rogo di interno amore. E come teneramente
ella lo amò! Fu il penultimo della eletta schiera a precederla nella morte: e
quando egli cadde gravemente ammalato, ella volle andare ad assisterlo, come
una buona sorella, benchè i medici la scongiurassero di non uscire di casa,
avendo ella da poco sofferta una grave operazione agli occhi. Ma non li ascoltò
aveva un dovere di amicizia da compiere.... che cosa per lei poteva valere di
più? Uscì dunque, ed assistè fino all'ultimo respiro il fedele amico della sua
giovinezza.... ma i suoi occhi non videro mai più la luce pel tempo che ancora
visse! Così si può dire senza iperbole ch'ella amava i suoi amici più della
luce degli occhi suoi!
Ma nella inquieta, profonda
anima del grande Chateaubriand, l'amore forse non riuscì a trasformarsi mai.
Egli l'amò già maturo, e anche essendo assai vecchio ma con l'anima sempre
giovane, piena di misteriosi fantasmi, egli, io credo, amò sempre d'amore colei
che fu il più dolce sorriso della sua vita. Le sue lettere calde, sincere,
eloquenti, non sono mai le lettere di un amico. Eccone alcuni brani,
presi qua e là, a distanza di mesi, di anni, nelle assenze di lui, quando egli
aveva offici diplomatici, o in quella di lei, quando per fuggirlo, ella
andò a Roma, e vi rimase lunghi mesi chiedendo sollievo alle bellezze della
città eterna, delle lotte combattute contro di lui.... ed anche un poco, io
penso, contro sè medesima. Ah come facilmente si combattono i nemici che
abbiamo di fuori.... in paragone di quelli che si nascondono dentro
di noi!
In quel suo viaggio a Roma ella
conobbe Antonio Canova, il quale fu preso da una grande ammirazione per lei,
ammirazione appassionata ch'egli cercò di acquietare fissandone nel marmo le
belle fattezze. Un aneddoto, da buona fonte, ci racconta ch'ella non si trovò
somigliante all'opera del grande artefice, il quale allora incoronò di lauro la
bella testa marmorea, e ne fece una Beatrice.
Ma ecco i brani di Chateaubriand: «Je ne vis que quand je crois que je
ne vous quitterai de ma vie!» — «Vous seule remplissez ma vie, et quand
j'entre dans votre petite chambre j'oublie tout ce qui m'a fait souffrir!»
oppure: «Avec quelle joje j'ai revu la petite êcriture! Tous les courriers
qui arrivaient sans un seul mot de vous me crevaient le cœur! Suis-je assez fou
de vous aimer ainsi! Et pourquoi abusez-vous de votre puissance?» E ancora:
«Il y a trois mois que je vous ai quittée (era a Londra, ambasciatore) et
ces trois mois m'ont vieilli de trois siècles! Ah que ne suis-je pour toujours
dans la petite cellule!» Poi da un viaggio nel mezzogiorno: «Il
faut vous revenir. Femmes,
hommes, ciel, palmiers, tout ce que j'ai vu ne vaut pas un moment passé dans
votre douce présence. Il n'y a de repos pour moi que là!» Una
lettera del Poeta mi prova, in aiuto al documento della fuga di madame
Récamier per Roma (quando il nemico è solo fuori di noi non è necessario
prendere così grandi precauzioni!) che la virtuosa donna aveva per l'autore di Renato
un sentimento meno tranquillo della semplice amicizia. Sfuma dunque la leggenda
ch'ella fosse inaccessibile all'amore: no, ella fu solo inaccessibile alla
colpa! «Allons! J'aime mieux
savoir votre folie que de lire des billets mystérieux et fâchés!... Et
si j'étais coupable, croyez-vous que de telles fantaisies vous fissent la
moindre injure et vous ôtassent rien de ce que je vous ai à jamais donné?» Non
è vero che questa lettera ci pone quasi sotto gli occhi una lettera di gelosia
di lei? E può la sola amicizia essere gelosa? Certo, ella ebbe l'amicizia
ardente. Questa donna che non fu moglie, non fu madre, nè fu amante (nel
significato meno nobile della parola) ebbe tutta la sua vita come corsa da un
rivo di tenerezza della quale irrorò ogni anima ch'ella giudicasse meritevole e
degna.
E colei che fu così vigile
custode del suo essere corporeo, quanta ideale copia di sè non fece altrui!
Forse, per concedere qualche cosa al positivismo delle indagini, si può
ammettere che la purissima fosse un poco aiutata nel traversare, come vestita
di amianto, tanto fuoco di passioni, dal tranquillo equilibrio del suo
temperamento. Ma per quante vie non si studiava l'insidia di giungere fino a
lei!
Principi del sangue e principi dell'intelletto
le furono schiavi, ed ella regnò sovra di loro, intangibile signora,
consolandoli unicamente col duplice incanto di una divina bellezza visibile,
e di una interiore, ancora più meravigliosa.
***
Perchè madame Récamier fu così
pura?
Io metto pegno che a qualcuno potrà questo parere un
curioso problema psicologico. Ebbene, io penso che ella fu pura, così come fu
bella, perchè Iddio le aveva dato anche un secondo magnifico dono: la
rettitudine. Ci sono anime per le quali operare contro la legge che hanno
riconosciuta ed accettata per l'unica giusta, è una assoluta impossibilità,
Esse vedono, forse, obbiettivamente, che altrove è la gioia, esse comprendono
forse che una morale come questa: dare a noi stessi la maggior somma di gioia
possibile, senza nuocere altrui, potrebbe essere seguita restando entro i
limiti di un nobile ideale di vita.... vedono ciò, eppure passano accanto alla
gioia senza toccarla, e si trincerano nei grigi e freddi baluardi del dovere.
Ognuno segue il proprio destino.
Ma il vero miracolo che Giulia
Récamier seppe operare, il problema psicologico veramente arguto, è, per me, la
docile sottomissione di coloro che l'amarono, alla sua savia legge. Grande
fortuna fu invero la sua di incontrarsi con tante nobili anime! Perchè l'uomo
che ama diventa quasi sempre, purtroppo!, un maligno animale, nel quale parla
da padrone soltanto il più feroce egoismo. Assai facilmente dal suo amore
ferito e insoddisfatto nasce l'odio, o se non questo, un amaro risentimento che
non lo abbandona mai più. In quello stato d'animo, difficilmente egli sa
diventare obbiettivo, nè sa comprendere nella sua offesa secolare vanità, che
la donna, negandosi, si ammanta di una sublime poesia di forza e di dolore. Ah
purtroppo, assai volte, in certe inimicizie di uomini contro donne, bisogna
indovinare segrete storie di audaci richieste e di tenaci ripulse, di fallite
scorrerie di predoni, di offerte e disdegnate amicizie fraternamente pure!
Ebbene, Giulia Récamier, la donna più amata che si conosca, non ebbe a conoscere
un così grande dolore: quello di veder germogliare dall'amore respinto la
velenosa pianta dell'odio! Ella ebbe un solo nemico: Napoleone Bonaparte. Ma mi
piace credere, quantunque qualcuno lo abbia pensato, che l'implacabilità del
despota non avesse così ignobile causa. Egli dava la legge: e chi vi mancava
era inesorabilmente punito dalla sua mano piena di tanto destino!
Di tutti gli altri che l'amarono
tutti le restarono fedeli e devoti fino alla morte. Quale fu dunque il suo
segreto? Certo la sua grande dolcezza nel sanare le ferite che
involontariamente apriva (nulla è tanto terribilmente forte quanto la
dolcezza!) e la sicura fede di ognuno ch'ella fosse veramente pura e
trasparente come il ghiaccio, ch'ella fosse veramente come la shakespeariana
vergine «limpida e sonora», debbono essere state efficaci ausilii alle sue
vittorie sul cuore altrui.
Fu ella donna d'intelletto? Io
lo credo, chè me ne affida il suo continuo volgersi in alto per collocare le
sue affezioni, e il gradimento che provarono del commercio spirituale con lei,
anche nella sua vecchiaia, uomini di grande intelligenza. Anche la sua modestia
è una prova del sano equilibrio della sua mente.
Ella dubitò sempre di sè
medesima: e la sicurezza su noi stessi, quando non sia del genio, è degli
sciocchi. Consigliata a scrivere le sue memorie si oppose tenacemente a quel
desiderio de' suoi amici, e volle distrutte alla sua morte, le pagine che aveva
scritte esclusivamente per sè. Eppure da qualche brano pubblicato poi, e dalle
poche sue lettere che ci rimangono, ella ci appare scrittrice elegante e
disinvolta, piena di una svariata conoscenza di uomini e di cose. Musicista
squisita, ella trasse dalla musica una delle maniere di consolazione più
efficaci nelle ore meno liete. Soleva suonare di memoria, per lunghe ore,
guidata dai ricordi e dalla fantasia, sola, nella propria stanza, ed amava
essere sorpresa così dal crepuscolo... continuando a suonare, nell'ombra a poco
a poco più densa...
Il salotto di Giulia Récamier
ebbe il massimo grado della sua celebrità sotto la «Restaurazione», quando non
più la bellezza di lei, o almeno la gioventù (se è vero ch'ella fu bellissima
fino alla morte) era quella che le attirava dintorno i satelliti: Tocqueville,
Ozanam, Sainte-Beuve, Benjamin Constant, (senza contare coloro che già
conosciamo), principi francesi e stranieri, dame illustri per nobiltà di sangue
o d'intelletto, affollavano il suo eremitaggio, l'Abbaye-Au-Bois; un'abitazione
così modesta che somigliava la cella di una monaca. E fu il suo un salotto
ideale principalmente perchè l'affettazione ne fu esclusa, e perchè l'amicizia
fu il solo cemento che tenesse unite le persone che lo composero. Il
decadimento dei così detti «salotti» deriva in parte, io credo, dalla poca
unità degli spiriti, dalla mancanza di quel sentimento di fraternità
intellettuale che aggrega profondamente gli uomini tra di loro. Il «salotto»
non deve essere soltanto una riunione di persone che si radunino per soddisfare
reciproche vanità, compiendo offici semplicemente decorativi, rispondendo ad
inviti fatti nel nome di qualche forma, più o meno volgare, di «snobismo»: ma
deve essere una specie di ente morale, deve avere la sua ragione di
essere nell'affiatamento e nella omogeneità tra le persone che vi convengono:
deve avere una sua propria atmosfera vitale, fatta di un'alta comunione di
idee, e di una nobile gara di virtù; deve aspirare ad essere, non solo pei
singoli individui, ma collettivamente, qualche cosa. Il presiedere a
così fatto ambiente, con simili intendimenti, esige una sottile,
delicata abilità; e di questa abilità fu maestra inarrivabile Giulia Récamier.
Le pareti della sua casa, la sua dolce presenza erano diventate necessarie ai
suoi amici: presso di lei ognuno di questi eletti trovava come un ideal
focolare domestico: era quella la casa di tutti loro, nel significato
più nobile della parola, o meglio era un tempio dedicato all'amicizia, in cui
la vestale, custode del sacro fuoco, era la donna dalle divine labbra che non
furono mai baciate da un bacio d'amore!
***
Ho detto che Giulia Récamier
ebbe l'amicizia ardente e che non rimase sempre, come altri crede, insensibile
a quel sentimento che «a cor gentil ratto s'apprende» (come spiegherebbero
certi scettici l'onestà, se non con l'insensibilità?). Ma debbo ammettere
ch'ella non conobbe della vita le grandi tempeste. La sua anima non fu, al pari
di tante altre, come agitata dalle convulsioni dell'Oceano, ma somigliò
piuttosto un placido corso d'acqua or sì or no commosso da venti contrari, ma
non mai troppo impetuosi. Ella visse il sogno che dovrebbe essere quello di
ogni eletta anima femminile; d'essere cioè l'«amica dell'uomo».
Di fatti, perchè deve sempre
essere la donna per l'uomo, unicamente la conquista o la preda? Si direbbe che
questa donna soave ebbe l'intuito di un fatto futuro: della utilità di
stabilire tra i due sessi, relazioni ideali, pure amicizie, integrazioni dolci
e benefiche ad ognuno.
La vera amicizia, io credo (nè
mi sgomenta se ciò possa apparire a prima vista un paradosso) non può
sussistere se non tra persone di sesso diverso, tra le quali non possa mai
sorgere nessuna forma di rivalità: amicizia alimentata da tutte le diversità
che determinano appunto la vera, la fatale attrazione tra gli spiriti,
all'infuori di ogni pensiero impuro. Ma per inspirare e nutrire sentimenti di
questa sorta la donna deve essere perfetta moralmente, così che l'uomo
possa sentirla al di sopra della realtà. Ecco perchè in un momento in
cui i costumi erano tutt'altro che onesti, mentre daccanto al trono dell'Eroe
uno stuolo di femmine bellissime si maculava di volgari colpe, la modesta
borghese di Lione, dalla bianca fronte di Vergine, vedeva i più grandi uomini
del suo tempo piegare le ginocchia davanti a sè con la devota adorazione che
solo la perfetta rettitudine sa inspirare. E tutto il suo incanto fu veramente in
lei: che ella non ebbe, come richiamo, le lusinghe di un'alta condizione
sociale, nè potè concedersi il lusso di accordare protezione altrui. Eppure il
suo salotto fu popolato di un gruppo di uomini che avrebbe fatto invidia a
qualcuna delle superbe e magnifiche principesse del nostro Rinascimento!
Ma gli è che Giulia Récamier
dava altrui, anzi era prodiga di una cosa ch'è la più dolce e la più rara al
mondo: un nobile e puro cuore di donna. E quel suo cuore, sereno come la sua
bellezza, comunica a noi, solo nel lontano ricordo, un senso di bene
ineffabile, ci suggerisce come l'idea di un dolce riposo: sì che noi siamo
riconoscenti a quella bella fronte di non essersi contratta mai in una piega di
dolore o di sdegno, noi siamo lieti che la superficie piana di quella tenera
anima non sia stata commossa mai da correnti maligne e turbatrici.
Ella sorride, da lungi, a noi
nel ricordo, tutta fatta di cose serene: ella è colei che bene ama, che sorride
e che consola! Non è vero, oh no! che la poesia della donna, come altri ha
detto, stia nel suo essere vinta: oh, «guai ai vinti»: non dimentichiamo
l'antico grido del duce barbaro, pieno di così grande sapienza! Un simulacro
tolto da un altare, se tramonti la fede che ve lo aveva elevato diventa un
miserabile giocattolo, solo degno di riso o di pietà: così della donna, s'ella
non sappia cingersi di tenace virtù, s'ella non sappia inspirare altrui la fede
nella propria immutabile bellezza interiore.
Resti dunque ella sempre,
coraggiosamente, un poco al di sopra della vita; resti, se è necessario, anche
al di fuori della gioia, ma non abbandoni mai, forte che sia la voce che la
chiami in basso, il suo plinto elevato. Solo a questo patto ella potrà essere
durevolmente adorata, solo a questo patto ella potrà aspirare alla felicità!
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