
Quando io penso che gli eruditi
hanno potuto discutere su l'esistenza reale di Laura, io mi domando sul serio
se gli eruditi abbiano mai letto il Canzoniere di Francesco Petrarca. È
vero che ad evocare Laura è assai più utile un poco di psicologia che molta
erudizione: ed è anche vero che la psicologia è una scienza che ha più d'ogni
altra assoluto bisogno di quell'aurea manzoniana cosa che si nasconde, qualche
volta, per paura del senso comune! Ma poichè io suppongo ogni erudito dotato di
larga dose di buon senso, come è possibile, mi chiedo, leggere il Canzoniere
e non vederne subito balzar fuori Laura, viva e vera, nella sua complessa e
adorabile femminilità di creatura reale? Non si sente dunque subito che questa
donna è troppo umana, troppo plasmata di erompente verità, per essere una pura
e semplice figurazione d'arte? Essa è tutto il mondo poetico di Petrarca
appunto perchè è tutta la sua vita, perchè riempie tutta quanta l'anima sua: e
se il lungo soliloquio amoroso di questo Grande, se il canto monocorde del suo
plettro divino non ci tedia mai, gli è che noi sentiamo la sincerità d'accento
che fa vibrare il cuore ed il cervello, gli è che noi ci avvediamo di assistere
al vero dramma psichico di quella grande anima in lotta più con se medesima che
con la donna amata.
Nessuna storia amorosa io
conosco che sia più gentile o più profonda di questa.
Un lungo amore, una ventenne
sete occupa il cuore di Francesco Petrarca senza ch'egli possa cogliere mai
«ramo nè foglia», non solo, ma senza ch'egli sappia mai, veramente, se la donna
amata lo riami. Eterne alternative di speranze e di timori si succedono in lui,
che ora si abbandona alla dolcezza immensa di amare senz'altro chiedere, ora si
ribella all'indegna servitù che lo opprime, e fieramente la guerreggia,
fuggendo l'oggetto del suo triste amore, e i luoghi che glie lo rammentano: ma
egli si accorge solo assai tardi che porta il suo male chiuso nel suo proprio
petto, e che questo male non l'abbandona, per mutar di luogo, ma diviene con
lui errante, come la sua stessa ombra!
Anche se accanto al Canzoniere
noi non avessimo, per chi asseta del «documento», le altre opere del Petrarca
che fanno fede come la sua poesia nascesse da una realtà, come non riconoscere
in questo dolcissimo tra tutti i libri, la calda sincerità della emozione?
E non dimentichiamo, o Iddio ci
perdoni, poichè siamo faccia a faccia col maggiore lirico nostro, che la
lirica, quando sia di quella buona, deve zampillare direttamente su dal cuore,
deve essere soggettiva, e deve portare le traccie di qualche lagrima, o anche di
un poco di vivo sangue: di queste cose appunto è fatta la poesia!
Ed ecco che, tutta rorida ancora
del pianto del divino trovatore, noi vediamo rivivere nelle eterne pagine del Canzoniere,
la gentile creatura che a lui unicamente parve donna.
E tale ella appare anche al
nostro sguardo: non angelo, non dea, a noi sembra, la dolce pimplèa, che il
Poeta ha battezzata di tutti i più sovrani nomi: ma donna, deliziosamente,
squisitamente donna.
Un'«astrazione» Laura?
Ah ma non diciamolo nemmeno per
celia! Guardatela un poco, dopo morta, in Paradiso, «tra color che il terzo
cerchio serra»: non vedete che il Poeta non è riuscito, nemmeno allora, a
spiritualizzarla, completamente, e ch'ella gli è rimasta sempre viva e donna
tra le mani? C'era troppa realtà, in Laura per farne un puro simbolo, dato
anche che il Poeta ne avesse avuta l'intenzione!
Ma furono dunque le donne
oneste, in tutti i tempi, così rare che quando se ne incontrano si debba
chiamarle con nomi tanto superbi, e ritenerle creature non della terra ma del
cielo? Non voglio crederlo: e vado incontro, lungo la via di fiori del Canzoniere,
tra la musica ineffabilmente dolce della più grande delle sinfonie d'amore, a
questa donna di Grazia e di Sorriso che io vedo muoversi, atteggiarsi,
palpitare di vera vita in una successione di scene vive e fresche di eterna
giovinezza, messe in rilievo da un sole che non conosce sera; il sole del genio
di Francesco Petrarca.
Dal dì sesto d'aprile dell'anno 1327 in cui il giovane
Poeta la vede per la prima volta nella chiesa di Santa Chiara in Avignone, fino
all'altro dì sesto d'aprile dell'anno 1348 in cui l'innamorato errante impara la di
lei morte, in una delle tappe del suo viaggio in Italia, a noi sembra vedere,
specchiata nelle musiche del libro dei libri, limpida e pura, la breve vita di
colei che se viva fu un perpetuo enigma tormentoso per l'anima del suo infelice
amante, morta divenne per lui, oh miracolo! trasparente come la pura acqua
della Sorga!
Ricordate il Trionfo della
Morte? E non vi pare il più sottile studio di psicologia amorosa che si
conosca?
Ma guardiamo prima un poco da
viva, Laura de Noves, baronessa de Sade, la bionda, la bella, la biancorosata
signora, a traverso il divino specchio del Canzoniere: un monumento
patrio glorioso che dobbiamo a lei.
***
Noi siamo usi a guardare Laura
come un essere passivo, come una figura di bellezza e di luce che si lascia
adorare dal Poeta, e ne è la ispirazione inconsapevole, la stella immobile e
lontana: ed io voglio ora studiare più da vicino, e farlo gustare a chi non lo
avesse fatto ancora, il leggiadro autonomo atteggiarsi di lei di cui dobbiamo
lodare assai più che la bellezza, la salda virtù: perchè a questa appunto noi
dobbiamo il Canzoniere. Più docile, il Poeta ne avrebbe avuto forse
maggiore gioia; ma l'avrebbe meno profondamente amata, ed è da porre in dubbio
s'egli l'avesse così lungamente cantata.
Laura fu donna virtuosa: ma il
suo cuore gentile e delicatamente femmineo non restò insensibile alle pene del
suo illustre amatore: e con grazia tutta donnesca, ora si compiacque della
fiamma suscitata in quel gran cuore, ora, paurosa che la fiamma avvampasse
troppo, cercò gettare un poco d'acqua benefica su l'incendio.
Laura de Sade era una delle più
belle, forse la più bella donna di Avignone, quando Messer Francesco la
conobbe, in non si sa quale elegante ritrovo. La piccola città che siede su le
rive del Rodano aveva allora dallo scisma, l'onore di accogliere tra i suoi
bastioni il Papa e la magnifica corte pontificia: e contava tra i suoi abitanti
illustri fuorusciti italiani.
Il lusso che fiorisce nelle
corti, l'ozio, il caldo sole di Provenza, avevano, in quel periodo, adombrato
la medioevale purità dei costumi: così che le descrizioni dell'Avignone di quel
periodo, ci dànno imagine di una qualsiasi corte italiana del Rinascimento,
anzichè della città eletta a sede terrena del Regno dello Spirito, da'
Pontefici dello scisma.
Ivi, tra l'accolta di giovani
signori, maestri di ogni squisita arte di galanteria, Petrarca menava il vanto
sì per l'alto intelletto, che per la bellezza della giovanile persona, cui il
precoce biancheggiare della fulva ondulata chioma, doveva conferire singolare
incanto. Egli soleva ornare la sua persona con ogni maniera di squisite
eleganze: e la sua anima complicata, sentimentale, un poco malata di quel
misterioso male che noi crediamo tutto moderno e che fu invece di tutti i
tempi: la fatale doglia umana; e il suo caldo temperamento in lotta perpetua
col suo mistico spirito, dovevano fare di lui un uomo atto, o nessun altro al mondo,
a conquidere il cuore delle donne.
Nè il cuore della savia moglie
di Ugo de Sade rimase chiuso all'incanto! Ma ella era la moglie cristiana di un
altr'uomo, era madre di dolci figliuoletti, aveva data la sua fede: era donna
equilibrata e sana, e il cielo del Medio Evo era pieno di minacce e di
vendette! Ce n'era abbastanza, mi pare, perchè una donna onesta restasse tale,
anche se la tentazione fosse forte!
Svolgendo le pagine del Canzoniere,
noi vediamo Laura benigna, talvolta, col giovane italiano, ch'essa incontra al
tempio, in qualche eletta adunanza, o per la via: e che passerà, chi sa quante
volte, innanzi alla casa baronale, dove sovente sull'alto sedile di pietra che
corre lungo la facciata, la bionda gentildonna, secondo l'uso del tempo, passa le
ore in lieto ed amichevole conversare. Qualche altra volta, noi vediamo, che
accortasi ella dell'amore del poeta per lei, e da questo un poco turbata, gli
contende la vista della sua bellezza coprendosi di un denso velo: e perfino, al
subito incontrarlo per via, frapponendo la sua mano bella e bianca, tra i
propri occhi e quelli avidi di lui. Ah, gli occhi di Laura! I più glorificati
occhi di donna mortale, nei secoli! Divini occhi neri di donna bionda, dal
languido sguardo che talora ne scopre tutto il bianco, così da far abbrividire
chi la guarda: e lascia il dubbio se ciò avvenga per donnesca, sapiente
civetteria, o per mal frenato raggiare di interno fuoco. Curiosissimo questo
suo non permettere che Petrarca la guardi negli occhi! Vuole ella difendere sè
dal contagio d'amore, o vuole, conscia di sua trionfale bellezza, salvaguardare
lui?
Ma il velo non poteva celare a
lui, pur nascondendo gli occhi, nidi d'amore, il vario tesoro di così squisita
persona! Quella bella persona che mi piace evocare, sotto il vivo sole di
Provenza, serrata nella purpurea veste, col velo trapunto di rose un poco
cadente giù dagli omeri delicati, col bel piccolo piede cui il Rodano era
messaggero di baci, col natural diadema della chioma che pareva accendere
l'aria del suo splendore! Bella così, e tanto severa col povero poeta, che
qualche volta tratta assai aspramente, ammantandosi di tutta la sua rigida
virtù! Ma ecco che un giorno, all'improvviso vederlo, mutato in viso per il
lungo soffrire, ella impallidisce e trema, e comincia con innocenti eppure
soavi cortesie a sanare le ferite aperte dalla sua mano. La pietà si fa strada
nel suo cuore.... La fatale pietà che la donna sente quasi sempre per colui che
l'ama, e che è così spesso cagione della propria rovina!
Ma Laura, saviamente, sa
disciplinare anche la sua pietà: e solo di quando in quando largisce al giovane
innamorato qualche grazia sovrana.
A me pare non dubbio, o
m'inganno, che desiderando Petrarca un suo ritratto, ella si lasciasse
docilmente ritrarre da Simon Memmi, perchè almeno in effigie il suo poeta
potesse possederla e dissetarsi alla cara veduta! E il saluto di Laura? Ah
com'ella doveva conoscere il modo di gettar l'anima in un sorriso, a giudicarne
dalla commozione con la quale egli ci racconta come ella sapesse placare i suoi
fieri sdegni, aprirgli il paradiso con un semplice saluto!
Ma i veri innamorati sono
chiaroveggenti, e sanno che, in amore, due sguardi che s'incontrano carichi di
non dette cose, sono forse il vertice della felicità!
Un altro giorno, quando egli,
deciso a fuggirla, a sottrarsi alla servitù crudele, le annunzia la sua
partenza, ella, come sbigottita, china gli occhi a terra, senza parlare. Questo
gesto è d'una dolcissima malinconia. Non forse lascia ella vedere, così, il suo
nudo cuore, a colui che andrà lontano? Eppure di quel cuore egli continuerà a
dubitare!
Un'altra volta egli la vede
piangere: perchè? I quattro deliziosi sonetti del pianto non ce ne dicono la
causa: ma forse che non s'indovina? Ella ebbe quel giorno più degli altri, pietà
di sè e di lui, e le lagrime, sciogliendo il nodo che le opprimeva il seno,
caddero da' suoi bei cigli.
Ma anche dopo questo Petrarca
dubiterà di lei! Possibile che in tutti i tempi l'uomo abbia sempre creduto che
una sola debba essere la prova d'affetto che una donna possa dargli?
Laura canta come una sirena: ma
anche nel suo cantare ella dà indizio di avere l'animo turbato; poichè prima di
sciogliere la voce, sospira, esita, china gli occhi a terra, quasi soverchiata da
una forza interiore che deve restare occulta: poi si rinfranca, e dal candido
seno si sprigiona la chiara voce che allaga di dolcezza il poeta.
Eppure la maestà di Laura è
tanta, tanto è il rispetto che la sua bellezza e la sua virtù incutono in lui,
ch'egli è in pieno fuoco d'amore, e non ardisce, con aperte parole,
manifestarglielo!
E del mancato ardimento invano
tenta consolarsi cantando:
«Chi può dir come egli
arde è in picciol foco.»
Nei tre sonetti del guanto
abbiamo un quadretto graziosissimo che ci mostra Laura in un momento di amabile
birichineria, seguita immediatamente da pentimento. Ella si lascia rapire un
guanto (i furti di questo genere avvengono sempre con la complicità di chi è
derubato: no?) poi se ne pente e lo rivuole. Petrarca se ne dispera, ma
cavallerescamente lo rende, restando privo del suo dolce tesoro. E poichè si
rammarica di non avere avute ali ai piedi e di non avere meglio difesa la sua
nobile preda
«Contra lo sforzo sol
d'un'angioletta»
non pare che debba essere stata tra i due una specie di
lieta pugna, in cui il cavaliere innamorato ha dovuto cedere non già alla
forza, ma alla grazia delle piccole mani di Madonna?
Io ci vedo una cara scena di
squisita gentilezza!
La canzone che comincia «S'io il
dissi mai» ci racconta come Madonna Laura, per virtuosa, per savia che fosse,
era nondimeno gelosa del suo giovane amatore: giacchè egli si difende con
eloquenza da par suo dall'accusa di aver detto ch'egli amasse un'altra donna.
Ah no, questo Madonna non glie lo permette! Del digiuno cui ella lo condanna,
si compensi pure, se così fragile e misero è l'uomo, con basse soddisfazioni
estranee all'anima (tant'è vero ch'egli ebbe figliuoli illegittimi di madre o
madri sconosciute) ma ch'egli ami un'altra donna di quell'amore che Laura ben
conosce e che è tutto suo per diritto quasi divino, no, questo ella non può
tollerarlo!
Gelosa, Laura è un amore.
Senza diritti, eppure esigente,
fiera, tirannica, forte dell'ideal signoria ch'ella sente di avere sopra di lui
e che comprende di meritare sì per la sua bellezza sovrana che per la sua
sublime virtù.
Imaginiamo che cuore sarà stato
il suo il giorno in cui il misterioso principe straniero, nella eletta
radunanza di nobildonne, scelse lei come di tutte la più bella, e per farle
onore, la baciò su la fronte e sugli occhi!
Ella rimase impassibile al
solenne bacio, accolto con baronale dignità: ma certo dovette pensare nel suo
segreto, che un altro bacio le avrebbe fatto altrimenti piacere, datole da un
principe dell'intelletto, che ella stessa aveva creato cavaliere dell'ideale e
dell'amore!
Anche il gentile episodio delle
due rose ci mostra Laura accettante, alla luce del sole, il titolo di amante
dell'anima di Petrarca.
Un vecchio amico raccoglie un
giorno due rose in un giardino: e dandole una a ciascuno dei due, dice loro
graziosamente che il sole non vide mai simile paio di amanti. Nessuno dei due
risponde alla «felice eloquenza» del vecchio. O veramente felice e
significativo silenzio!
Un'altra volta guardandola egli
fiso, e non volendolo ella, gli pose su gli occhi la bella mano che egli tanto
amava e desiderava! Così che per quella volta egli non si dolse di avere
perduta la vista del caro volto!
Altri gesti di Laura che ce la
mostrano, a me par chiaramente, rispondente al sentimento del poeta, non sono
forse quel suo dubitare dell'amore di lui con finzione strategica di civetteria
donnesca? Allora quando viene da lui rassicurata nel dolce sonetto:
«Infinita bellezza e poca fede
non vedete voi 'l cor negli occhi miei?»
E il castigo d'acqua ch'ella
gl'infligge quando bagnandosi alla chiara fonte, sotto l'ardente raggio del
sole, si vede guardata da lui? Non è un castigo da donna che consenta, con
l'anima almeno?
L'ardimento in lui in quel
momento era tanto grave, che così lieve e solazzevole castigo dimostra un cuore
assai disposto all'indulgenza!
Più d'una volta messer Francesco
si lagna ch'ella non curi i suoi versi ed i suoi canti: ma allora egli è fatto
cieco dall'eccessivo timore. È egli possibile che donna non curi la gloria
dell'uomo che l'ama?
L'eterno dubbio che gli rodeva
il cuore, lo rendeva perfino poco psicologo! Egli forse ignorò i sentimenti di
Laura anche al tempo del massimo onore toccatogli nella sua vita che fu tutta
un sorriso di gloria; l'incoronazione in Campidoglio.
Ma noi sentiamo ch'ella dovette
gioirne, ed averne illuminato il buio che la lontananza di lui le aveva
lasciato in cuore. Ma non avrà ella anche pensato, quando il suo poeta fu
coronato di lauro, sul più sacro colle di Roma, che meglio del Senato Romano
avrebbe ella saputo ricompensarlo dell'onda di musica divina di cui egli
l'aveva circonfusa? Non forse avrebbe ella voluto, là su l'Arce Capitolina,
cingergli il capo di un molle diadema fatto delle sue bianche braccia e delle
sue treccie d'oro, e premiare la dolce bocca che aveva sospirato tant'alito di
eterna poesia, col premio che solo sanno dare due labbra di donna innamorata?
E chi sa se per questo premio
avrebbe messer Francesco fatto di meno del lauro Capitolino?
Il cuore dell'uomo è quell'abisso
che tutti sappiamo!
Ad ogni modo i baci di Laura
avrebbero privati i posteri del Canzoniere: giacchè quella divina
primavera di canti è appunto il rammarico dei baci ch'egli non ebbe e che non
le diede!
Sia dunque lodato e ringraziato
da noi il sacrificio di Laura!
***
Laura morì giovine come coloro
che sono cari al cielo; così ch'ella sembra saper regolare ed arrestare in
tempo anche la ruota di sua vita. A lei viva e repugnante, salda, al peccato,
aveva forse già detta il suo cantore l'ultima parola. Per lei, morta, si
rigonfia magnificamente l'alta vena del Poeta, nutrita dall'improvviso dolore,
e ne sgorga un nuovo fiume di meravigliosa poesia: la più divina elegia che mai
donna abbia avuta a sua gloria. E allora soltanto, quetato il ventenne e vano
anelito, che nè viaggi, nè amori del senso, nè lunga solitudine, nè assiduo
macerarsi su antiche carte era valso mai ad appaciare, allora soltanto sembra
avere la visione precisa del chiuso cuore di colei di cui tanto aveva amato il
bel velo terreno.
Ho detto che il Trionfo della
Morte è il sottile studio psicologico postumo di Laura nelle sue relazioni
col Poeta: e sembrami di avere detto giusto.
Nel meraviglioso duetto del
sogno, che comincia:
«La notte che seguì
l'orribil caso»,
Laura gli racconta, sollecitata
umilmente da lui, l'intimo perchè del suo contegno verso di lui: e non pare
veramente superflua, dopo la profonda analisi di quella gentilissima anima,
ogni altra indagine su l'ormai svelato mistero? Mi piace incastonare alcune di
queste gemme nel cerchio delle mie parole:
«.
. . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . mai diviso
Da
te non fu 'l mio cor, nè giammai fia:
Ma
temprai la tua fiamma col mio viso.
Perchè a salvar te e me, null'altra via
Era
alla nostra giovenetta fama:
Nè
per ferza è però madre men pia.
Quante volte diss'io meco: Questi ama
Anzi
arde; or si convien ch'a ciò provveggia:
e
mal può provveder chi teme o brama.
Quel di fuor miri, e quel dentro non veggia,
Questo
fu quel che ti rivolse e strinse
Spesso,
come caval fren che vaneggia.
Più di mille fiate ira dipinse
Il
volto mio, ch'Amor ardeva il core:
Ma
voglia, in me ragion, giammai non vinse.
. . . . . . . . . . . . . .
. . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . .
Allor provvidi d'onesto soccorso.
Talor
ti vidi tali sproni al fianco
Ch'io
dissi: Qui convien più duro morso.
Così caldo, vermiglio, freddo e bianco,
Or
tristo or lieto in fin qui t'ho condutto
Salvo
(ond'io mi rallegro) benchè stanco».
Non è qui tutta Laura?
Non ha egli veduta
chiaramente, dopo la morte della dolce e casta donna, tutta la verità?
Tuttavia, se solo dopo
egli ha veduto, quasi obbiettivamente il vero, anche prima deve avere avuta,
anche se imperfettamente, nella nebbia del dubbio che gli offuscava la mente,
la visione della verità.
Giacchè, se egli parlava tanto
della santità, della invitta onestà della sua donna, vuol dire
che sentiva di esserne amato. Perchè, così non essendo, quale santità e quale
invitta onestà sarebbe stata necessaria a respingere l'amore di chi ella non
avesse amato?
Più innanzi, Petrarca fa dire
alle rosate labbra così:
«Fur quasi eguali in noi fiamme amorose:
Almen
poi ch'io m'avvidi del tuo foco:
Ma
l'un l'appalesò, l'altro l'ascose.
Tu eri di mercè chiamar già roco
Quand'io
tacea, perchè vergogna e tema
Facean
molto desir parer sì poco.
Non è minor il duol perch'altri 'l prema:
Nè
maggior per andarsi lamentando:
Per
fizïon non cresce il ver nè scema».
Nobili, alte, sapienti parole:
pennellata veramente sovrana del grande maestro!
Sì, Laura dovette amare messer
Francesco: ed egli, benchè tardi, lo intuì.
E perchè non supporre che oltre
all'assiduo tarlo del dubbio che rose l'anima sua, non abbia valso ad
accrescere sulle eterne carte almeno, il mistero del cuore di lei, il rispetto
profondo che egli ebbe sempre, per colei che «gli diè tanta guerra»? A me piace
pensare anche questo.
Ma Laura dovette amarlo. Una
donna resiste alla bellezza, alla giovinezza, alla gloria di un uomo: ma non
resiste alla fedeltà. Nessun'arma è più di questa atta a vulnerare il cuore di
una donna. Giacobbe che servì sette anni ed altri sette per ottenere Rachele si
acquistò il maggiore di tutti i meriti agli occhi di colei che amava e non c'è
di noi chi non giudichi dolce la sorte della figlia del possessore di greggi,
Labano! Essere lungamente, pazientemente amata, con fido cuore che non si
stanca: c'è cosa al mondo che ad una donna piaccia di più?
Così Laura che tanto
leggiadramente e delicatamente era donna, dovette, per la sua lunga spirituale
fedeltà, riamare il poeta, di cui ella fu unica, tutto il mondo interiore.
Eppure, con fermo cuore, seppe mantenersi pura. Magnifico sacrificio cui la
severità dell'Evo al quale ella appartenne, e la nobiltà d'animo del suo
infelice amatore, furono certo valido aiuto, senza diminuirne l'essenziale
bellezza.
Ho accennato alla nobiltà
d'animo di lui, e voglio darne la ragione.
Egli amò Laura d'un amore che
dirò completo, in cui anima e senso si riunivano in saldo e necessario vincolo:
ma nella gemella, inseparabile forza, prevaleva la parte elevata, sì che
l'amore in lui giungeva fino ad uccidere l'amor proprio, ch'è schietta
manifestazione di egoismo.
Non cantò egli ognora, al sole
ed alla luna, la sua sconfitta?
Cercò egli mai a questa
attenuazioni o pietosi veli? Non mai. E a me pare che simili atti di sincerità
siano sicuro indizio di nobiltà d'animo e di perfetto amore. Nelle relazioni
d'amore, bisogna ricordarselo, l'amor proprio, o meglio la vanità, parla e si
sdegna solo quando il vero amore, ch'è la voce dell'anima, tace. Petrarca
desiderava Laura con «ingordo volere»:
«Con lei foss'io da che si parte il Sole
E
non ci vedess'altro che le stelle,
Sol
una notte: e mai non fosse l'alba!»
Come spiegano questo divino
grido coloro che vogliono vedere in quello del Petrarca un mostruoso amore
cerebrale? Ma nel tempo stesso egli le voleva bene: e per questo bene
perdonava a lei le ripulse, gli sdegni, il fiero orgoglio, l'apparente gelo,
tutto quello che lo faceva così crudelmente soffrire. Ma poichè ciò che lo faceva
soffrire era l'onestà di Laura, egli aveva il nobile coraggio non solo di perdonargliela,
ma di amarla, per questa ancora di più! Oh Laura, tra tutte le donne la meglio
amata!
È dunque possibile, mi
ridomando, non sentire nel Canzoniere la presenza reale di costei? È
possibile non sentire l'unità del motivo, il ritmo unico che è norma di tutta
la divina sinfonia amorosa? I pochi amori (se si possono chiamare così) estravaganti
del Petrarca, cui egli abbia fatto l'onore di fissare col suggello
dell'arte, si collegano tutti, piccoli episodî, al tema principale. Non è così
ad esempio, quando, dopo morta Laura, egli ci dice che sarebbe forse ricaduto
nel laccio d'amore, se l'antica tempesta non lo avesse ammaestrato? E Laura non
appare qui necessaria, come la sua salvatrice? A mio avviso il Canzoniere
è una collana di perle, è una orchestra di musiche di cui ognuna ha, come
genesi, un documento umano. Sono impressioni così immediate, sono accenti così
sentiti (a malgrado di qualche leccatura, di qualche cincischio, da cui procedè
sventuratamente il petrarchismo) che il dubitare se tutto ciò sia pura
immaginazione mi sembra, senz'altro, puerile.
Ma non è forse il cuore stesso
la genesi di ogni grande lirica? Non è laggiù nel profondo cuore dell'uomo la
radice della sua arte?
La tela d'oro dell'arte è
tessuta, sì, dalla mano dell'artefice, guidata dal cervello: ma la trama deve
formarsi nel mistero dell'anima, ma il filo deve aver origine dall'arruffata
matassa della vita.
Come pronunciare dunque la
bestemmia artistica e psicologica che l'amore di Petrarca sia soltanto una
elaborazione del solito amore trovadorico e convenzionale che da un centennio
fioriva sotto il sole di Provenza e d'Italia? È possibile non sentire Laura
sorridere, piangere, cantare, vivere: non vederla tuffarsi nelle chiare acque,
bella e bianca come Venere, non vederla seduta su la fresca erbetta, protetta
da qualche bel ramo, giuncata da una lieve pioggia di fiori: non vederla, prima
che nelle eterne carte, viva e vera, nella vita? In seguito, la realmente
goduta visione di luce, si trasformava, passando per l'anima del poeta, nelle
divine melodie che dopo tanto volgere d'anni noi ancora beatamente ascoltiamo.
Ed io vedo Laura, attiva di tutta
la sua vissuta grazia, sorridere a me che la evoco con devoto cuore, dalle
pagine del Canzoniere: di quella grazia di cui s'impossessò (oh
veramente magnifico possesso!) Francesco Petrarca, per fissarvi sopra la sua
impronta immortale.
S'egli fu un poco poseur
(come bene è stato detto), s'egli esagerò un poco i nodi della sua passione,
s'egli amò il suono delle sue pene e delle sue querele, ciò non nega la
sincerità della sua doglia. Ma se non con gli occhi dell'anima nel Canzoniere,
almeno con quelli del corpo mortale, ognuno può vedere Laura tramandata ai
posteri nelle altre opere del suo poeta: nelle lettere famigliari e senili, e
nel «Segreto» ch'è come il libro delle sue confessioni. Ivi egli attesta la
verità di quella unica passione che lo fa, per tanti anni, pallido ed errante,
che lo fa cercare, appena trentenne, l'esilio di Valchiusa, che lo fa
crudelmente soffrire, sì, ma lo innalza e lo migliora.
Che il Canzoniere possa
dare l'erronea, superficiale impressione di una certa freddezza, di certa
pacata compostezza, di un amore fatto più di fantasia che d'anima, di un pianto
troppo elegantemente versato, io posso anche ammettere: non tutti gli orecchi
sono felicemente temprati ad accogliere immediatamente il gaudio di quelle
armonie! E la causa di questa erronea impressione, per me, sta in questo.
Una cosa perfettamente bella
procura, al primo vederla, più meraviglia che commozione.
Guardate, per esempio, il dolore
rappresentato dall'arte greca. È un dolore sempre così bello, che a prima vista
non vi tocca. La linea, in esso, difficilmente si scompone, c'è sempre un'alta
dignità ne' suoi accenti, così che la sua forza viene mitigata, direi
rasserenata, dalla stessa bellezza della sua rappresentazione.
Ma chi oserebbe negare, anche se
appare a noi nell'aspetto di un Dio, nell'arte e nella vita, il Dolore? Non è
di dolore, principalmente, fatto il cuore dell'uomo?
E un cuore dolente fu certo
quello di Francesco Petrarca; e la sua poesia nacque dal suo dolore.
O Laura, dolce Madonna, siano
rese a te grazie da tutti i cuori! Per te molto sofferse, è vero, il tuo poeta:
ma col negarti a lui tu gli facesti, o castissima, il maggiore dei doni: gli
desti un tesoro di Poesia.
Ed egli te ne compensò, bionda
Laura, con munificenza più che da re, da nume: perchè ti diede l'Immortalità!
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