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Eugenia Codronchi Argeli (alias Sfinge)
Il femminismo storico

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  • GASPARA STAMPA.
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GASPARA STAMPA.

(1523=1554)

 

 


Questa celebre gentildonna-artista, una del nobile terzetto femminile cinquecentesco sacro ad Apollo, che noi siamo usi a considerare con accademica ammirazione lagrimosa, come una grande poetessa e come una grande infelice, a me pare meritevole d'essere studiata sotto un aspetto meno stereotipato, nella sua singolare fisonomia morale di donna poco equilibrata e pure (o non forse per questo?) così interessante!

Dico subito che non è la poetessa Anassilla, così ribattezzata da se stessa nelle rapide onde della Piave scorrente ai piedi del castello di Collalto, colei che suscita maggiormente la mia curiosità e la mia simpatia.

Quantunque tra lo stucchevole e freddo petrarcheggiare del suo secolo ella ci appaia non di rado personale e quasi sempre sincera, e ci mostri nuda, con grazia talora un po' impudica, la sua povera anima ferita a morte, tuttavia me commove non tanto l'arte quanto l'anima di Gaspara Stampa: ma poichè quella è tutta e unicamente il pianto sconsolato di questa, ecco che anche della sua arte sarò dal mio studio condotta a ragionare un poco.

Gaspara Stampa, come io la vedo dalle sue opere e in quelle di coloro che di lei hanno raccontato, è uno spettacolo sublime e miserabile al tempo stesso: ed è singolare che tale spettacolo si offra a noi nella cornice del tempo in cui ella visse.

Fioriva in tutto il suo rigoglio il magnifico cinquecento italico che parve un gioioso inno pagano in azione: cantava la voce possente di messer Lodovico dalle rive del Po, novellava Matteo Bandello d'una in altra corte, nelle liete brigate in cui le più caste principesse non arrossivano alle sue scurrili istorie: Pietro Aretino, azzimato e letterato ribaldo stillava dalle labbra sensuali il veleno della sua prava natura; Benvenuto che piegava i metalli a forme immortali, passava, gloriandosene, d'una in altra furfanteria: e platee di perfetti cavalieri e di nobili dame applaudivano freneticamente la Calandra e la Mandragola. Su la coscienza collettiva pareva essere disceso come un opaco velo: e l'amore passione doveva parere, in quel tempo, una specie di mito, essendosene quasi perduta la consuetudine, e non essendo l'amore ormai considerato altra cosa se non il più squisito, o anche soltanto il più allegro dei beni.

Madonna Gasparina, la bella fanciulla padovana, si muove davanti a noi, curioso spettacolo!, nella fulgida scena del cinquecento veneziano (la nobile famiglia Stampa d'origine milanese, si era trapiantata da Padova a Venezia) e la prima cosa che ci colpisce è il disaccordo, dirò così, tra l'attrice principale e le altre dramatis personae del mirifico quadro. Poi, appresso, ci colpisce ancora il dissidio tra l'anima dell'attrice ed il suo proprio involucro.

Abbiamo di lei un ritratto, che fu, pare erroneamente, da taluni attribuito al Guercino, da altri a Natalino da Murano, discepolo del Vecellio: e non ci riesce trovare nella bella testa serena e laureata, nell'ampio semi svelato seno, il fisico che ci attendevamo. Pare, nella tela, una bella donna dipinta da qualcuno dei grandi maestri coloristi del suo tempo, una di quelle belle creature ricche di sangue e di linee, dalle belle chiome accese, dalle miti facce serene e un poco animali. Eppure quel giovane, rigoglioso corpo (se non mentisce la tradizione) era la «scorza» di ben sensibile e dolorosa anima!

È in Gaspara una inesausta tenacia d'affetto, un fervore amoroso che tiene del prodigio, un bisogno di dedizione completa, una devozione di schiava, una capacità di sofferenza senza confini: e tutto questo dato in vano olocausto ad un nume indegno: a un uomo mediocre, egoista e brutale, che non la riama! E qui appunto comincia lo studio interessante per la psicologia e forse anche (perdonami, o dolce sorella antica e gloriosa!) per la patologia.

Noi siamo moderni, lo spirito scientifico, di indagine spietata ci possiede: abbiamo bisogno di sapere tutti i misteriosi perchè che ci sembrano offuscati dal dubbio. Così è che noi abbiamo bisogno di sapere perchè tu, Madonna Gaspara, patrizia giovane e bella, che avevi la fronte gonfia di bei pensieri e di vasta dottrina: che potevi leggere Omero nel suo proprio idioma, e Virgilio nel suo: che avesti dal cielo il dono di poterti cullare alla musica delle tue rime: tu che eri fatta per l'amore, che nelle elette radunanze degli orti muranesi, tra i bossi delle ville di Andrea Navagero o di Messer Trifone Gabriello, o nelle serate musicali in casa Veniero, quando apparivi, o deliziavi ognuno col tuo canto sul liuto, destavi tanto calore di omaggi, tanta sete della tua bellezza: perchè tu, nata per essere Signora, volesti essere schiava e martire.

Ho detto volesti; avrei meglio detto: dovesti? Chi lo sa! È proprio così inesorabile il Fato? È proprio superbia degna del celeste castigo il tentare di ribellarsi ad esso? Non ci dice dunque la voce della saviezza che noi stessi siamo sempre un poco gli artefici del nostro proprio destino? Dare tutta la nostra fronte alla furia della tempesta, dare tutto il nostro petto all'imperversare dei colpi: è questa veramente nobile e giusta cosa? O non dobbiamo noi essere un poco arcangeli di noi medesimi, e sguainare la spada fiammeggiante della rivolta contro i cattivi genii che ci minacciano insidia? Ma il combattere è dei validi, dei forti: e Gaspara Stampa, anima piena di fervore, mente alta ed aperta, non è valida forte a combattere contro il suo proprio destino. Ma la causa della sua inazione non va cercata nella sua femminile viltà: no, non è già ch'ella non osi combattere, che il suo cuore vacilli.... no, ella non vuole (dato che il volere sia uno stato di coscienza) combattere: ella si tutta al suo amoroso dolore perchè lo ama, perchè se ne inebria, perchè ha bisogno di acuto soffrire, perchè la sua anima è arsa dalla «sete del martirio»: la stessa sete che data ad un alto, puro ideale avrebbe potuto fare di lei una eroina od una Santa.

Perchè il grande amore, l'amore giunto allo stato di passione (non quello falso, che va pel mondo sotto un nome che non gli appartiene) è una specie di misticismo volto a cose profane, è uno stato di grazia (per modo di dire) concesso a pochi eletti, i quali accettano il terribile e dolce dono con prona fronte, offrono la povera carne loro al duro cilicio, e in attesa del giorno in cui l'Angelo della Pietà venga in loro soccorso, soffrono, tra le strette del serpe maligno — ch'esse credono un Nume — tutte le pene dell'inferno. Ma i veri chiamati, soffrono queste pene con una specie di voluttà.

A questo mondo, così è stato detto, bisogna inebbriarsi di qualche cosa: di bene o di male, di miele o di fiele, d'amore o di dolore, di sorriso o di lagrime: e certe anime fervide, assetate di forti sentimenti, troppo nobili per inebbriarsi di gioia, si inebbriano di sacrificio. Così fu di Gaspara Stampa, la bella fanciulla canora, per cui tutti i letterati, che si credevano poeti, del suo tempo deliravano. E come accade il più delle volte in simili casi, l'uomo in cui ella si era imbattuta nel momento fatale, colui che aveva destato il pathos di cui era materiata la sua anima, era indegno del suo amore!

Ma gli è ch'ella non lo vedeva quale veramente egli era, bensì ornato di tutti i suoi proprii sogni, di tutte le fantasie della sua mente alata, di tutta la forza creatrice d'idealità ch'essa possedeva e che adoperava per adornarne, inconsciamente, la disadorna figura del suo piccolo tiranno. Quello che sappiamo e quello che vediamo di lui non è davvero corrispondente alle mirifiche descrizioni della innamorata Gaspara: l'«obbietto divino», l'uomo dai «fatali lumi», colui ch'ella ha infiorato di delicate corone di sonetti, canzoni, sestine, madrigali, di cui ella ha scritto il bel ritratto:

 

«Chi vuol conoscer, donne, il mio Signore»

 

è tutt'altro che l'eroe sognato dalla dolce e ardente cantatrice! Il conte Collaltino di Collalto, signore di Treviso, castellano di San Salvatore, nella tela del Tiziano ci appare una figura maschile piuttosto comune. Doveva essere quello che si dice «un bel pezzo d'uomo» ma niente di peregrino. Come guerriero, non so ch'egli si segnalasse in nessuna grande gesta: come poeta è appena mediocre: come gentiluomo.... ah, non se ne offenda l'ombra della sua infelice ma pur fervida amante, mi pare ch'egli fosse al di sotto dell'ideale non solo dell'antica cavalleria, ma perfino della moderna! Al cuore non si comanda, questo è pur vero: ma una mancanza così assoluta di sentimento come quella che s'incontra in questo fatuo Capitano, definito, non so proprio perchè da un valente scrittore moderno «un eroe Ariostesco» credo sia difficile trovarla! La povera Gaspara, in quelle carte che piangono di tutta la sua amara doglia, con quella sincerità di accento che, anche nell'errore, la nobilita e ce la rende cara, ci racconta i veri maltrattamenti morali sofferti da quell'uomo insensibile e crudele che l'amò per un poco, così come si ama una bella e celebre donna che può lusingare la vostra vanità; poi subito, sazio, la lasciò per andare in Francia. Tornato in patria e trovatala sempre innamorata e fedele, all'apice della sua gloria, ammirata e ricercata da ognuno, il soldato egoista e brutale a se stesso, come bottino di guerra, il gusto di amarla ancora per un poco (questa volta, pare, meno platonicamente) poi definitivamente sazio, credendo di averle dato anche troppo, cercando nozze più utili e più illustri per casato, sposa allegramente un'altra. E Gaspara ne muore.

Unico merito, e mi par dubbio se merito sia in questo caso, Collalto ebbe la sincerità: giacchè egli non si diede nemmeno la pena di consolare con qualche pietoso inganno quel povero cuore di donna.

Il «cavaliere gelato come la luna» com'ella dice, dovette essere d'una brutalità singolare.

 

«.... egli mi fugge

Io seguo lui....»

 

ella dice: oppure:

 

«Odio chi m'ama ed amo chi mi sprezza

 

indi:

 

«.... io son di fuoco, e voi di ghiaccio:

«Voi siete in libertade ed io in catena,

«Io son di stanca, voi di franca lena,

«Voi vivete contento ed io mi sfaccio

 

Così plorava la povera donna, disfacendosi veramente di vano amore per questo nobile bellimbusto!

Ma ella non si lagnava de' suoi tormenti, chiamati da lei stessa «mar senza fondo», e «largo, profondo pelago d'amore».

Uditela:

 

«Gravata sì dall'amorosa soma

«Che mi veggo morire e lo consento

 

poi:

 

«Ed io ringrazio amor che destinata

«M'abbia a tal fuoco....»

 

ancora:

 

«Io benedico, amor, tutti gli affanni

«Tutte le ingiurie e tutte le fatiche

«Tutte le noie novelle ed antiche

«Che mi hai fatto provar tanti e tant'anni

 

e seguita:

 

«Voi che ad amar per grazia siete eletti

«Non vi dolete dunque di patire

«Perchè i martir d'amor son benedetti!

 

È o non è questa vera vocazione di martirio? Tutti i gusti son gusti....

E di quale amore il bel conte la ricambiasse egli non glie lo nascondeva davvero! Eccone un saggio:

 

«Finchè dall'empio mio signore stesso

«Con queste proprie orecchie dir mi sento

«Che tanto pensa a me quando m'è presso

«E partendo si parte in un momento

«Ogni memoria del mio Amor da esso?»

 

Si può dare di peggio?

Quale donna al mondo non avrebbe sanata la più profonda ferita amorosa da una dichiarazione simile? Eppure Gasparina arde, si accende sempre di più per Collalto, con cieca pertinacia di martire: martire di una falsa religione!

Ho detto ch'ella, somigliante in questo ai martiri di alte idee, ama i suoi tormenti; aggiungo ch'ella è così schiava d'amore che ama i peccati per quello commessi: e con uno slancio di sincerità che sta tra l'impudico e l'eroico, prendendo il mondo intero a testimone delle sue colpe, ci narra in versi veramente caldi e musicali le poche ma intense gioie concessele dal «Crudo Arciero.» Il sonetto:

 

«O notte a me più chiara e più beata»

 

e quello:

 

«Gioia somma, infinito alto diletto»

 

sono, o m'inganno, un monumento di audacia femminile che ha pochi riscontri nell'arte e nella vita!

Così ella ama la sua colpa e non se ne pente, come ama la sua pena e non se ne duole.... dal momento che ha il coraggio, come abbiamo veduto, di benedirla!

Ma con tutto ciò, non era il suo sentimento quella specie di dolce e rassegnato soliloquio amoroso, che si nutre di se medesimo, senz'altro chiedere, che qualche volta germoglia e vegeta lungamente in certe anime delicate, romantiche ed un poco anemiche.

 

«Et si je t'aime est-ce que ça te regarde

 

È il dolce e forte grido di uno di questi ingenui amori che non hanno bisogno di essere corrisposti. No, tale non era il grido dell'ardente Anassilla, che appunto per amare senza essere amata fu condotta a morire!

Povera donna dolorosa, che ebbe forse la sola sincera, appassionata anima di tutto il suo tempo!

Tra la coorte di quei freddi e mediocri petrarchisti in cui stagnava l'onda della lirica italiana: nelle calde visioni di splendide rappresentazioni pittoriche, in cui canta vittorioso il senso e tace l'anima, i soli accenti di passione, la sola parola di non mentito dolore ci è detta da Gaspara Stampa. Viveva forse in lei la oscura anima di Venezia, così, fraintesa da' suoi meravigliosi pittori, che ce la rappresentarono come la città dell'orgia e della gioia, mentr'essa racchiude nelle sue linee e ne' suoi colori un sogno di mesta e pensosa voluttà?

I costumi, le feste, il lusso, la vita de' Veneziani, entrarono negli occhi e nello spirito de' suoi maestri coloristi, i quali ne colsero l'esteriorità trionfale e luminosa; ma nessuno, se non Giorgione, sentì che le vecchie pietre baciate dai verdi flutti non dicono all'uomo cose di gioia!

Se è vero che l'architettura è «musica pietrificata» quale musica è, per esperti orecchi, Venezia? Non già musica gaia e serena che dia a noi il riposo e la gioia, come ci danno le linee rette, semplici e solenni dell'arte greca: linee che sono in armonico accordo con quel limpido cielo, con l'olimpica serenità dello spirito attico.

Arrigo Boito ha alcune battute descrittive nel sabba classico del suo Mefistofele, che sembrano un pezzo di cielo greco musicato!

Ma a Venezia, il marmo che perde la impassibile solennità delle linee, e s'inarca, si piega, si raddolcisce, si frastaglia, tormentato fino al delirio dalle carezze dell'artefice, che si marita all'oro ed al colore, che si sforza di diventare luce e lascia dappertutto penetrare il cielo, mentre l'acqua verde e muta lo abbraccia, striscia a' suoi piedi, s'insinua tra le sue bellezze, bacia le porte istoriate, gitta spruzzi leggeri fin su a' balconi trilobati, serpeggia eterna, piena d'ombre o di scintille, nel suo umido, multilingue bacio; il marmo qui non dice a noi, nella sua grande canzone senza parole, cose di serenità. Ma si levano su dalle vecchie pietre e dalle verdi acque accenti profondi di passione, voci di voluttà dolorosa, sorrisi misteriosi che somigliano al pianto.... No, l'anima di Venezia non è in un sardanapalesco convito di Paolo, in alcuna delle bionde e opulente cortigiane dipinte dal re del colore, Tiziano!

Noi ne troviamo invece qualche fraterno accento nell'anima fervida e musicale della infelice Anassilla: anima alta e luminosa come le guglie de' templi veneziani, profonda e immutabile come le onde della laguna!

Le gaie costumanze che facevano allora di Venezia una continua festa, non valsero ad allietarla, a distrarla mai dall'idea fissa del suo amore per l'infedele lontano.

Dalla sua stanza che mi piace figurarmi aperta per una trifora aguzza, in cui il marmo gareggi in sottili spume coi merletti di Burano, su la laguna, ella non ode le allegre voci del popolo tripudiante: è forse la festa dell'Ascensione.... è forse l'incoronazione di una Dogaressa.... Gaspara non se ne cura; ha lasciato che Cassandra, la sua dolce sorella, e il suo minor fratello, un pallido adolescente che avrà breve vita, vadano a confondersi tra la folla, in cui patrizii e plebei sono uniti in un solo gaudio: ed ella sola, nella remota stanza, guarda il cuoio dorato delle pareti, i tappeti di Arras, il liuto che le giace a lato, il muso aguzzo del suo levriere, e vede dappertutto, come fosse veramente inciso ne' suoi occhi umidi e nel suo povero cuore, la figura del conte Collaltino di Collalto!

Invano un recente «Aldo Manuzio» le posa aperto sul grembo, dai vasi policromi di Murano i fiori de' bei giardini veneziani olezzano, l'ultimo sonetto di Monsignor Della Casa, il solo che in quel tempo desse al sonetto ali per glorioso volo, non ha consolato la sua malinconia e muore tra le zampe del levriero rapace.... Sul tavolo a tarsie, il Sogno di Polifilo del monaco Francesco Colonna, mostra le aperte pagine, nitidamente incise, invano....

Ella sorge dall'alta seggiola dalla spalliera in forma di lira, come quelle che vediamo nelle tele del Carpaccio, si appressa al balcone.... e pensa che laggiù, nell'acqua verde del canalazzo, troverebbe forse il riposo....

Eppure è bella, e ride la sua giovinezza nelle linee armoniose del suo corpo, mentr'ella, sugli alti zoccoli dorati, in una lunga veste pavonazza, adorna di zibellini, cammina per l'ampia stanza, sfogando il suo inutile amore nei ritmi consolatori del verso!

Spettacolo sublime e miserabile al tempo stesso!

Tanto fervore amoroso, tanta fedeltà, tanta forza di sacrificio per così meschino ideale! Eppure la sincerità e il vero soffrire di quella donna la salvarono sempre dal far sorridere di lei i prossimi e i lontani; e le lagrime della pietà non cederanno mai luogo in noi al cattivo sorriso dello scherno, davanti al vivo sgorgare del sangue di quel gran cuore!

A questo mondo la sofferenza è necessaria e fatale: dovunque spunta un desiderio, sta in agguato un dolore: ma meglio e meno tristi sono le sofferenze che ci vengono da cause nobili e degne....

Ma forse che siamo noi a scegliere le cause e non siamo noi invece scelti da quelle? Questo è il mistero. E forse che se Collaltino di Collalto fosse stato un buon diavolo, un amante fedele e devoto Madonna Gaspara sarebbe stata una donna felice? Ne dubito. Ci sono anime che si alimentano unicamente di dolore e che se dolori non hanno, sono capaci perfino di inventarli!

Non già ch'io voglia scusare il signore di Treviso, che resta sempre a' miei occhi, e credo anche a quelli degli altri, l'opposto di un gentiluomo e di un galantuomo, ma mi ripugna di pensarlo il vero e solo fattore dello stato d'animo di una valorosa donna che onorò il nostro sesso, a malgrado del suo errore e della sua adorazione per un falso e bugiardo Nume.

Ed ora mi piace por fine al mio dire con l'epigrafe che Gaspara per se stessa scrisse e che volle incisa su la tomba che l'accolse, morta d'amore e di dolore appena trentenne:

 

«Per amar molto ed esser poco amata

«Visse e morì infelice, ed or qui giace

«La più fedele amante che sia stata.»




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