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Eugenia Codronchi Argeli (alias Sfinge) Il femminismo storico IntraText CT - Lettura del testo |
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MARIA ANTONIETTA.
Ha detto Guyau «L'art c'est de la tendresse»: e la tenerezza è quella che mi guida, mentre la mano mi trema di commozione, a tracciare un profilo di Maria Antonietta, quale esso fluttua nella mia mente, e ch'io vorrei saper rendere visibile altrui, puro di linee, delicato di colore, sintesi adorabile di tutti i ritratti ch'io ho fino ad ora veduti di lei, fatti dalla penna o dal pennello, e pure da tutti un po' dissimile. Una intera letteratura ha fiorito e fiorisce sopra Maria Antonietta, la quale ha dopo morta, da un secolo e più, adoranti idolatri, detrattori crudeli e instancabili: così, come ebbe in vita. Nè da viva nè da morta, sicuro indizio, questo, del suo valore, ella non inspirò mai l'indifferenza: ma amore profondo o immenso odio: e sul suo bellissimo capo biondo, benchè staccato dal corpo, durano ancora le tempeste: almeno quelle della discussione. Eppure a me sembra che da tutta quella letteratura, la vera, la sincera figura morale di questa donna non sia ancora balzata fuori, veramente viva, fin qui. L'odio ce ne ha date caricature mostruose ed assurde; gli apologisti volendo ad ogni costo difenderla hanno fatto, a somiglianza degli avvocati di tutti i tempi, della retorica spesso inutile, qualche volta dannosa; sì che, volendo fare di lei una donna perfetta, pura di tutti i difetti, ricca di tutte le virtù, l'hanno messa fuori dell'umanità: e, ciò che di più m'accora, le hanno tolto il suggello della sua personalità adorabile. Maria Antonietta non basta adorarla religiosamente, ammirarla e compiangerla (dei detrattori mi piace non occuparmi) sui documenti della sua sventura, per poterla imparare a conoscere: bisogna amarla. Amandola molto, amandola teneramente, sarà assai più facile il conoscerla, il penetrare l'intima essenza di quella creatura che l'oscuro fato destinò ad essere olocausto di secolari errori alla vindice sete dell'umanità che apriva gli occhi alla luce, frammezzo alla nube di sangue di quell'«omicidio collettivo», socialmente necessario, che fu la Rivoluzione francese. Per me, che pure ho l'anima aperta alle divine luci del diritto e della libertà, la morte di Maria Antonietta, e più ancora della morte, il suo martirio, è e sarà, nei secoli, la macchia di quell'epico periodo che inizia la «novella storia». Ma essendo lontano dal mio proposito di fare qui della critica storica, così concentro subito le mie facoltà, che vorrei poter dire pittoriche, sul profilo che, con molta audacia, guidata dalla tenerezza, intraprendo a tracciare. Ho detto «facoltà pittoriche», e non so perchè, mi piacerebbe invece dire «musicali»: chè l'imagine di Maria Antonietta desta in me pensieri che oso chiamare melodici, e che un'armonia significherebbe assai meglio della parola. La parola ha troppa precisione di contorni, troppa inesorabilità di definizioni: e certe imagini dovrebbero, a parer mio, poter apparire sopra uno sfondo indeciso, un poco evanescenti, fluttuanti fra la verità ed il mistero, somiglianti alla luce di quelle aureole che circondano il capo dei «Santi»: esse sono tanto belle che fanno parte dell'ultra definibile. Proprio così Maria Antonietta. Composta di luce chiara, d'ombre azzurrine, di profumo e di armonia, di dolcezza e di forza, di sorriso e di pianto, di ecloga e di dramma: certo, di divina poesia. Ma cerchiamo che il fantasma si plasmi, per un momento, tra le nostre mani accarezzanti (dico nostre, non è vero, lettrice?) e assuma la sua forma integrale: esso ci darà, se le nostre carezze avranno il potere di compiere il prodigio, una grande, una freschissima gioia.
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Maria Antonietta Giuseppina Giovanna di Lorena, nacque (il 2 novembre 1755) «delfina di Francia»: chè a ciò la votava la materna ambizione dell'Imperatrice Regina Maria Teresa, E l'abate italiano Pietro Metastasio prima, l'abate francese Vermond più tardi, ebbero la missione di educare quel giovane spirito sì come quello di una «principessa francese». Così i germi della dolce sentimentalità tedesca, i quali, a parer mio, avrebbero, se coltivati, formata l'essenza dell'anima di Maria Antonietta, furono dalla puerizia sempre soffocati, inariditi in lei, da persone e da avvenimenti: e perfino il Dovere dovrà immischiarsene, un giorno! Invece certa sua amabile tendenza a un motteggiare onestamente birichino, fu incoraggiata, stuzzicata nel suo spirito dal suo precettore — Vermond — nel quale accoppiavansi un colto e fine intelletto a un'anima arida di cinico. Niuna seria coltura le fu impartita; invano folgorava di pura luce l'intelligenza giovinetta dell'arciduchessa! Ma a Schönbrunn si pensava che l'«Occhio di Bue» dovrebbe accogliere in un giorno non lontano una delfina tanto adorna di tutte le grazie esteriori da offuscare il ricordo delle «ospiti» che prima vi avevano emerso: e chi pensava a inorridire se le «ospiti» del cui ricordo la vergine imperiale doveva trionfare, fossero le «favorite»? A quindici anni la più giovane figlia di Maria Teresa fu giudicata matura per il grave evento: e un bel giorno di maggio ella abbandonò per sempre i viali profondi del suo Schönbrunn dove ancora risuona l'eco giuliva delle sue risate infantili: e tutti piangono mentr'ella s'avvia, tutti sono dolenti, come per lo sparire d'un dolce miraggio: solo l'Imperatrice Regina, pallida e muta, non piange: la sovrana ha trionfato su la madre.
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La prima volta ch'io mi vedo balzare nella mente Maria Antonietta, viva di tutto il suo fascino, di tutta la sua balda giovinezza, e ch'io vedo linearsi la sua propria «autonomia», è su l'isola del Reno, nel giorno in cui deve aver luogo la solenne cerimonia della «consegna». Ella appare: e tutta la Corte di Francia andata ad incontrarla è tosto sorrisa dalla sua grazia. Eccola su la soglia della sua nuova patria, già presa nelle spire di quel rigido cerimoniale che sarà l'eterno oggetto del suo odio e de' suoi motteggi, ma cui ella sa subito sottoporsi degnamente, di così «grande stile», con quel suo portamento di testa che diventerà celebre, con quella andatura ch'è come un ritmo di gioia, coronata di quella gran chioma rosseggiante, alta su la fronte bianca come l'aurora. Poi, in un'altra soave visione io la rivedo sotto gli archi di verzura della foresta di Compiègne, colà dove avviene l'incontro dei due corteggi nuziali. Da una berlina di gala, di cristallo e d'oro, scende il «Cristianissimo Re» in persona, che accompagna il Delfino. Allora la giovinetta sposa si avanza, e con atto «regalmente umile» si prostra ai piedi di Luigi decimoquinto. Al vecchio libertino si inumidiscono gli occhi, e durante tutto il viaggio profonde al «seguito» parole di ammirazione fervente per la nuova nipote. (Era buon conoscitore lui!) Ma al castello della «Muette» dove giungono per riposare, sorge la prima nube sul cielo della così bene auspicata gioia famigliare. Il vecchio Re impone alla Delfina la presentazione della contessa du Barry: e la vergine quindicenne, poc'anzi tutta sorriso, assume un contegno così imperialmente glaciale, che la plebea move lagnanza al suo signore e schiavo, contro la «petite rousse!» Petite rousse! Dolce bambina! Da poche ore eri entrata sul suolo di Francia, e prima delle rose ritrovavi le spine!
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Maria Antonietta fu destinata a soffrire dell'impopolarità di Choiseul, il ministro che «fece» il suo matrimonio: e lo spettro della «Autrichienne» seguirà sempre, prima nell'ombra, discreto, poi a poco a poco ingigantito come da mostruosa fata morgana, la delfina da principio, più tardi la regina di Francia e di Navarra. Ma ella era fatta per la gioia. Frammezzo ai torbidi intrighi di quella Corte, fradicia di corruzione al di dentro, così scintillante di splendore al di fuori, tra il cupo e ancora lontano minacciare dell'uragano, s'ode, sì come fresco scrosciare d'acqua cristallina, la giovanile risata di Maria Antonietta. Rapita all'austera Corte di Vienna, alla tranquilla solitudine di Schönbrunn dove dai primi sogni dell'adolescenza la sua pura fronte era stata sorrisa, ella, la pianta tenerella, si acclima ben presto all'atmosfera di Versailles, dove porta il profumo della sua grazia ninfale. La lunga teoria di pallide e mute Regine, di splendide e sfrontate cortigiane, è travolta nell'oblio: a Versailles, Maria Antonietta, con la piccola orma del suo piede, appose il suggello che lo asserviva all'unica sua sovranità. Ma pure ammettendo e riconoscendo che quel luogo e quel momento storico ebbero in lei una Regina che vi si adattava come una gemma nel castone del suo anello, è assurdo non vedere che ella, la grande Calunniata, non portò nessun contributo peggiorativo nell'ambiente in cui visse e cui presiedè, prendendolo quale esso era. La società francese del secolo decimottavo: quella società che, come ha detto Taine, «era quasi tutto, mentre lo Stato era quasi nulla»: ecco la grande colpevole, quella in cui si devono cercare le cause, ed anche le attenuanti, degli errori della giovane Regina. Di essa Talleyrand ha detto più tardi «chi non conobbe la società francese prima dell'89 non conobbe la vera gioia di vivere»: società di «decadenti», di esseri corrotti a forza di raffinatezze, di vita molle e gioiosa, dimentichi dell'alta responsabilità di chi rappresenta un glorioso passato, da cui il denaro, sudato dal popolo oppresso, era gettato con una spudoratezza consentita solo dalla sincera incoscienza. Sì che, per un esempio, il cardinale di Rohan aveva tutte le batterie delle sue cucine di argento massiccio: e il principe di Conti faceva, come epilogo di un intrigo galante, ridurre in polvere un brillante di parecchie migliaia di lire per seccare l'inchiostro di un biglietto per una dama! E allora, perchè ci sorprenderà soverchiamente che la Regina, avendo un giorno regalato al piccolo delfino (così lungamente sospirato dal suo cuore assetato di maternità!) una carrozza tutta d'argento dorato, incrostata di rubini e zaffiri, dica, con la sua aria di candore: «Io devo pure spendere il denaro che il Re mi dà: non posso mica conservarlo, non è vero?» in queste parole è tutta la coscienza di doveri sociali di Maria Antonietta! Ma se, quale ella fu, spendereccia, un po' frivola, spensierata, un po' civetta, di quella civetteria senza malizia «per piacere a tutti, non già a qualcuno» come diceva il principe di Ligne, noi siamo tentati qualche volta di biasimarla, di tenerle un poco di broncio.... ebbene, ciò non ci riesce: e non sappiamo nemmeno indispettirci con noi medesimi della nostra debolezza, proprio come avviene se ci proponiamo di correggere un bambino che abbia fatto qualche monelleria e che la monelleria sia così adorabile da mutare, nella bocca nostra, la correzione in uno scoccante bacio!
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Vediamola dunque un poco da presso, questa bionda Regina, seguiamola in qualcuna delle sue giornate, che ce la svelino ad ora ad ora, per mezzo de' suoi gesti visibili, nei diversi momenti della sua vita. È domenica, ella si reca alla messa solenne, passando per la grande galleria «degli Specchi» dove hanno luogo, rapidamente, sul suo passaggio, le novelle presentazioni. Gli aspettanti, ansiosi, febbrili di vederla, sono disposti su due file: la più altera nobiltà di Francia, forestieri «di distinzione», celebrità di oltremare e d'oltremonte. Ella esce da' suoi appartamenti, preceduta, seguita dalla sua numerosa corte: una magnificenza! Ecco la gravità superba della prima dama d'onore, la Contessa di Noailles, che la Regina ha battezzata «Madame l'Etiquette»: ecco la bionda e soave Maria Luisa di Savoia Carignano Principessa di Lamballe, che cela nel gracile petto l'anima di un'eroina; e la bruna e sorridente Giulia di Polignac, impareggiabili quando balla il minuetto; e tutto un drappello di gentiluomini invitti nell'arte di arrotondare un inchino o di comporre un madrigale, squisiti gran signori della licenza: e il gaio sciame dei giovani paggi e le uniformi magnificamente scintillanti. Tutto un fulgore.... Ma eccola.... non ci sono più occhi che per «lei». La sua testa sovrasta quelle di tutte le altre dame, un ciuffo di piume color di rosa si erge su la chioma incipriata e si agita al ritmo di quella andatura ondeggiante e leggera ch'è forse il più piccante aroma di tanta bellezza: l'abito è di tessuto argenteo a tralci di rosei oleandri, alcuni fili di brillanti, puri come goccie di rugiada, girano intorno alla «torre d'avorio» del suo collo. Ha il portamento di testa delle «grandi occasioni»: quel portamento di cui essa medesima si diletta a chiedere «se le dia l'aria insolente»: e un profumo delicato l'avvolge e l'accompagna, lasciando un solco inebriante dovunque ella passa.... Ella è così idealmente, così suggestivamente «Regina» che ognuno vede splendere il serto.... ch'essa non porta, che ognuno cerca lo scettro tra le piccole mirabili mani che recano il ventaglio e l'inseparabile «lorgnon». Eppure, mentre passa, diffondendo tanta luce di regalità, squisita di cortesi parole ad ognuno, l'odiatrice della etichetta, la motteggiatrice sottile si palesa: chè essa coglie al volo tutto quanto di comico le offre la magnifica assemblea, e col viso composto alla maggiore dignità, strette le piccole labbra vermiglie e un po' sporgenti, dice a bruciapelo a' suoi intimi, agli «Eletti» qualcuno de' suoi così piacevoli motti..., che compromettono, fino allo spasimo, il contegno di chi li ascolta! Ella ha una voglia matta di ridere, sente di rappresentare una «parte», disprezza in cuor suo quel cerimoniale.... ch'è pure così necessario, sorta di rito di una religione: e non s'accorge, la deliziosa incosciente che quel suo sorriso schernitore contribuisce, in qualche modo, alla grande opera di fatale demolizione.... Ma non funestiamoci ancora.
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Mi piace di sorprenderla una volta nel suo salotto particolare, il celebre «Cabinet de la Reine». È quello il solo rifugio della sua intimità, il piccolo paradiso di colei che questa amò sopra tutte le cose, e che invidiava la sorte delle sue amiche (ella sentì l'amicizia come poche donne al mondo e come forse nessuna Regina!) solo perchè non avevano da sopportare il tedio enorme del trono! Il salottino squisito, ch'ella medesima ha fatto arredare, è tutto bianco a lievi ornamenti d'oro. Una folla di poltrone di tutte le forme lo popola, dandovi una «fisonomia» di dolce famigliarità; tra tutte, la «bergère» profonda che accoglie per lunghe ore la bella persona serpentina della padrona di casa. Lì ella è solamente una padrona di casa, una dolce e gaia signora. Ecco la sua arpa, ch'ella tocca con tanta grazia, ecco la grande cesta contenente le tappezzerie che occupano instancabilmente le sue belle mani così sapienti nell'opera dell'ago; ed ecco, nel posto d'onore, il pianoforte, al quale siede un vecchietto che tutti trattano come un nume: è il maestro ed il protetto insieme di Maria Antonietta: è Cristoforo Vilibaldo Gluck. L'aria ch'egli in questo momento accompagna alla regale discepola è «che farò senza Euridice» dell'Orfeo ch'ella canta col più caldo accento della sua voce grave e pure soave. L'effetto di quella squisita audizione spegne, per alcuni istanti, la frivola gaiezza della eletta radunanza, che a me sembra veramente vedere col pensiero evocatore. Come sottili e lunghi sono i busti delle dame, sui gonfi guardinfanti! Che pallide soavità di broccati! Che fronti superbe e che rapaci sguardi sotto la cipria, hanno i cavalieri! Quanti fiori, sui tavolinetti carichi di miniature di Lebrun e di Vertmüller, di avorii preziosi, entro i vasi di Sèvres e di Venezia!... Tolti alla ricca biblioteca che occupa un altro dei salotti intimi, sono qua e là alcuni libri, i libri ch'ella predilige: forse Marianna di Mariveax , forse la Nouvelle Héloise.... o forse qualcuno dei libri un poco scurrili che erano di moda in quel tempo (e non soltanto in quel tempo.... è vero?). Ma che c'è? La romanza è finita: e perchè ride così forte la Regina, celando il viso lunghetto e bianco come un giglio dietro il ventaglio? «Baron, quel mauvais ton!» ella ha detto, minacciandolo col dito, al terribile barone di Besenval, il maturo impenitente galante, che ha l'arte di dire, facendosele perdonare, le più atroci cose. E la sua risata vola per l'aria, confondendosi col profumo della essenza «à la maréchale» e all'eco dell'ultima cadenza della divina melodia di Gluck! Intanto, in piedi, dietro le poltroncine delle dame, con gli occhi fissi in «lei» mi pare di vedere: qui il presentuoso, l'audace don Quan, colui che l'innocente capriccio della Regina ha così insuperbito di folli speranze, il proprietario della famosa penna di airone bianco che Maria Antonietta gli ha tolto dal cappello per ornarne l'alto edificio della sua acconciatura: il famosissimo duca di Lauzun: là il principe di Ligne, il rassegnatissimo adoratore, il vecchio «don Guritano» della Corte: e muto, pallido di commozione, cercando disperatamente da «lei» la elemosina d'uno sguardo, il biondo cavaliere scandinavo, addetto all'ambasciata di re Gustavo, il conte Axel de Fersen. E il mio pensiero evocatore vede che il chiaro sguardo della donna regale, incontrandosi con quello di lui, si tempra d'una dolcezza intensa.... se pur fugace.... che basta a colmare di gioia un veramente nobile cuore di eroe sentimentale. La femminilità, nel senso più ampio e più completo, si personifica in Maria Antonietta: quella femminilità, che rasenta qualche volta una sorta d'infanzia dello spirito, ma che pure saprà sublimarsi in atti di elevazione quasi super-umana: e nell'uno e nell'altro caso presieduta sempre da una assoluta sincerità nell'operare. Ella ha un'intelligenza gagliarda se non nutrita di forti studi: e sortì da natura un gusto finemente squisito che rare volte la traeva in errore. Amò e protesse gli artisti, ammettendone alcuni nella propria intimità, facendosene sinceri amici: e Beaumarchais, Voltaire, Lebrun, Grétry, Delille, Gluck ebbero da lei favori ed onori. Il teatro fu, nel campo dell'arte, la sua più viva passione: e Grimm ci racconta che anche come attrice ella dimostrava singolare attitudine: era un gioiello di grazia, a modo di esempio, nelle vesti di «Rosina» del Matrimonio di Figaro. Era pietosa e benefica, in quel tempo in cui nulla si faceva per il popolo sofferente, ed era sempre pronta a intercedere, con lieto cuore, presso il re, a favore di qualcuno de' suoi charmants vilains sujets come scherzosamente ella chiamava i francesi. Anche nella sua difficile parte di moglie, ella dimostra sempre un fine tatto, una simpatica e tutta femminea amabilità di carattere senza angoli e senza rancori. (È curiosissima, a questo proposito, la sua corrispondenza privata con Maria Teresa). Quantunque, evidentemente, ella non possa amare il re d'amore, ella è per lui una buona camerata nella lieta fortuna, una fedelissima alleata, la sua migliore amica nella sventura. Non può ammirarlo come uomo, ma sa rispettare in lui il padre de' suoi figli; non ha fiducia in lui come Re, ma saprà obbedirgli un giorno (trasportiamoci con la coscienza a un secolo fa) come all'unto del Signore, sacro per diritto divino. Ma certo quelle due nature non furono fatte per intendersi, per amalgamare le loro tendenze. Quella giovane donna così piena di gagliardo sangue, ha bisogno di vivere, di amare, di gioire. Tutti i suoi sentimenti sono esuberanti. I suoi piccini essa li adora: ne è la prima maestra, la compagna di monellerie, la dolce, instancabile infermiera: le sue amiche colma a piene mani di favori, giungendo perfino a suscitare critiche e scontenti, nella Corte e fuori di essa: alla principessa di Lamballe scrive: «mon cher cœur»; Giulia di Polignac ammette alle confidenze di una sua eguale, invitandola persino a tenzoni.... di «pugilato» in cui, vincitrice o vinta, si sollazza infantilmente, ridendo fino alle lagrime! Certo, in tutta la sua vita, essa porta l'impronta della sua inestinguibile giovinezza di spirito, la quale appare, a chi la intenda, rinfrescante tutto intorno a sè, irrorante come il puro zampillo di cascata alpina. E quasi ci duole che il troppo violento disequilibrio tra la visibile folle gaiezza che irraggia la vita di Maria Antonietta per lunghi anni, e la maestà dolorosa della sua lenta agonia, ci induca a supporre nel fondo di quella psiche, anche nel periodo della gioia, qualche cosa di profondo e di invisibile, tenuto nell'abisso dell'anima per opera assidua di ferma volontà.
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Ma riprendiamo, ancora per un poco, il nostro inseguimento, e sorprendiamo la Regina in una delle sue maggiori follie, di quelle su cui la calunnia ha tramate le più mostruose fiabe. Una delle più sincere passioni della giovane sovrana è il ballo: ella ballava per l'unica, immensa gioia di ballare, giovanilmente, spensieratamente, con la sincerità d'entusiasmo che metteva nelle sue passioni, danneggiando spesso se medesima, presso i malevoli, con quella sua fatale imprudenza che le faceva dire, per esempio, al ministro della guerra di non allontanare da lei certo reggimento che le forniva ballerini impareggiabili; o la induceva a concedere l'ambito onore di ballare con lei a giovani stranieri, espertissimi nella danza, piuttosto che a personaggi di qualità che avrebbero avuto il diritto di essere preferiti.... ma che ballavano come orsi! Così nascevano le leggende: per esempio quella dei «cavalieri britanni» preferiti dalla Regina! Anche nel ballo ella metteva un suo fascino amabilmente personale. Orazio Walpole diceva: «On dit qu'elle ne danse pas en mesure: mais alors c'est la mesure qui a tort!». E dove si svolgono le note d'un minuetto o d'una gavotta, ella accorre, inebriata come dall'onda di un liquore che monti sottilmente al cervello.... Questa volta ella è ad un ballo mascherato, nella sala dell'ambasciatore del re di Sardegna. Ella ha celata la sua alta persona in un ampio «domino» di raso bianco, perfettamente uguale ad alcuni altri indossati dalle sue dame: e forse il meditato inganno riuscirebbe.... se la sua andatura («incessu patuit dea») non la svelasse, almeno a chi la conosce da vicino. Eppure il marchese Caracciolo, inviato del re di Napoli, con ingenuità che fa torto alla sua penetrazione d'italiano e di diplomatico non riconosce la profumata dama bianca, che lo mette alla disperazione, che accende il suo sangue, pronto a divampare come il fuoco che rugge dentro la terra, laggiù nella sua patria lontana! Oh come è giulivo lo scoppio d'ilarità della Regina, quando finalmente si rivela! Che giovanile malizia soddisfatta le brilla nel chiaro sguardo! Nulla di più semplice, di più innocente, è vero? Nulla di più graziosamente «settecento». Eppure quanto germogliare di male erbe della critica e della calunnia! Ella, l'incosciente, non faceva alcun vero male ma non comprendeva, e nessuno sapeva farle comprendere una cosa: che quelli erano tempi in cui la Regina di Francia non aveva più il diritto di ridere!
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Adesso siamo a Trianon. «Ici je suis moi» ella diceva: e qui mi piace pensarla, la creatura adorna di tutte le grazie e materiata di sentimento, colei che amò così appassionatamente la Natura e che sarebbe stata degna d'essere generata dalla fantasia del divino sentimentale della voluttà, Gian Giacomo Rousseau. Ella fuggiva, è la parola esatta, fuggiva da Versailles, dove la regalità l'opprimeva come una cappa di piombo, e si rifugiava a Trianon, il suo piccolo regno, fatto di verde, di sole, di limpida acqua scrosciante. Là rivestiva la sua bella persona di lino candido, il celebre «linon» di Maria Antonietta, il lieve fazzoletto s'incrociava sul colmo petto, si annodava dietro la vita prodigiosamente sottile: un largo cappello di paglia conteneva il «rivol d'oro», e la «badine» era il bordone dell'augusta pellegrina. Oh Lawrence! Nulla mai tu creasti di così squisito! Là, tra i boschetti che si trasmettevano l'eco gioconda della sua sonante risata, nel bel palazzetto di marmo bianco dagli svelti colonnati, tra le bizzarre creazioni della sua vivida fantasia, ella era veramente «se medesima», ella poteva finalmente trovarsi sola con la propria anima. E chi sa quante volte alla risata avranno tenuto dietro le lagrime, in quella mobile e così femminea natura; colà dove, nel raccoglimento, poteva trovarsi faccia a faccia co' suoi disinganni di moglie, con le ansie della maternità, e forse coi tormenti d'un sentimento divino, a lei dal dovere vietato, eppure così necessariamente germogliante nella sua anima, così ricca di rigoglio affettivo! (Oh segrete carte del conte di Creùtz ambasciatore di Svezia, al suo Re, narranti le mal trattenute lagrime della regina di Francia e di Navarra, allorchè Axel de Fersen parte per la guerra d'America!). E là, in quel luogo, nel dolce asilo della sua intimità, ella doveva passare l'ultima giornata, se non felice, chè i rumori dell'uragano erano ormai minacciosi, almeno tranquilla, della sua breve vita. Ella era là, il memorabile 5 d'ottobre 1789, e leggeva entro la verde grotta della sua predilezione, presso un mormorar d'acqua, quando fu segretamente avvertita da un messo del Re, di rientrare subito a Versailles. E qui l'ecloga finisce, e comincia il dramma.
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Nell'ultimo periodo della vita di Maria Antonietta, che comincia con l'entrata alle Tuileries e finisce il 16 ottobre del '93, giorno della sua morte, (torturante agonia morale, unica nella storia!) quella psiche sembra sdoppiarsi, e dar luogo ad una nova persona morale che non si era stati indotti a prevedere. Direi quasi che il vanire della prima visione è triste per l'egoismo estetico che squisitamente si dilettava della dolcissima creatura.... se non pensassi che bisogna ora intraprendere il rapido schizzo del triennio che sublima Maria Antonietta con «le ginocchia della mente inchine». Il dolore diede a lei una nuova coscienza. Le facoltà sonnecchianti nel suo essere si svegliano, il sangue di antichi dominatori e di eroi freme nel suo sangue. Ella che aveva fino ad allora «rappresentato la parte di Regina», avendo i segni della noia su la bella fronte, si afferra al trono che deve esser quello di suo figlio, con le bianche piccole mani, diventate rapaci. Questo pensiero dominante, somigliante ad istinto di leonessa che protegga il suo nato, le farà perfino dimenticare, ma solo all'ultimo momento di regalità, d'essere quale essa fu sempre (e i documenti della sua corrispondenza col fratello lo provano) una buona francese. Tra il crollare di vecchie istituzioni, che la forza della nova civiltà abbatteva, presso un fantoccio di Re, che avrà il solo merito di saper morire, la sola energia, la sola mente virile è quella della Regina: lo ha detto il gran ciarlatano dalla meravigliosa eloquenza, il conte di Mirabeau. Anche tra gli uomini della rivoluzione, che sarà costretta ad avvicinare, ella opera un irresistibile incanto, non può essere messo in dubbio. Il suo incanto, che si effonde, come fluido magnetico, dalla sua persona, è il leit-motif che l'accompagna per tutta la breve vita; leit-motif di gioia, che mi piace tanto di ritrovare in lei, come un'antica e cara conoscenza, anche nei momenti solenni, anche, perfino, nell'epilogo del triste dramma! La seconda manifestazione della duplice personalità di Maria Antonietta, che integra la sua figura morale fino ad elevarla all'eroico della vita, adombra, intenebra, assorbe quasi la regina di Versailles e di Trianon, così cara a me a malgrado (non forse per essi?) de' suoi difetti: così che, quando m'imbatto ancora, ne' giorni del suo cordoglio, in certi tratti che mi fanno esclamare: «eccola, è lei!», io godo ancora sinceramente, e mi riesce ancora di sorridere, in mezzo alle lagrime!
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Le ultime evocazioni ce la mostrano nelle diverse tappe, le più memorabili, della sua «Via della Croce»; e vedremo campeggiare la sua figura, sul lugubre quadro, nero di minacce, rosso di sangue, avvolta sempre da un fascio di pura luce: luce non più soltanto di grazia, ma di eroica virtù. Il 5 d'ottobre, la prima tappa verso il Calvario; il popolo scatenato, povera gran bestia oppressa da secolari sofferenze, urla sotto le finestre della Reggia, minaccioso, terribile. Le furibonde femmine mettono nel tumulto la nota più crudele: l'odio per l'«Austriaca» eccita i nervi di quelle martiri secolari, empie di bestemmie le loro fameliche bocche. Si vuole che la Regina si presenti al balcone.... non già, ahimè, per applaudirla freneticamente, come in altri tempi.... Ella appare, nel gruppo biondo de' suoi figliuoletti! «Pas d'enfants!»: è il grido terribile, gravido di minacce. La famiglia, la Corte, tentano trattenere la Regina, che un così palese pericolo minaccia. Ma ella si svincola e, sola, nel grande vano della finestra che la incornicia, illuminata da un raggio di sole, superba e magnifica, si presenta al popolo urlante. Oh duplice, magico potere della bellezza e della forza interiore! Alle maledizioni.... succede uno scoppio di deliranti applausi! Ma nel chiaro sguardo di Maria Antonietta passa l'ombra del primo presagio di morte....
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Peggiore, più amaro delle brutali manifestazioni popolari, è al cuore della Regina lo stato di semiprigionia alle Tuileries. Quasi tutta la sua Corte è allontanata da lei, sono lontani i suoi migliori amici, intorno a lei sono soltanto nemici e spie. Ma anche di tra costoro, di quando in quando, a mitigare il suo misero stato, si elevano spontanei omaggi, nobili attestati di devozione.... Oh grave momento della fuga a Varennes! Salvezza forse compromessa dai troppo lunghi preparativi di viaggio della Regina! Oh donna forte e soave che saprai morire come un eroe dell'antica Grecia, ma non fuggire verso la salute senza che il nécessaire da viaggio, di legno di rosa, incrostato di avorio e di argento, pieno de' più dolci profumi fosse allestito! Ma quel viaggio ti provò, se non altro, o Regina, la devozione senza limiti di due uomini: quella del biondo cavaliere scandinavo, Axel de Fersen, venuto dal suo paese di gelo, col suo cuore di fuoco, per rapirti alla Francia che non ti amava, egli che ti amava tanto! e quella del giovane deputato dell'«Assemblea», Barnave dal nobile cuore, il nemico della monarchia, che, pure ubbidendo al dover suo, che gli comandava di riportarti al luogo del supplizio, si vota a te, tuo cavaliere per la vitae per la morte! Sicchè tu esclami, dopo avere porta al plebeo la tua bianca mano: «Si jamais je redeviens Reine, le pardon de Barnave est déja écrit dans mon cœur». E risali le scale del tuo «primo» carcere: le Tuileries. Là ella è divenuta il ministro degli Esteri di Francia: ed è, non esito a ripeterlo, per una figlia dei Cesari, nata nella fede del Diritto divino, per una coscienza di Regina d'un secolo fa, un «ministro» liberale. Le lettere di lei a suo fratello Leopoldo II lo dimostrano: essa rifiuta, fino quasi all'ultimo, da lui, l'aiuto armato, combatte la politica così detta dell'Emigrazione; è convinta della necessità della costituzione, il suo cuore è quello d'una buona francese. Solo la «madre» avrà ragione di tutti questi sentimenti. Quando ella vede vacillare il trono di suo figlio, la femminilità, che è sempre la grande caratteristica sua, riappare: e non sa più ragionare altro che col cuore. Intanto la sua dolce bellezza declina. La signorina di Buquoy, che da qualche tempo non vedeva la Regina, è condotta un giorno alla sua presenza: e il cambiamento avvenuto nell'augusto aspetto la colpisce così dolorosamente, che invano tenta trattenere un dirotto pianto. La Regina ritrova per lei uno de' suoi luminosi sorrisi, e passando la sua bella mano sui capelli della fanciulla «ne cachez pas vos larmes, mademoiselle — ella dice — vous êtes bien plus heureuse que moi: les miennes coulent depuis deux ans.... en secret!».
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Ruit-hora. Gli eventi s'incalzano. Era fatale che la grande epopea di redenzione si macchiasse di tanto puro sangue! E passano, passano i giorni terribili, le date di dolore. Siamo alla barbara invasione del 20 di giugno. Ed anche in quell'ora, il centro, l'anima della Reggia è sempre Maria Antonietta. Ella trova in quel momento la serenità di spirito, la dignità veramente sovrana di rivolgere alle feroci femmine invase dal demone dell'odio, le nobili parole che inumidiscono molti cigli.... Su l'animo di quel Re, nel quale si giunge persino a desiderare qualcuno dei vizi de' suoi avi, purchè accompagnati da qualcuna delle loro virtù, la Regina non ha mai avuto un vero dominio, in nessun periodo della loro unione. È curiosissima una lettera di lei, nei primi anni di regno, a suo fratello Giuseppe II: un piccolo capolavoro di sincerità femminile. Ella, nel suo stile elegantemente spontaneo, confessa al fratello la nessuna sua autorità di consiglio sul marito, ed aggiunge che sentendosi di ciò troppo umiliata, cerca di lasciar creder altrui che il suo potere sul Re sia invece assai grande. Così, aiutando le apparenze, la leggenda ch'ella governasse, si formò. Ma l'obeso Re ha l'inflessibilità di carattere dei deboli. Il cedere qualche volta è dei forti: ed egli non cede mai. Così avviene nel terribile 10 di agosto. L'idea di abbandonare la Reggia, per chiedere asilo all'Assemblea rivolta il sangue della figlia di Maria Teresa. Magnifica di sdegno ella ricorre a tutta la sua eloquenza, a tutta la sua forza morale per indurre Luigi a non muoversi, ed attendere alle Tuileries gli eventi. Oh meglio, meglio assai per tutti, finire violentemente quel giorno, senza avere vuotata fino alla feccia la coppa del fiele! Ma il Re le resiste: egli vuole ubbidire all'Assemblea. Un re che ubbidisce! E allora perchè dunque non sopprimerlo? «Je le veux, je l'ordonne», egli dice. L'unica autorità che gli restava era quella di capo di famiglia. Sua moglie lo intende: così che, a malgrado dello scatto di rivolta che le fa pronunziare le parole: «Vous ordonnerez, avant tout, Monsieur, que je soi clouée aux murs de ce palais!» pure si arrende, e compie, sublime nell'eroico sacrificio, la suprema viltà. Intanto i suoi fedeli amici, trecento gentiluomini del più puro sangue di Francia, che da due giorni montavano, alla funebre Reggia, la guardia d'onore, immobili, attingendo dallo sguardo di lei l'ultima incitazione, l'ultima carezza, si preparano a spargere il loro sangue, il quale lava, in un divino lavacro, tutti gli errori commessi dai loro padri!
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È troppo triste all'anima di fermarsi alle ultime visioni del martirio di Maria Antonietta. Seguendola nella «Loggia del Logothographe», nel «Convento dei Feuillants», al «Tempio», alla «Conciergerie» una pietà sprovvista di qualunque retorica, una sofferenza cui è impossibile sottrarci, ci assale. La dolce figura di Regina, ingrandita dal dolore, circonfusa della santa aureola del martirio, assurge, nella nostra mente, all'elevazione del «simbolo». Ci pare come di avere dinanzi una scultoria figura d'Arte, una rappresentazione immortale del Dolore: e pure prostrandoci a questa, commossi e devoti, sentiamo una specie di rammarico d'esserci separati dall'altra Maria Antonietta.... per sempre! Così il nostro rammarico, direi la nostra nostalgia del vanescente dolce fantasma ci fa cogliere a volo, anche nel periodo supremo dell'esistenza della martire, i pallidi accenni dell'antica musica che compose, nella nostra mente, la sua figurazione. Ed ora al profumo sottile della cipria che fino all'ultimo suo giorno ella usa, ora al candore immacolato delle piccole mani uscenti dalle brune vili stoffe che la Francia a stento le concede, stupore de' carcerieri; o al fazzoletto che ancora si annoda dietro la vita divenuta sempre più esile (sarà l'ultima donna di Francia a portarlo, chè la moda rivoluzionaria più non lo ammette!); alla sua tenerezza per i fiori, per i bambini; a qualche suo fugace sorriso accogliente l'omaggio che ancora la sua bellezza suscita, noi la riconosciamo, e nella nostra crudeltà di esteti, ce ne dilettiamo ancora! Poche cose sono state scritte al mondo di così tragico come la pagina del «bollettino del tribunale rivoluzionario» che hanno per titolo «Processo della vedova Capet». Ella ha, in quel giorno in cui compare dinanzi a' suoi giudici, in faccia a quel popolo ostile, in cospetto dell'avvenire, che la guarda, un ultimo trionfo di regale femminilità. Con le sue stesse mani ella ha racconciata la sua veste di doglia. Un lungo strascico scende dalla sua elevata persona: disposta a sommo del capo è la chioma d'oro, irrigata di fili d'argento, cosparsa della odorante cipria: sopra, la cuffia vedovile, dalla quale discendono le lunghe zone di crespo, fluttuanti. Ancora bella e maggiormente adorna di maestà di quando passava per la galleria degli Specchi a Versailles, erto sul capo il ciuffo delle rosee piume, cinto il collo di brillanti puri come gocce di rugiada: con la sua andatura leggera ed ondeggiante ch'è forse il più squisito aroma della sua bellezza, ella produce, in quell'estremo giorno, una impressione profonda, nella bieca assemblea. Il rispetto ch'ella suscita sempre, resiste a qualunque premeditazione di offese. Quando uno dei testimonii è interrogato se conosce l'«accusata», pallido come un morto egli balza in piedi e dice, inchinandosi fino a terra: «Oui, je connais Madame». È il già conte di Estenay, pure così avido di popolarità! Udendo gli infami particolari del processo della Regina, Massimiliano Robespierre impreca, pallido d'ira (e non forse di rimorso?). Ma Fouquier-Tinville, il pubblico accusatore, tiene già tra le sue orride zanne la vittima, e il sacrificio deve essere compiuto: l'onta della rivoluzione.
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La lettera che la moritura scrive a Madama Elisabetta, poche ore prima della sua fine, è un monumento di fortezza d'animo eroica. Conservata nell'Archivio Storico di Francia, controsegnata da Fouquier-Tinville e da' suoi compagni, è la più splendida apologia di Maria Antonietta. Scritto il suo tragico testamento, ella pensa che la sua grande anima ha bisogno di un corpo valido, per poter giungere, come essa vuole, all'estremo momento: ed ordina a se medesima di nutrirsi, e riesce a chiudere al sonno, per qualche ora, i belli occhi ch'ebbero il color dei miosotidi di Schönbrunn, e che le lagrime hanno indeboliti ed offuscati.... È l'alba del 16 d'ottobre 1893. Maria Antonietta Giuseppina Giovanna di Lorena, ex Regina di Francia e di Navarra, è svegliata da' suoi carcerieri; è giunta l'ora ch'ella compia il suo ultimo abbigliamento. Il «tribunale rivoluzionario» ha deciso ch'ella non porti, nel supremo viaggio, le gramaglie che indossa dal dì della morte di Luigi Capeto: il popolo potrebbe essere impressionato... Così ella sceglie, nella meschina guardaroba, (oh vesti d'azzurro e d'oro, oh molli lini che avvolgeste le belle membra della più squisita regina d'Europa!) i pochi cenci bianchi che debbono comporre la sua ultima vestizione. Oh non certo coprì l'abito vile tanta nobile luce! Da se medesima recide la chioma odorante, la maggior gloria di bellezza che la «petite rousse» avesse portata, ventitrè anni prima, d'in su le umide sponde del Danubio, e le belle piccole mani legate dietro la vita, ritta e superba, ella scende le buie scale della sua ultima dimora quaggiù.... Sono le 11: la carretta tirata dal cavallo bianco è pronta. Ella vi sale senza alcun aiuto, e siede, secondo le viene indicato, volgendo le spalle al cammino da percorrere. Nessuna Regina, nella pompa di terrena gloria, fu mai altrettanto magnificamente fiera! Un prete-giurato l'accompagna, seduto a' suoi piedi: il boia, Sanson, non osa coprirsi il capo.... E il lugubre corteo s'incammina: e va, va, lentamente. La guardia nazionale fa ala, e trecentomila persone sono nelle vie, insultanti, in preda a uno di quei parossismi di ferocia collettiva che trova solo nella patologia qualche attenuante. La vastità del dolore supera qualche volta i confini dell'anima, così che sotto il troppo grave pondo, a lei riesce di addormentarsi in una specie di inconscienza che le impedisce quasi di soffrire. Questo deve essere avvenuto nella psiche di Maria Antonietta: chè, se perfettamente consciente, la sua grandezza morale sconfinerebbe dall'umanità. Giunta presso la piazza della Rivoluzione, dove tra pochi momenti la fiera e soave testa bionda cadrà, un bambino, tenuto alto su le materne braccia, manda alla Passante, dalle piccole rosee labbra, un bacio. Ella lo vede, e nel suo vitreo sguardo passa l'ombra fugace d' un sorriso. Oh sorridi, sorridi pure, o Regina, al roseo bambino: egli fu, in quel giorno, il solo cuore di Francia degno di giudicarti! |
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