I sette capelli
d’oro della Fata Gusmara
Falco e Topolina
Falco era l'unico figlio di un povero taglialegna, che viveva in un
misero casolare, posto nel centro della foresta. Egli aveva perduto sua madre
all'età di tre anni e da quel giorno suo padre non gli rivolgeva più la parola,
né sorrideva: il pover'uomo stava per ore ed ore intere seduto sopra un grosso
ceppo, all'ombra di una querce secolare, con l'accetta
fra le gambe, i gomiti puntati sulle ginocchia, chiuso nel suo mutismo, senza
curarsi del bimbo, che ruzzava ai suoi piedi con dei piccoli ciottoli e non
sospendeva il suo giuoco, che quando il padre, scosso un istante dal suo
torpore entrava in casa per uscirne quasi tosto con un pezzo di pan nero, che
gli porgeva in silenzio ed il fanciullo divorava fino all'ultima briciola.
Falco crebbe quindi senza conoscere i baci, le cure di una madre, le
carezze, le parole amorose di suo padre. Era un bel fanciullo, dai grand'occhi intelligenti e sognatori, dal sorriso
melanconico, triste.
Figlio, si può dire, della foresta, avvezzo fino dalla più tenera
età all'indipendenza del bosco nativo, egli amava quella solitudine, ne
conosceva tutti i segreti, non aveva paura del buio, delle bestie, degli
spiriti buoni e cattivi, che si diceva popolassero quel luogo, camminava delle
miglia senza stancarsi, dormiva saporitamente tutta la notte, senza che i
rumori strani e misteriosi della foresta turbassero il suo sonno tranquillo.
Durante la stagione delle piogge, nell'inverno, Falco seduto presso il
focolare, mentre il padre fissava intento la fiamma, quasi volesse
trarne qualche pronostico, cogli occhi smarriti, il pensiero lontano,
intrecciava graziosi panieri, oppure con un piccolo coltello affilato,
intagliava nella scorza di alberi dolci figurine, oggetti di fantasia, che
mostravano il gusto artistico del fanciullo. Oppure sopra un sillabario,
smarrito da qualcuno nella foresta, si sforzava ad imparare
a leggere. E se il tempo era bello, andava a raccogliere nel bosco frutta,
miele, erbe aromatiche e virtuose ed altri prodotti selvatici.
Ad otto anni, già si rendeva utile in casa. Era lui che si occupava
delle piccole faccende domestiche, che cambiava le foglie dei letti, apprestava
le magre pietanze, teneva in ordine, pulite le misere
stoviglie. Alle volte si metteva a cantare, risvegliando gli uccelli del bosco,
che prendevano lietamente parte a quei concerti, non bastanti però a scuotere
l'apatia del taglialegna.
Ma una bella mattina di primavera, il vecchio, giacché dalla morte della
moglie era incanutito, diventato curvo, parve svegliarsi da un lungo sonno e
raddrizzando la magra persona, disse al figlio stupito:
— Falco, andiamo al lavoro. —
Entrambi presero l'accetta ed uscirono dal casolare.
— Non andremo molto lontano, — soggiunse il taglialegna — ecco là un
albero contorto, secolare, a metà seccato dal fulmine, che fa duopo abbattere.
— Eccomi pronto ad aiutarti, babbo, — rispose Falco.
Si avvicinarono all'albero, che mostrava una larga apertura, come un
profondo vano in cui poteva entrare un fanciullo.
Falco scorse qualche cosa di bianco che si
muoveva in fondo a quel vano: era certo un gatto ivi rifugiato.
Mise la testa dentro la spaccatura e gettò un grido.
— Ebbene, che cosa c'è? — chiese il taglialegna con brusco tono. — Hai
veduto la strega del bosco?
— No, babbo; è una bambina.
— Prendila, portala fuori. —
Il fanciullo non si fece ripetere l'ordine. Sparì un istante, poi
ricomparve, tenendo fra le braccia una creaturina, avviluppata in cenci, una
bimba dai capelli neri, ricciuti, della quale sarebbe stato impossibile
definire l'età, tanto era piccina, macilenta, scarna ed i lineamenti si
mostravano avvizziti come quelli di una vecchia.
— Come è brutta! — osservò il taglialegna. — Certo i suoi genitori hanno
voluto sbarazzarsene, non sapendo che fare di simile mostriciatto. Noi le
avremmo reso un servizio lasciandola dov'era, non risparmiandola colla nostra
accetta.
— Oh, babbo, come puoi parlare così, tu che hai tanto cuore! — disse
Falco. — Se dei cattivi l'hanno abbandonata, perché non la raccoglieremmo noi?
Ella sarebbe per me una sorellina. —
E sollevando il visino smunto della bimba:
— Saresti contenta di stare con me? — chiese.
La bimba aprì due occhi meravigliosi, che sembrarono al taglialegna ed a
suo figlio due stelle, e rispose con una vocina melodiosa:
— Oh, sì, Falco! Se il tuo babbo lo vuole. —
Il taglialegna parve estatico al suono di quella voce, alla frase
pronunziata e soprattutto allo scintillio di quelle pupille di pervinca, che si
fissavano nelle sue.
Egli prese in collo la bambina, la baciò.
— Lo voglio. — disse — Non hai paura di me?
— No, perché hai cuore, e non vorrai farmi del male.
— Chi ti ha detto che ho cuore?
— Falco, ed egli non è capace di mentire. —
La meraviglia del taglialegna raddoppiava a quelle risposte, date con
tanto senno.
Il vecchio si era seduto a terra, tenendo la bimba sulle ginocchia.
Falco le si pose accanto.
— Chi sei? — chiese il taglialegna. — Di dove vieni? Come ti trovavi
dentro a quell'albero?
La bimba rise ed a quel riso la sua fisionomia un po' cupa si rischiarò,
prese una sì dolce espressione, che il vecchio rimase a bocca aperta a
guardarla.
— Ho detto che sei brutta e mi sono ingannato, — esclamò. — Perdonami.
Come ti chiami? —
— Topolina; e vengo da lontano, lontano assai: non so
chi mi diede la vita; ricordo solo di aver vissuto presso una donna cattiva,
che chiamavano l'Elefantessa, mi teneva nel suo carrozzone, mi conduceva a
tutte le fiere, facendo pagare de' bei soldi a chi voleva vedermi gettata in
aria come una pallottola e poi ripresa o girare come una trottola sopra una
piramide di sedie, tenendomi in equilibrio con un piede.
L'Elefantessa, in cambio del mio lavoro, mi batteva ogni notte, mi
torceva braccia e gambe, dicendomi che voleva snodare le mie giunture, per
rendermi capace di volgere il mio corpicino in tutti i sensi, di passare
attraverso le sbarre di una finestra, in qualunque pertugio, e quando aveva
finito di tormentarmi, mi dava da mangiare gli avanzi che gli altri gettano ai cani.
Non ne potevo più, avevo tutto il corpo indolenzito, e una notte, da
vera topolina, fuggii da un buco del carrozzone e via via per la foresta. Eran
tanti giorni che mi trovavo là dentro; ma non ne uscivo che al tramonto, per
paura che l'Elefantessa si trovasse nella foresta e mi ripigliasse. Conoscevo
già Falco, e l'ho seguito di nascosto più volte, senza che se ne accorgesse; ed
egli, senza saperlo, m'indicava dove potevo trovare delle frutta, delle radici
da sfamarmi, dell'acqua per bere. Onde non ho avuto timore di lui, quando si è
avvicinato all'albero, e quando mi ha veduta e mi ha presa. —
Il taglialegna e suo figlio l'ascoltavano rapiti, sembrando loro
impossibile che una creaturina così piccola, così minuta, cui non si avrebbe dato più di due anni, si spiegasse con tanto
giudizio.
— Quanti anni hai? — chiese Falco curioso.
— Compirò i sei a luna nuova, e non ho più bisogno di essere portata. —
Così dicendo spiccò un salto ed in un secondo si trovò seduta nel tronco
dell'albero, che l'aveva ricoverata. Il vecchio stese le braccia.
— Vuoi tu fuggire anche da me?
— Oh, no, — rispose Topolina, che in un attimo fu a terra — volevo solo
mostrarti che non ti darò alcun fastidio e sarò di
aiuto a te ad al mio nuovo fratello. —
Falco batté le mani dalla contentezza.
Con Topolina, la gioia, l'allegria erano entrate nella capanna del
taglialegna. Il vecchio aveva ripreso a lavorare con ardore, e la sua voce
accompagnava quella del figlio, quando si metteva a cantare.
Egli stette una volta assente tre giorni; e quando tornò, portò seco dei
tagli di stoffa, con aghi, filo, come aveva desiderato Topolina.
E la piccola bimba, colle sue agili dita, guidata solo dall'istinto,
cucì degli abiti per sé, per il vecchio e per Falco.
Certo la forma non ne era corretta: ma purché
bastassero a coprire le membra... E Topolina apparve subito una altra, nella
tonaca di stoffa azzurra, con dei fiocchetti sulle spalle. La felicità di
trovarsi presso persone che l'amavano, che avevano per lei baci e carezze, il
nutrimento semplice, ma sano e abbondante, l'aria
libera, arrotondirono le sue guance, diedero loro i colori della salute, le
resero fresca la pelle.
Né il vecchio, né Falco avrebbero più potuto vivere senza Topolina. Ella
era saggia quanto bella e buona; e quando parlava, così il fanciullo come suo
padre pendevano dalle sue labbra.
— Tu devi essere la figliuola di qualche fata, — le disse un giorno
Falco, mentre percorrevano insieme la foresta, tenendosi per mano.
Topolina rise, rispondendo:
— Se lo fossi, pregherei mia madre di convertire la nostra capanna in un
palazzo, e far di te un principe e di tuo padre un re. Ma pur troppo non sono
che una povera bimba e non posso darvi altra ricompensa che il mio amore, la
mia gratitudine. —
Gli anni scorsero.
Falco cresceva a vista d'occhio ed a quattordici anni era un fanciullo
forte e fiero, che sapeva maneggiare l'accetta, come non aveva mai fatto suo
padre. Ma Falco non era felice. La povertà, l'isolamento, gli erano venuti a
noia: egli sognava viaggi, avventure pericolose, amori di principesse, di fate,
ricchezze straordinarie, favolose.
Qualche volta confidava i suoi sogni a Topolina, che diveniva subito
seria, lo sgridava dolcemente... Chi più felici di loro in quell'angolo di
foresta ove ogni pianta, ogni uccello era ad essi
familiare e dove non avevano timore di tenebre, di brutti incontri? Che gioia
trovarsi riuniti durante l'inverno, presso il camino, ascoltare il vecchio
taglialegna raccontare le storie meravigliose della Stella d'oro, dei Sette
fratelli dormienti, della Fata Guadalmonte! E quale ebbrezza,
nelle giornate di sole, camminare sotto quella volta di fronde, salutati al
loro passaggio dal canto degli uccelli, dal soave lamento di qualche capra
selvatica!
Se fosse andato in una grande città, nessuno si sarebbe curato di lui,
né l'avrebbe compreso. Anzi, l'avrebbero deriso per i suoi sogni di grandezza,
e rimandato con scherni alla foresta.
Falco s'impazientiva a quelle osservazioni, e vi rispondeva con una
certa asprezza. Per Topolina e per suo padre, la foresta poteva continuare ad
avere attrattive, perché il vecchio non si era mai allontanato dal suo guscio,
né aveva mai veduto altre persone, tranne qualche raro passante che chiedeva di
riposare nella loro capanna; ed ella era rimasta così piccina, così bambolina,
a malgrado gli anni passati, che avrebbe corso mille
pericoli, in mezzo alla gente, senza contare che i monelli l'avrebbero rincorsa
a fischiate... Ma egli era forte, alto, ed avrebbe sostenuto qualsiasi lotta,
qualunque aggressione.
Topolina lo guardava con quei grand'occhi color
del cielo, dallo sguardo in certi momenti profondo come quello di una donna, in
altri pieno di malizia e di ironia.
— Tu vuoi dunque proprio abbandonarci? — chiedeva lentamente.
Falco sentiva suo malgrado una puntura al cuore
e si faceva rosso.
Egli era volubile, fantastico, ardito; ma in fondo buono, generoso.
— No, non ancora; ma se mi capiterà l'occasione, — rispondeva — non
chiederò consiglio che a me stesso.
— Ed avrai un cattivo consigliere. —
Queste contese si rinnovellavano di quando in quando, senza che per
questo i due fanciulli si amassero meno.
Topolina seguiva sempre Falco nelle sue corse attraverso la foresta, né
si stancava mai; anzi, era più agile, più svelta di lui, e spesso si compiaceva
di nascondersi in qualche cespuglio o fra i rami di una
querce fronzuta, per avere il piacere di vederlo affannato a ricercarla.
— Topolina, dove sei? Rispondi. È passato ora il lupo e avrà fatto certo
un solo boccone di te, senza che me ne sia accorto. —
Ed il forte ragazzo si metteva a piangere.
Allora Topolina si mostrava tutta sorridente, gettandosi nelle sue
braccia.
— No, il lupo non mi ha mangiata, né mi mangerà: tutte le bestie della
foresta ci rispettano, perché viviamo in mezzo a loro, perché non facciamo male
ad alcuna. —
Una mattina, Falco e Topolina si trovarono sul margine di un largo
sentiero che divideva in due la foresta, quando passò una piccola carrozzella,
intessuta di vimini dorati, condotta da due bellissime capre, candide come la
neve.
La guidava una fanciulla su dodici anni, di bellezza meravigliosa, dai
lunghi riccioli d'oro spioventi sull'abito di seta celeste.
A Falco sembrò di scorgere un'apparizione divina, ebbe come la
sensazione di un fluido magnetico che gli percorresse
tutte le sue giovani fibre, e con accento estatico gridò:
— Come è bella! —
La bionda fanciulla lo sentì, si volse; ma scorto il
giovinetto scalzo, vestito di miseri panni, sorrise con disprezzo, alzò la
frusta, come se volesse punirlo per aver osato manifestare a voce alta la sua
ammirazione; poi la lasciò cadere con forza sulle bianche caprette, che misero
un lamento e presero la corsa.
— Bella, ma cattiva! — osservò Topolina.
Ma Falco aveva sempre presente quei riccioli
d'oro, quegli occhi neri come carbonchi, quel visino d'angelo... e si era fatto
triste, pensieroso.
Quel giorno a desinare toccò appena il cibo; e quando ebbe finito,
invece di fare la siesta, come il solito, al rezzo di una pianta, ascoltando il
gentile chiacchierio di Topolina, si diede a vagare come un'anima in pena per
la foresta.
Topolina lo seguì silenziosa, crollando melanconicamente la bruna testa.
Ad un tratto, il fanciullo si batté la fronte.
— Voglio sapere chi sia, — disse.
— Povero Falco, a che ti servirà?
— Voglio essere amato da lei, compire imprese audaci, purché me la diano
in isposa. —
Si udì un trillo che pareva una risata.
Era un merlo che fischiava sopra un ramo. Falco, preso da furore,
raccolse una pietra, gliela lanciò; ma non lo colse.
Ed il trillo si ripetè più forte, più gaio. Sembrava che dicesse:
Sciocco, sciocco, sciocco!
Topolina osservò:
— Il merlo fa male a canzonarti, caro Falco; ma tu fai peggio cullandoti
in sogni, che non possono avverarsi. Sono certa che quella bellissima e cattiva
fanciulla non si curerà mai di te.
— Tu parli così per invidia e gelosia. —
Topolina si tacque; ma provò un senso acuto, invincibile di pena alle
parole di Falco, ed i suoi occhi di pervinca si empirono di lacrime. Anch'egli
diventava cattivo.
Falco passò l'intera giornata a cercare; e trovò.
La bella e superba fanciulla abitava in un palazzo, che pareva di
cristallo, posto nel mezzo di un meraviglioso giardino, ricco di ogni varietà
di piante, di fiori, con fontane di diaspro e d'argento, con statue di marmo,
circondato da un cancello che ai raggi del sole scintillava quasi fosse di
purissimo oro. Dietro a quel cancello, Falco, pallido, tremante, cogli occhi
pieni di sprazzi luminosi, scorse estatico la ricca fanciulla dai riccioli
d'oro sparsi al vento, che vestiva una bianca tunica la quale le lasciava il
collo e le braccia scoperte, e permetteva di vedere due gambe perfette la cui
carne traspariva dalle calze traforate, e i piedini calzati da sandali ricamati
di perle.
Giuocava alla palla in un viale fiancheggiato da rosai con un bel
giovinetto che aveva l'aria di un paggio ardito e sfrontato, dai riccioli bruni
spioventi sul colletto di trina della blouse di velluto azzurro, stretta
alla vita da una cintura tempestata di pietre preziose, con stivali di pelle di
daino, allacciati da cordoni d'oro, e con nappe pur d'oro.
Presso Falco, ergendosi sulla punta dei piedini nudi per giungere
anch'essa a vedere, stava muta, seria, Topolina che sentiva nel cuore come un
peso di amara tristezza ed aveva negli sguardi come dei lampi improvvisi di
collera e di dolore.
— Quanto è bella, quanto è bella! — ripeteva ad ogni tratto Falco,
trasportato dall'entusiasmo. — Se tu potessi assomigliarle, Topolina! —
La bimba strinse le pallide labbra tremanti.
— Se anche lo potessi, — rispose — non lo vorrei. La signorina è bella,
ma ha gli occhi ed il sorriso cattivi, e se ci vedesse, ci manderebbe via come
due mendicanti. —
Falco si strinse nelle spalle.
I due giuocatori non avevano ancora rivolti gli sguardi da quella parte.
Ridevano, chiacchieravano.
— A me la palla, Carlen, — gridava la bella fanciulla. — Che malaccorto!
— Ti credi migliore di me, Tea?
— Lo metteresti in dubbio? Guarda che io non oltrepasso mai la corda.
— Ed io te la ribatto, sempre giusta: sei tu incapace di coglierla a
volo.
— No, sei tu che non sai lanciarla: ecco, impara. —
Ma la fanciulla aveva mal calcolato il colpo: la palla, lanciata con
forza, oltrepassò il cancello e cadde ai piedi di Falco.
Carlen rise, batté le mani.
— Ah, ah! lo vedi che hai passato il segno? —
Tea colle guance accese, scarmigliata, piena di collera e di confusione,
corse verso il cancello. Fece tosto una smorfìa di disgusto, vedendo la sua
palla tenuta dalle mani rozze e brune di Falco.
— Dammela! — disse con tono imperativo al fanciullo, che tremava dalla
commozione. — È mia.
— Lo so che è tua, — rispose Falco cercando di vincere la sua timidezza
— e te la renderò, se mi darai in cambio la rosa che porti alla cintura.
— Temerario! — gridò Carlen, che si era pure avvicinato al cancello. —
Vuoi che ti accarezzi le spalle col mio frustino? Straccione, rendi quella
palla a mia cugina! —
Falco era stranamente impallidito; ma i suoi occhi lampeggiarono di
furore.
— No, non la renderò, — rispose — se non mi verrà
chiesta con miglior garbo. —
Tea si abbandonò ad un'ilarità così tempestosa, che Carlen non potè a
meno di condividere.
— Guarda che aria d'importanza si dà quel pezzente! — esclamò la bella
fanciulla beffeggiandolo. — Nemmeno se possedesse i sette capelli d'oro della
fata Gusmara avrebbe tanto ardire! Tienti pure la palla, principe degli
stracci, perché non so più che farmene, ora che è stata insudiciata dalle tue
mani. E così calpesterò questa rosa che tu hai osato di guardare e di
chiedermi. —
Unendo alle parole il gesto, gettò a terra la rosa e vi batté sopra
furiosamente i piedini.
— Te l'avevo detto, Falco, che la signorina era superba e cattiva, —
disse Topolina colla sua voce chiara, melodiosa — e tu non volevi credermi. —
Tea e Carlen diedero in un nuovo scoppio di risa alla vista di quella
minuta creaturina che poteva passare attraverso i ferri del cancello e non
giungeva alla cintura del compagno.
— Oh, oh, ecco la principessina dei pidocchi che viene a sputar
sentenze! — esclamò Carlen beffeggiandola a sua volta. — E di me, piccola
scimmietta, non dici nulla?
— Dico che sei degno di tua cugina, — rispose la bimba, fissando senza
timore i suoi occhi di pervinca sul fanciullo insolente.
Carlen divenne rosso fino alle orecchie e raccolto un ciottolo del
giardino, lo lanciò con forza contro la misera bimba, che ne fu colpita in
fronte.
Tea rideva a crepapelle.
Topolina asciugò con un lembo della sua povera tunica il sangue che
colava dalla ferita, e guardando fissi i due fanciulli:
— Vili quanto orgogliosi! — disse con accento di supremo disprezzo. —
Andiamo, Falco, essi non meritano che ci occupiamo di loro. —
Tea continuava a ridere per dissimulare la vergogna del sentirsi offesa
così; mentre Carlen si mordeva le labbra dal dispetto.
Gli occhi di Falco scintillavano di un selvaggio furore, e dimenticando
ogni rispetto per la superba fanciulla:
— Tieni la tua palla, tieni! — gridò strappandola con le unghie e coi
denti, e gettandogliene i brani sul viso. — Ecco come te la rendo. Ridi, ridi
pure di me e della mia sorellina, verrà il giorno che ti vedremo piangere, e
t'inginocchierai ai miei piedi per chiedermi perdono di avermi beffato.
— Ah, ah, ah! —
Falco mostrò i pugni a Carlen.
— In quanto a te, — aggiunse — saprò un momento o l'altro mostrarti che
le mie armi non sono quelle dei vigliacchi tuoi pari, e che non mi lascio
imporre da te, sebbene tu indossi un abito di velluto.
Vieni, Topolina. —
I due fanciulli si presero per mano allontanandosi di corsa, seguiti
dalle risate e dagli scherni di quei superbi, che cercavano in tal modo di
nascondere la rabbia ed il dispetto che provavano, vedendosi umiliati da quei
due poveretti.
Falco e Topolina erano rientrati nella foresta senza scambiare una sola
parola; ma ad un tratto il fanciullo lasciò la mano della compagna e gettatosi
bocconi sull'erba, scoppiò in un pianto angoscioso.
Topolina gli sedette vicina, in silenzio, lasciandolo sfogare. Essa non
poteva piangere; ma sentiva nella sua piccola anima una profonda amarezza,
commista ad una specie di rancore.
Era possibile che Falco piangesse per quella fanciulla così superba,
cattiva?
Sì, perché quando il fanciullo ebbe dato uno sfogo al suo dolore, alla
sua collera, parlò unicamente di lei...
— È così bella, così bella!... — diceva. —
Sarebbe bastata una dolce parola a farmi divenire il suo schiavo, il suo cane.
—
Un trillo acuto fendè l'aria. Era il merlo che fischiava sopra l'albero
e sembrava ripetere: Sciocco, sciocco, sciocco!
Falco si alzò inviperito e si diresse verso casa. Topolina lo seguiva
sempre silenziosa. Egli non si curava di lei, della sua ferita alla fronte, che
per fortuna non faceva più sangue.
Soltanto il suo cuoricino sanguinava ancora.
A casa, Falco chiese a suo padre:
— Sai tu chi sia la fata Gusmara?
— Certo che lo so, figliuol mio: vuoi che ti parli di lei?
— Oh, sì babbo, sì!
— Ebbene, appena avremo finito, ti contenterò. —
Infatti, poco dopo, sotto il chiarore delle stelle, seduto sopra un
grosso ceppo all'entrata del casolare, con Topolina e Falco ai suoi piedi, il
vecchio taglialegna cominciò a narrare.
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