Nel regno del Capriccio
— Su, alzati Falco, se dobbiamo partire.
— Eccomi, Topolina; eccomi. È proprio vero? Il babbo acconsente?
— Sì. Ho già preparato un sacchetto con delle provvigioni per noi e
riunite quelle che dovranno servire per il babbo durante la nostra assenza.
— Saranno bastanti? E se non potessimo tornare così presto?
— Gli amici della foresta non l'abbandoneranno: li ho pregati perché
veglino su lui.
— Tu pensi a tutto, Topolina.
— E tu, a nulla. Prendi il piccolo flauto, che trovasti sotto il camino
la notte della Befana.
— Per che farne?
— Non dovremo guadagnarci il pane per compiere il nostro viaggio? Tu
sonerai il flauto, io farò ballare questa Piccola marmotta che ho
addomesticata.
— Com'è carina! Fammela vedere.
— Guardala, ma non toccarla, poiché Zor, così si chiama, non va con
altri che con me, obbedisce a me sola, e se tu tentassi
di prenderla, ti morderebbe.
— Come mai non me la mostrasti prima d'ora?
— Perché non era necessario. Ma non perdiamoci in
discorsi: dai un bacio al babbo senza svegliarlo: egli soffrirebbe troppo nel
vederci partire, mentre saprà farsi animo, non trovandoci più, rammentando la
mia promessa.
— Quale promessa?
— Non è cosa che ti riguardi, né importa che tu la sappia: la curiosità
è sempre pericolosa. —
In altri momenti, Falco avrebbe dato un'acerba risposta alla fanciulla;
ma quella mattina era troppo contento per prendersela con Topolina.
Entrambi si chinarono con profonda tenerezza sul vecchio che dormiva e
lo guardarono come se non dovessero rivederlo più.
Il taglialegna aveva gli occhi chiusi ed il suo volto era illuminato da
un sorriso. Forse, nel suo sonno sentiva la presenza dei due fanciulli,
l'angoscia delle loro animuccie, e voleva che partissero soddisfatti, che essi
non patissero l'ombra del rimorso di doverlo abbandonare.
Falco e Topolina sfiorarono colle loro labbra quella cara fronte, poi
uscirono senza far rumore dalla capanna.
La foresta andava risvegliandosi ai primi baci del
sole, gli uccelli cantavano allegramente, svolazzando fra le piante: nelle
siepi era tutto un fremito, un sussurro, ed a Topolina sembrava di sentire
mille voci ripetere:
— A rivederci, a rivederci. —
Falco, già così ardito, si sentiva invaso da una specie di pentimento ed
avrebbe voluto quasi rinunciare a quel viaggio: provava come una tenerezza
nuova per la foresta, per tutto quanto lo circondava, ma il ricordo della bella
fanciulla che l'aveva umiliato, deriso, lo scosse, lo confortò nell'idea di
conquistare i sette capelli d'oro della fata Gusmara, onde prendersi la
rivincita su Tea e su Carlen.
In quest'alternativa di pensieri, che si aggiravano confusamente nel suo
cervello, tormentandolo, camminò tutta la mattina, senza curarsi della povera
fanciulla che lo seguiva, senza mai chiederle se fosse stanca e se avesse fame.
Ma a un tratto la natura prese il sopravvento su lui e Falco, lasciatosi
cadere ai piedi di un albero, disse:
— Non mi reggo più, ho fame: dove sei Topolina?
— Eccomi, ti porto il companatico. —
Essa aveva colto, strada facendo, diverse frutta selvatiche, di cui
Falco era ghiottissimo.
Egli tese avidamente le mani.
— Grazie, Topolina: tu sei più saggia di me. —
Ella rise soddisfatta.
— È già un pezzo che dovresti saperlo. —
Sedettero vicini, e tratto dal sacchetto un
pane, se lo divisero a metà.
Topolina, prima di mangiare, levò dal seno la piccola marmotta, dicendo:
— Anche tu, Zor, dividerai il nostro umile pasto. —
La marmotta apparve molto soddisfatta. Saltò su una spalla di Topolina e
si mise a mangiare con avidità i bocconi di pane e le frutta che questa le
porgeva.
— Guarda quanto è graziosa, — disse la fanciulla. — Né ci darà alcuna
noia. —
Falco stese la mano per prenderla, ma Zor gli morse un dito.
— Oh, brutta bestiaccia! — esclamò pieno di collera Falco — meriterebbe
che la strozzassi.
— Faresti molto male, — rispose Topolina — perché Zor diverrà,
a suo tempo, la nostra salvezza. Del resto, ti avevo già detto di non toccarla.
—
Zor era sparita nel suo caldo nascondiglio e Falco si succhiava ancora
il dito.
— Fa’ che sia buona, — brontolò — perché se mi
dà fastidio, faccio presto a liberarmene.
— Bel coraggio quello di minacciare i deboli che non possono difendersi!
— disse Topolina. — Tu che biasimavi la viltà di
Carlen, vorresti imitarlo? —
Falco arrossì, si alzò senza rispondere. Ripresero il cammino.
Verso il tramonto, i due fanciulli, oltremodo stanchi, giunsero dinanzi
ad un'alta montagna, la quale aveva nel mezzo una grande apertura che da
lontano sembrò loro una gola enorme di leone e da vicino era una galleria cupa
e profonda, perduta nell'infinito.
— Non mi par prudenza di percorrere quell'antro di notte, — osservò
Falco. — Cerchiamo un ricovero qui attorno per attendere l'alba.
— Quell'alberone col suo largo tronco e lo spesso fogliame, può offrirci
un asilo sicuro, — disse Topolina. — Nessuno potrà vederci, e noi riposeremo
tranquilli.
— Hai ragione. —
Si arrampicarono come scoiattoli sull'albero e trovarono infatti uno spazio abbastanza largo, da starvi comodamente
entrambi.
— Quale buona idea ti è venuta, Topolina! — disse Falco. — Stiamo
d'incanto, qui. Ora ceneremo, poi chiuderò gli occhi fino a domani.
Topolina non rispose.
— A che pensi? — chiese Falco.
— Penso al babbo, che a quest'ora certo pregherà per noi. —
Falco arrossì, perché egli aveva già dimenticato suo padre. E sentì una
tal vergogna, che non potè ingoiare un solo boccone di pane.
A mezzanotte, i due fanciulli dormivano di un sonno profondo, quando
furono svegliati da voci e suoni che venivano di sotto all'albero.
Essi spalancarono gli occhi e, sebbene sorpresi alla scena che si
svolgeva lì sotto, non fiatarono. Stretti per mano onde farsi reciprocamente
coraggio, poterono, senza esser visti, osservare ogni cosa.
Sulla spianata che era dinanzi all'albero, si trovava una bara scoperta,
con sopra disteso un giovinetto, al cui corpo, strettamente legato da una
fascia che gli teneva ferme le gambe e le braccia, era impedito qualsiasi
movimento. Il giovinetto viveva, ed il suo volto, con l'espressione dello
spavento, si contorceva in smorfie orribili.
Attorno alla bara, danzavano cantando delle fanciulle discinte, coi
capelli sciolti, che ad ogni smorfia del giovinetto scoppiavano in grandi risa
e di quando in quando si fermavano per pizzicargli il naso, pungerlo con degli
spilli, gridare furiosamente:
— Hai voluto soddisfare ogni tuo capriccio nel nostro regno, ora ne
porti la pena. —
Intanto alcuni uomini con delle pale toglievano la terra disotto
all'albero, scoprendo una botola.
Quando fu aperta, con grida, schiamazzi e suoni d'istrumenti lugubri, venne calata la bara, mentre il giovinetto si divincolava
per sottrarsi all'orribile prospettiva di essere seppellito vivo.
E le fanciulle ridevano a quei contorcimenti e gli uomini forti e
vigorosi calarono la bara senza sforzi. Poi la botola venne
richiusa, ricoperta di terra... e per quasi un'ora vi danzaron sopra, ripetendo
con voce monotona:
— Così finisce chi non sa vincere i propri capricci, o vuol partecipare
ai nostri, introducendosi nel nostro regno.
Indi fanciulle ed uomini sparirono e Falco e
Topolina si trovarono soli sull'albero, tenendosi fortemente stretti per le
mani.
— Hai veduto? — chiese Falco.
— Hai sentito? — chiese Topolina. — Questo ci deve servire di lezione,
dovendo attraversare il regno del Capriccio.
— Ma possiamo lasciare quel giovinetto, che sappiamo ancora vivo,
sepolto lì sotto? — osservò Falco. — Procuriamo di liberarlo. Guarda! Uno di
quegli uomini ha dimenticato la zappa.
— È vero: scendiamo, — esclamò Topolina, commossa al pensiero di Falco,
che essa condivideva.
In un momento furono a terra.
Il fanciullo aveva steso la mano per afferrare la zappa, quando questa
si cambiò in un vecchietto dalla barba bianca, che gli disse
ridendo:
— Ciò che noi abbiamo fatto, voi non dovete disfare. Andate, e non
volgetevi più addietro, perché dovrei punirvi per aver sorpreso i nostri
segreti di morte: la vostra buona intenzione, il vostro cuore compassionevole
vi salvano. —
Batté le mani: il vecchio, l'albero, la spianata, la montagna dall'antro
enorme, buio, tutto sparì; e Falco si trovò con Topolina all'ingresso di una
bella città, con palazzi ì dorati, giardini, chioschi, che sembrava pavesata a
festa. Infatti, nelle strade era una moltitudine di gente, vestita con gran
sfarzo, a squadre che cantavano e danzavano, accompagnandosi ad ogni sorta di
strumenti: campanelli, tamburi, trombe, piatti di rame.
I due fanciulli passavano inosservati fra quella folla, storditi da
tanto rumore, chiedendosi dove fossero.
Ad un tratto si udì lo squillo di una fanfara trionfale; e mille voci
urlarono:
— Eccola... eccola. —
Falco e Topolina furono sospinti, sbatacchiati presso un cancello
sostenuto da pilastri d'oro.
— Se salissimo su uno di quei pilastri? — propose Topolina. — Di qui non
si vede nulla.
— Saliamo. —
In un attimo furono sulla cima di uno di essi e
la gente, tutta intenta a guardare in un punto della strada, non se ne accorse
neppure.
Falco e Topolina di lassù poterono scorgere un formicolio di bagliori
metallici e di colori smaglianti, uno spettacolo meraviglioso.
Una specie di processione andava avvicinandosi. Era preceduta da uomini
di statura gigantesca che avevano due teste e portavano nelle mani delle enormi
clave che servivano a tenere indietro la folla, la quale si accalcava dalle
parti. Dietro questi giganti, venivano, su cavalli riccamente bardati, dei
giovani paggi, portando sul giustacuore di velluto grossi brillanti, e sulle
piume dei larghi cappelli insetti lucenti che facevano brillare nell'aria le
amatiste ed i topazi ond'erano foggiati. Poi un carro trionfale, tirato da
venti pariglie di cavalle bianche, tenute a mano da scudieri elegantissimi, in
variopinti costumi, ornati di pietre preziose. Sopra il carro trionfale, adagiata
su un trono d'oro, era una giovane di meravigliosa bellezza: un fiore vivente,
tutta grazia e sorriso, che indossava un abito di broccato d'argento,
interamente guarnito di pietre preziose. Portava un bizzarro berretto, fermato
da un diamante di straordinaria grandezza sui biondi capelli che le cadevano
disciolti sino alle ginocchia. Teneva nella mano destra un tamburello che
agitava ad ogni momento e nella mano sinistra uno stendardo in cui era trapunto
a lettere d'oro: Viva il Capriccio!
Ella era dunque la regina del Capriccio che visitava la sua residenza, e
Falco e Topolina si trovavano nel suo regno. Attorno alla Sovrana si
affollavano un centinaio di altre dame giovani e belle, tutte vestite di raso
bianco ricamato in argento e tutte quante agitavano dei sonagli di foggia
bizzarra, che producevano un brusio indescrivibile.
Dietro al carro trionfale, altri cavalieri in
vesti ricchissime, chiudevano la marcia.
— È splendido, ammirabile! — esclamò Falco pieno d’entusiasmo — ed a me
sembra che tutte le persone governate da una così bella Regina, debbano essere
felici.
— Ricordati ciò che vedesti stanotte, — sussurrò Topolina.
Falco non rispose: era tutt'occhi, tutt'orecchi
per vedere e sentire.
Il carro della Regina si fermò dinanzi alla colonna, ove si tenevano
stretti, accovacciati i due fanciulli.
A Topolina batteva il cuore: ella temeva di essere osservata.
Ma la bellissima Sovrana non parve badare a loro. Agitò lo stendardo, e
tal segno doveva avere il valore di un comando, perché ad un tratto si fece
silenzio, un silenzio così grande che si sarebbe sentito ronzare un insetto.
La Regina
parlò e la sua voce dominava tutta quella moltitudine, prosternata in
adorazione intorno al suo carro.
— Sono giunti coloro che aspettavamo, — disse — ma se non li additassi,
non vi accorgereste di loro ed attraverserebbero il nostro regno senza ricevere
l'accoglienza che io serbo agli stranieri di passaggio, i quali non voglio che
mi sfuggano. Olà! Che siano tolti da quella colonna, mostrati al popolo, quindi
fatti vedere al mio fianco! —
Falco e Topolina compresero tosto che si trattava
di loro: la Regina
li aveva scoperti. Il fanciullo tremò, ma la bimba ebbe il tempo di dirgli:
— Coraggio! Abbi fiducia in me. —
Due giganti eseguirono tosto l'ordine della Regina, sollevando nel loro
pugno formidabile, i due fanciulli.
Il popolo proruppe in una clamorosa risata, specialmente alla vista di
Topolina, che, con molta grazia, lanciò dei baci sorridendo a tutti, mentre
Falco si trovava assai più impacciato e stringeva il suo sacchetto di
provvigioni perché non gli cadesse.
— Non saranno già loro che ci faranno paura!
— Né ci vorrà molto a addomesticarli!
— Quella bambola è tanto carina!
— Forniremo loro gli abiti, e quanto hanno bisogno, finché li terremo
fra noi. —
Queste ed altre frasi si sentivano; ma la Regina emise una specie di
esclamazione gutturale, bizzarra, che bastò per ritornare il silenzio.
Falco e Topolina erano seduti al suo fianco sul trono.
La Regina
si volse al fanciullo:
— Che siete venuti a fare nel mio regno? —
Prima che egli rispondesse, la voce di Topolina si fece sentire.
— Siamo due poveri fanciulli che girano il mondo per guadagnarsi il
pane.
— Davvero? — chiese ridendo la Sovrana. — Ma io non ho interrogata te, ma il tuo
compagno.
— Falco è mio fratello.
— Ed egli non ha lingua?
— Scusatela, potente Sovrana, — rispose il fanciullo volgendo uno
sguardo corrucciato alla sorellina. — Topolina ha il vizio di chiacchierare
sempre lei! Ciò nonostante ella ha detto la verità.
— Dove siete diretti?
— Non abbiamo direzione.
— Allora rimarrete nel nostro stato, ed io vi troverò un lavoro. Che
cosa sapete fare?
— Io suono il flauto, — disse Falco.
— Ed io faccio ballare la marmotta, — aggiunse Topolina, mostrando la
bestiola.
Un'altra formidabile risata scoppiò fra il popolo e fra le stesse dame
che circondavano la Sovrana.
Questa impose ancora silenzio ed aggiunse:
— Allora rimarrete nello stesso mio palazzo per mostrare la vostra
abilità. Qui è il regno del Capriccio ed ogni capriccio è bene accolto e vien
soddisfatto. —
Agitò il tamburello; la marcia trionfale riprese il suo corso.
Falco si vergognava di trovarsi così mal vestito a fianco di quella
bellissima Regina e pensava che non fosse possibile di correre un pericolo, protetti
da tale Sovrana. Topolina pareva noncurante della povertà dei suoi abiti e
guardava senza invidia il lusso sfarzoso che la circondava; ma non perdeva
d'occhio ogni movimento del fratello.
I due fanciulli destavano dovunque il buon umore ed essi non ne capivano
la cagione. Ma alcuni giorni prima, in tutto il regno eransi sparsi grandi
manifesti, in cui si avvertiva del passaggio di due stranieri, diretti alla
residenza della fata Gusmara, segnalati come pericolosi, che sarebbe stato
impossibile convertire alle idee del paese; perciò si pregava il pubblico di
tentare ogni mezzo per vincerli, e si prometteva premi ed onori a chi ci fosse
riuscito.
Nondimeno, la vista dei due fanciulli e soprattutto di Topolina così
minuscola, così pronta ad accogliere gli omaggi che le tributavano, bastò a
rassicurarli, a far credere che non sarebbe riuscita difficile la loro
conquista.
Fra canti, danze, suoni e risate, giunsero al palazzo della Sovrana, un
palazzo bizzarro, che mostrava subito il gusto capriccioso di lei. Né quello
era il solo palazzo che le appartenesse.
La regina del Capriccio possedeva ricchezze illimitate, e nel suo regno
esercitava diritti di sovranità assoluta. Nessuno avrebbe discusso i suoi
ordini, e la sua influenza si faceva sentire dovunque. Essa mise un
appartamento a disposizione de' due fanciulli, fece
allestire degli abiti convenienti, ma Topolina ricusò recisamente di essere
servita da una cameriera.
— Io sono abituata a vestirmi da sola e non lascerò le mie abitudini, —
disse.
Essa non voleva mostrare la penna del merlo, il grosso rubino, il
talismano del cinghiale e la ghianda della gazza. Ricordava i consigli che la Fata le aveva fatti dare, e
stava molto in guardia.
— Che ne dici, marmottina bella, di tutta questa accoglienza? — chiese alla
gentile bestiola. — Ti pare sincera?
— La regina Guadalmonte, la regina del Capriccio, sa mascherare sotto i
suoi ammalianti sorrisi e le sue carezze, i suoi perversi disegni, — rispose la
marmotta. — È la più bella donna di questo regno, ma
ad un tempo la più malvagia e crudele. La regina Guadalmonte sa benissimo che
siete diretti dalla buona fata Gusmara, della quale è la più pericolosa nemica;
ma finge d'ignorarlo per tenervi nelle sue mani. Se lo dicessi a tuo fratello,
non mi crederebbe, ma tu mi presti fede e ascolterai i miei consigli: del
resto, io sono con te. —
A Falco pareva impossibile di trovarsi vestito con tanta eleganza, e non
aveva alcun dubbio sulla sincerità della Sovrana.
— La storia che ci ha raccontata il babbo su questi regni nemici, —
disse a Topolina — non può essere vera. Che può importare a costoro della
potenza della fata Gusmara? La regina del Capriccio non è meno potente, meno
bella di essa: e noi passeremo qui alcuni giorni
felici.
— Ah, fratel mio, tu dimentichi già le tue promesse, lo scopo del tuo
viaggio, — rispose Topolina. — Se tu perdi la testa alla prima tentazione, che
sarà più tardi? Per fortuna sei in mia compagnia.
— Quanto sarebbe stato meglio che tu fossi rimasta a casa! Tu m'intralci
la via. —
Topolina non rispose; alzò le spalle con un lieve sorriso di disprezzo.
Nel gran salone della regina Guadalmonte erano riuniti tutti i notabili
del regno per assistere al trattenimento che avrebbero dato Falco e Topolina; e
un palcoscenico preparato, perché tutti potessero ammirarli.
I due fanciulli furono abbagliati, entrando in quel salone, dai torrenti
di luce che piovevano da lampade meravigliose appese al soffitto e facevano
sfavillare i brillanti, i gioielli, di cui erano coperti gli abiti delle
signore e degli uomini.
La regina Guadalmonte, la bella Sovrana, opponeva uno strano contrasto a
tutto quel magico sfarzo che la circondava. Essa non aveva altro ornamento che
un diadema di brillanti sulla folta capigliatura, ma
nessun altro gioiello al collo né sulle braccia nude. Indossava una semplice
tunica di seta celeste, che modellava le sue forme perfette come quelle di una
statua... ed era la più bella fra tutte.
I due fanciulli vennero condotti sul palco da
un gigante moro, e la loro entrata suscitò vive esclamazioni di meraviglia ed
allegre risate.
L'ammirazione di tutti non era però rivolta a Falco, bel giovanetto ma
di aspetto comune, di statura corrispondente alla sua età; sibbene a Topolina,
che, nell'abito di seta color di rosa, appariva una vera bambola vivente,
ancora più piccola del famigerato Tompouce di cui tutti conoscono la
storia.
Topolina apparve assai meno impacciata del fratello:
con un salto fu sopra ad un tavolino per farsi meglio ammirare, s'inchinò con
grazia, sorrise, mandò baci all'elegante uditorio; poi disse a voce alta,
vibrata, chiarissima:
— Grazie, bella Sovrana, signori e signore, della cordiale accoglienza,
delle gentilezze che usate a me ed a mio fratello. Noi ve ne siamo ben
riconoscenti, né ci aspettavamo meno dalla vostra cortesia, la quale
procureremo di ricambiare per quanto ci sarà possibile. Falco, incominciamo!... —
II fanciullo, un po' vergognoso, prese il suo flauto e si mise a
suonare. Allora Topolina trasse la sua piccola marmotta che sembrava una palla di
neve, e dopo averla mostrata all'elegante adunanza, la pose sul tavolino, le
ordinò di ballare, di fare diversi esercizi, che la bestiola eseguì in modo
sorprendente, fra risate ed applausi continui.
Ottenuto un po' di silenzio, Topolina disse ancora:
— Bella Sovrana, signori e signore, la mia marmotta Zor non sa soltanto
eseguire questi esercizi: essa sa indovinare il pensiero di ciascuno e
rivelarlo, perché io le insegnai a parlare. —
Falco guardò come istupidito la sorellina. Era mai possibile ciò che
diceva, o stava per compromettere la loro buona fortuna?
— Sei pazza? — le sussurrò piano.
— Lascia fare a me, che so quel che dico, — rispose ella nello stesso
tono sommesso.
Intanto un mormorio d'incredulità era corso nella sala, mormorio che cessò ad un cenno della Regina.
— Sentiamo, — disse la bella Sovrana — se la tua marmotta sa dirmi che
cosa io pensi in questo istante.
— Puoi tu dirlo, Zor? — chiese Topolina sollevando la marmotta nelle sue
mani, baciandola dolcemente.
— Sì, — rispose Zor con una voce che fece fremere la regina Guadalmonte,
perché le parve che quella voce non le giungesse alle orecchie per la prima
volta.
— Allora parla, — soggiunse Topolina.
In mezzo ad un silenzio perfetto, la marmotta pronunziò:
— Bella Sovrana, tu hai in questo istante il capriccio di avermi in tuo
potere.
— È vero, — disse la regina Guadalmonte.
— Sì, sì, essa deve vivere nel nostro regno; non lasciamocela sfuggire!
— esclamarono diverse voci.
— Silenzio! — esclamò Topolina, agitando la piccola mano — Zor non ha
finito di parlare.
— A me basta, — disse la
Sovrana.
— Tu non vuoi che prosegua, — soggiunse Zor — perché pensi ancora di
sbarazzarti della mia padroncina e di Falco, facendo loro seguire la sorte di
Marsapan, del quale ti stancasti subito, come ti stanchi di tutto. Ma noi non
saremo vittime dei tuoi capricci. —
Un silenzio di terrore accolse le parole della marmotta.
Falco era divenuto livido come un cadavere, tremava per tutte le membra,
ed avrebbe voluto avere egli stesso nelle mani la marmotta per strangolarla.
Sulla bocca della regina Guadalmonte, vedendosi ella così scoperta, si
dileguò il riso; e invece le apparvero sul volto i segni della più violenta
collera, tanto che ella ne divenne brutta, deforme.
— Olà! — gridò ad alta voce — che sia subito
squartata quella brutta bestia, e Topolina e Falco siano rinchiusi nel più
tetro carcere, in attesa della mia sentenza. —
Nel mentre che la Regina
dava questi ordini in mezzo ad un silenzio sepolcrale, Topolina aveva nascosto
in seno la marmotta, presa con una mano quella di Falco e coll'altra agitava la
penna datale dal merlo.
E quasi tosto, un enorme uccello bianco, entrò con gran fragore per una
delle vetrate aperte della sala, prese in groppa i due fanciulli e prima che
gli ordini della Regina fossero eseguiti e gl'invitati, si riavessero dalla
sorpresa, aveva già preso il volo col suo prezioso carico, portandolo lontano
dal regno del Capriccio.
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