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Carolina Invernizio I sette capelli d'oro della fata Gusmara IntraText CT - Lettura del testo |
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Introduzione critica di Vittorio Spinazzola
Chissà mai fino a qual punto la candida Carolina era consapevole del simbolismo erotico inerente ai nomi dei protagonisti di questa strana fiaba romanzata; Falco e Topolina. In entrambi i casi, la metafora animalesca appare chiara. Ma l'appellativo del personaggio femminile trova giustificazione nell'aspetto corporeo: una ragazzina minuta e fragile, quasi una nanetta, di contro alla fierezza aitante dell'eroe maschile. Si capisce che, per induzione, gli avversari più orribili abbiano o siano costretti punitivamente ad assumere sembianze gattesche — avviene così anche in Walt Disney; mentre l'aiutante più fidata è la marmottina fatata Zor. D'altronde i soccorsi magici sono generalmente portati da nani e gnomi, bianchi o neri; gli esecutori delle ingiustizie hanno invece statura di giganti; e la cattiva donnona che maltrattava Topolina era chiamata addirittura l'Elefantessa. Diciamo insomma almeno che i nomi di Falco e Topolina indicano un dualismo in cui i valori femminili vengono proiettati in una dimensione di inferiorità fisica modesta e dimessa: tanto più esaltante apparirà la loro supremazia sui principi della mascolinità. I sette capelli d'oro della Fata Gusmara configura una sorta di vera educazione al matriarcato. In un universo dominato sempre e comunque dalle donne, il protagonista ritroverà se stesso solo quando l'esperienza gli avrà insegnato a riconoscere docilmente che il significato della sua vita è custodito dalla compagna postagli accanto da un destino alquanto benevolo. Pubblicato nel 1909, quando la Invernizio era al culmine della carriera, I sette capelli semplifica e chiarisce, nella sua compagine fiabesca, i dati fisionomici degli oltre centoventi volumi sfornati in un quarantennio di lavoro dalla più instancabile delle nostre scrittrici: oltre che, beninteso, la più popolare. Nel rivolgersi a un pubblico infantile, cioè ai figli delle sue lettrici abituali, la Invernizio accentua l'indole andantemente comunicativa di un linguaggio tutto cose, a livello di resoconto giornalistico o di cronaca parlata. Nel dialogato affiora meglio un proposito realistico, alieno peraltro da inflessioni dialettali: risultato, questo, dell'educazione ricevuta in Toscana, nel collegio aristocratico di Poggio Imperiale, prima di prendere il diploma di maestra. Ma un connotato essenziale della pagina è la ridondanza, evidente già nella frequenza degli accoppiamenti sinonimici, «malinconico, triste», «la gioia, l'allegrezza». La scrittrice teme di non dire mai abbastanza, e nello stesso tempo ha fretta di accumulare nuovi materiali narrativi. Da ciò il suo periodare a flusso continuo, sottoposto a un controllo sintattico molto scarso: i segni d'interpunzione indicano delle pause emotive piuttosto che logiche. D'altronde la psicologizzazione degli stati d'animo si riduce a poche didascalie sbrigative; mentre la profusione trionfa nella descrizione di abbigliamenti e arredi. I sette capelli trabocca di raffigurazioni minuziose di toilettes, servizi da tavola, mobilia, prospettive architettoniche, secondo una tecnica ossessivamente ripetitiva, sempre al grado più alto dell'iperbole. Il lettore viene bombardato da una sequela di immagini che coniugano strettamente la bellezza alla ricchezza: anche se la narratrice non manca di fargli notare che la signorilità suprema preferisce puntare sugli effetti più semplici: ad avvalorare davvero il fascino femminile, niente di meglio che una tunica bianca, con un solo gioiello, ma di valore inestimabile, su una fronte immacolata. Ad analoghi propositi di suggestione risponde l'elevamento di tono del discorso tutte le volte che sono in gioco i sentimenti più nobili; ecco allora il ricorso alla formulistica aulica del repertorio melodrammatico, anche qui secondo modalità che tornano da un episodio all'altro senza varianti. La Invernizio insomma tende ad adeguare immediatamente la sua scrittura ai termini della fantasmagoria ininterrotta che le si produce nella mente. Uno dei poli rappresentativi è costituito dal ritratto di un'umanità sovranamente altera, davanti a cui restare incantati, ma annotandone con scrupolo tutti i connotati esterni. Al polo opposto c'è il quadro delle brutture e nefandezze cui gli uomini pure si abbandonano, seguendo gli istinti malvagi. Sempre compunta, Carolina qualifica sadicamente la pagina, conservando uno spirito di esattezza visionaria. Anzi, qui raggiunge i risultati più attendibili, con un linguaggio sintetico, quasi oggettuale, privo di insistenze manieristiche: basti ricordare la precisione con cui vengono diversificati per sesso e per età i supplizi inflitti da un crudele tiranno ai suoi sudditi: «i fanciulli venivano infilzati in ispiedi e arrostiti; le donne squartate; gli uomini impalati». Una prosa del genere esclude evidentemente ogni distanziazione ironica; ma non lascia molto spazio neanche allo stile effusivo dell'immedesimazione patetica. Piuttosto, la sfilata degli avvenimenti, come in un supermercato dell'immaginario, viene accostata direttamente ad alcune categorie elementari di giudizio morale, che la natura fiabesca del racconto fa tradurre nel linguaggio della persuasione pedagogica. A esprimerle è la protagonista; attraverso di lei, il punto di vista femminile informa tutta la narrazione. Da ciò il criticismo assillante con cui è perseguitato il personaggio maschile. Al povero Falco non ne viene passata per buona una; la sua amorevole compagna gareggia con le aiutanti e protettrici magiche nel fargli la predica a ogni passo: quanto lui si incaponisce a comportarsi da sventato, tanto sono puntigliose loro nel rinfacciargli la sua asineria. Topolina invece non sbaglia mai una mossa ed è investita da una costante luce apologetica: una vera minieroina dell'epica fiabesca. Quanto alle regine e streghe cattive, nei loro confronti c'è solo un atteggiamento di rivalità esplicita; l'importante è batterne le mene furbesche: poi si provvederà a punirle con efficacia, senza perder troppo tempo in insegnamenti, e se sapranno redimersi bene, se no peggio per loro. La struttura del racconto è funzionalizzata all'esigenza di ammaestrare il protagonista, facendogli toccare con mano la superiorità della concezione di vita impersonata da Topolina. La Invernizio è costretta ad abbandonare la caoticità d'intreccio abituale alla sua narrativa apprendivistica, tutta a svolte e garbugli, per aderire allo schema lineare della fiaba di tipo iniziatico, in cui l'eroe deve superare una serie di prove per mostrarsi degno del premio finale e ottenere l'ingresso nel mondo delle responsabilità adulte. D'altronde la regolarità di scansione degli episodi esaltava la tecnica iterativa, portando a impostare un succedersi di situazioni non tanto analoghe quanto addirittura quasi sinonimiche: valga il rapporto di simiglianza accentuata fra i regni del Capriccio, della Baldoria, Ricchezza e Vanità, viaggiando attraverso i quali Falco viene sottoposto a tentazioni sempre dello stesso ordine, diciamo così mondano. Ma proprio questo impegno di semplicità espositiva, in cui trovano luogo solo un paio di digressioni, eccita la tendenza a una complicazione ridondante dell'apologo narrativo: ed è su questa via che la fiaba si muta in un romanzo d'amore per bambini. A un fine di puro arricchimento della trama rispondono le scene e incontri intervallati fra le tappe principali del viaggio: il ragazzo sepolto vivo, alle soglie del regno del Capriccio; la fattoria della buona massaia e la casa del mago Crispetta, prima dell'ingresso nel regno della Baldoria; e ancora l'imbarco coi pirati, la guarnigione di frontiera, il pernottamento dalla gatta antropofaga, la Valle del dolore, lo Scoglio del mago. La Invernizio procede al gran galoppo, con una suspense continua e le poche pause indispensabili per riprender fiato. Il procedimento di costruzione degli episodi principali resta sempre identico: si tratta di smascherare l'efferatezza retrostante le manifestazioni di opulenza festevole in cui i protagonisti si imbattono durante il loro itinerario. Dietro l'inganno, si cela la prospettiva d'una morte orribile, secondo modalità opportunamente variate: Falco e Topolina potrebbero perire per annegamento, oppure arsi sul rogo, o chiusi in prigione senza cibo; ma potrebbe anche capitargli di essere imbanditi in tavola come pietanza, o di girare in eterno legati a una macina, in un sotterraneo infernale. Del resto, ad avvisarli dei rischi in cui sarebbero incorsi aveva provveduto la scenetta di cui erano stati testimoni appena intrapreso il cammino: il seppellimento, da vivo, di un ragazzo che aveva ceduto alle seduzioni del Capriccio. L'aneddoto è notevole per l'imperturbabilità con cui vengon registrati, da un lato i contorcimenti e le smorfie del suppliziato, legato nella sua bara aperta, dall'altro le danze delle «fanciulle discinte» che lo pizzicano, lo pungono, lo scherniscono con sana allegria. Come in altri romanzi, la Invernizio cerca qui di esorcizzare un'ossessione mentale che la assillava al punto di farle prescrivere per testamento che il suo corpo dovesse rimanere quattro giorni allo scoperto, prima della sepoltura. Naturalmente, questa pagina e altre consimili trovano giustificazione in una pedagogia della crudeltà, che mira a terrorizzare il piccolo lettore sulle conseguenze dei passi falsi cui abbia a esporsi. Ma la visualizzazione particolareggiata del comportamento delle torturatrici e del torturato la dice lunga sull'attitudine della scrittrice ad accompagnare l'erotismo al sadismo. Forse il luogo in cui questa tendenza assume movenze più estrose è la lussuosa villa borghese, con tanto di salotto per fumare, dove una strega e i suoi accoliti d'ambo i sessi, bellissimi sia nell'aspetto umano sia nei travestimenti gatteschi, si riuniscono per consumare orgie antropofaghe, con accompagnamento musicale. I protagonisti, cioè poi Falco, perché Topolina sa già tutto, devono insomma capire una duplice lezione; sociale e psicologica: dove il fasto sfrena la liberazione degli istinti, lì si cela una realtà di morte. A salvaguardare dalla tentazione provvede l'amore, ma quello vero: anche qui, bisogna stare attenti. Una complicazione ulteriore dell'intreccio è data dalle due occasioni matrimoniali che si presentano prima a Topolina poi a Falco, rispettivamente nei regni della Baldoria e della Ricchezza, cioè al centro del racconto. Bravi tipi, sia il malinconico principino Belfiore sia la brutta ma angelica principessa Scorpietta: ma non sono fatti per i nostri due eroi, entrambi nullatenenti, che proseguono saggiamente per la loro strada. D'altronde Topolina è decisa ad avere il suo compagno, in fondo fior di buon ragazzo; e costui ha il cuore occupato da un'altra, che non lo merita affatto. Veniamo così al prologo e all'epilogo, cioè le parti più propriamente romanzesche del libro. Nei capitoli d'avvio, Falco vive tranquillo nella foresta accanto al padre taglialegna e alla trovatella che hanno adottato, quando gli capita di innamorarsi di una ragazza, Tea, tanto bella e ricca quanto proterva. L'ha vista giocare a palla nel suo giardino e ne ha ricevuto un mucchio di insolenze; per conquistarla, decide di recarsi dalla fata Gusmara, a chiederle il dono dei suoi sette capelli, che danno potestà assoluta sugli uomini e le cose. Dopo aver cercato invano di dissuaderlo, Topolina parte con lui per proteggerlo dai guai nei quali sicuramente si caccerà. Ma Falco non si rende affatto conto della devozione intelligente di cui è gratificato. E nemmeno si ravvede quando, arrivati alla meta, la buona fata non può non fargli presente che a meritare il premio è stata la sua accompagnatrice, non lui; si persuade, anzi, che l'atteggiamento di Topolina è stato dettato non da amorevolezza disinteressata ma da subdola invidia nei suoi confronti e da gelosia per la rivale. Per sciogliere questo nodo di amore e magia occorre aspettare la scena madre conclusiva, cioè il nuovo incontro con la giovane maliarda in fiore. Tea dichiara a tutte lettere che del cuore di Falco non gliene importa nulla, a premerle è il braccialetto dei sette capelli; per averlo, è disposta a tagliare il polso di Topolina. A questo punto il ragazzo si decide a capire d'aver sbagliato tutto e si getta ai piedi della compagna. Quanto al talismano dell'onnipotenza, non sa più che farsene, anche se proprio ora se ne è dimostrato degno. I due innamorati felici torneranno a vivere solitariamente nel bosco, contenti di aver conquistato «un bene assai più grande di tutti i poteri e i tesori del mondo: la pace e la felicità domestica». A punire la cattiva provvede Gusmara in persona, facendole cadere di netto il braccio che aveva alzato il coltello su Topolina e riducendola a bruttezza e povertà. La quête del giovane taglialegna si risolve dunque nel riconoscimento d'una verità che gli era sempre stata dinanzi agli occhi: i figli del popolo non hanno alcun bisogno di inseguire sogni ambiziosi, quando la felicità consiste nell'unirsi a una ragazza del loro stato, assieme a cui vivere appartati da clamori e violenze. L'invito al quietismo sociale si corrobora con la presa di posizione sul grande tema del contrasto fra città e campagna: alla tranquillità della foresta, dove le giornate scorrono sul ritmo inalterabile della vicenda naturale, si contrappone il disordine dei regni urbani, simbolizzanti i vizi congeniti della civiltà moderna. Alla base del racconto c'è una disposizione dei personaggi secondo il classico schema triangolare che vede l'uomo alle prese con due donne di qualità opposte. La struttura fiabesca provvede soltanto a enfatizzare, esteriorizzandole in avvenimenti meravigliosi, le difficoltà che il protagonista incontra entro se stesso prima di abbracciare la causa giusta. Regine streghe maghi malvagi rimandano alla disposizione malefica incarnata da Tea; la fata Gusmara e i suoi vicari sublimano le virtù positive esemplate da Topolina. Ci troviamo in un universo femminilizzato, dove il personaggio maschile non agisce ma è agito, subendo l'iniziativa delle rappresentanti dell'altro sesso; anche se a lui spetta di maturare la scelta decisiva. Nella raffigurazione dei due eroi principali la Invernizio compie un drastico mutamento di ruoli. La ragazza ostenta di contentarsi d'una parte timidamente subalterna, ma è la vera testa forte della coppia, mostrando una personalità assai più adulta del compagno, a dispetto dell'inferiorità di anni. Di Falco, la scrittrice afferma che ha il torto di seguire il cervello piuttosto che il cuore: in realtà è vero semmai il contrario, giacché al povero ragazzotto vengono affibbiati una serie di attributi che non danno davvero l'idea di un temperamento raziocinante: testardaggine e mutevolezza d'umore, avventatezza e inclinazione allo smarrimento, impressionabilità e sicumera. La Invernizio infierisce a tutto potere su questo esemplare di maschio irresponsabile, umiliandolo in ogni modo; basti pensare al dettaglio, in sé e per sé ingiustificabile, per cui Falco non deve sapere che Topolina possiede vari amuleti ai quali ricorrere per uscir di pericolo, e ogni volta ci rimane come un babbeo. Di contro, la ragazza rappresenta un modello di spregiudicatezza pratica e energia morale, realizzando un equilibrio perfetto fra ragione e sentimento. Topolina incarna la femminilità nella sua purezza primigenia, anteriore alle affatturazioni del viver civile. Non per nulla emerge dal seno della natura, venendo ritrovata nel tronco cavo di un albero su cui il vecchio taglialegna intende portare l'accetta: una simbolizzazione della scena del parto, inconsapevole anche questa ma non perciò meno significativa. D'altronde sin dalla prima pagina siamo stati informati che il padre di Falco è vedovo; la trovatella si inserisce dunque nella famiglia adottiva con una molteplicità di funzioni, sororale, filiale, materna. E il matrimonio con il giovane assumerà una coloritura incestuosa che ne esalta la primarietà, con una allusione edipica ben percepibile. La fiaba intende mitizzare l'istituto domestico come un nucleo intimamente raccolto in se stesso, secondo un'autonomia prosciolta da legami con l'organismo sociale. A questo fine la protagonista adibisce ogni risorsa. Essa sa già nativamente, in quanto donna, che il grande mondo si sottrae ai sogni infantili di onnipotenza. La missione femminile consiste nel riportare il maschio a una misura di realtà, così da fargli esplicare il suo impegno energetico nell'ambito consacrato della famiglia. All'uomo continueranno a essere delegati i compiti materialmente operativi; alla donna però spetta non solo di sorreggerlo ma di guidarlo, in nome di una consapevolezza intellettuale e morale più elevata. Questo femminismo all'ombra del potere lascia dichiaratamente inalterate le basi dell'ordinamento sociale: anzi vi professa maggior rispetto nell'atto stesso in cui ostenta di appartarsene. È sintomatico che fra le varie punizioni comminate alle nemiche della fata Gusmara la più dura tocchi alla regina della Vanità, che pure incarna un peccato normalmente considerato veniale; mentre a cavarsela con minor danno è la regina della Ricchezza, anche se presso di lei la protagonista ha corso il pericolo maggiore, trovandosi in procinto d'esser arrostita sul rogo. Troppo borghese era Carolina, per non nutrire davvero soggezione nei riguardi del denaro. Va aggiunto tuttavia che il suo intimismo femminista poteva aprirsi a una visione, diciamo così, di riformismo idillico: la società le appariva come una grande azienda a conduzione domestica, in cui alla divisione armoniosa dei compiti fra i sessi subentra quella fra capitale e lavoro. Ecco l'aneddoto sui quattro fratelli proprietari, nella Valle dei buoni: «Essi dicono, giustamente, che la proprietà è formata da una parte dal capitale, dall'altra dal lavoro, perché senza lavoro rimarrebbe infruttifera, quindi il lavoro essendo capitale anch'esso, la proprietà deve essere divisa in parti eguali fra padroni e lavoratori». Il linguaggio non è dei più perspicui; il concetto si riallaccia però a tesi diffuse fra i ceti moderatamente illuminati della borghesia produttiva, nel Nord Italia. Certo, la Invernizio aggiunge subito che occorre andarci cauti, anche con queste blande utopie paternalistiche, giacché le classi lavoratrici sono insaziabili: «La gente ignorante non ne ha mai abbastanza, non conosce la gratitudine e spesso i beneficati si sono lagnati ancora dei loro benefattori». L'osservazione rimanda tuttavia, a sua volta, al principio per cui era anzitutto necessario intraprendere un'opera di educazione delle masse proletarie, facendole accedere alla cultura e in tal modo mettendole in grado di partecipare a uno sforzo di progresso collettivo: sotto la salda egemonia pratica e ideale, s'intende, delle forze borghesi. Che poi l'azione educatrice avesse a diluirsi nel tempo, e per intanto tutto andasse lasciato come era, questo è un altro discorso. Resta il fatto che la scrittrice, pur nei limiti di una mentalità ultraborghese, non è ascrivibile fra i reazionari ciechi: né i contemporanei la ritennero tale, tutt'altro. Non c'era di mezzo solo il fondato sospetto che a far girare carta stampata fra le plebi, nella fattispecie romanzi, si accendessero fantasie, si eccitassero desideri che in qualche modo potevano indurre a riflettere sulla disparità se non sull'ingiustizia delle condizioni di vita fra le diverse classi. Il punto è che tutti i libri inverniziani sono improntati a una visione pessimistica dell'universo sociale: e si tratta di opere di ambiente contemporaneo, non proiettate in un passato più o meno remoto. La narratrice non tesse alcuna apologia indiscriminata delle classi alte; anzi mette bene in chiaro il cattivo uso che i più fortunati fanno dei loro privilegi. Ciò non vuol dire che prenda senz'altro le difese dei diseredati: ai suoi occhi, il vizio e la degradazione allignano egualmente ai due estremi della scala sociale. Viene comunque esclusa una prospettiva di pura e semplice idealizzazione dell'esistente; a farsi luogo è una visione drammatica della natura umana, d'origine religiosa ma dai connotati non tanto cattolici quanto cristiano-biblici dove, piuttosto che la dialettica fra bene e male, peccato e redenzione, conta quella fra colpa e vendetta. In questo quadro vanno collocate anche le affermazioni categoriche sulla vanità dei beni mondani, come quelle contenute in un romanzo del 1905, Il treno della morte: «La gloria? Una chimera. Il piacere? Un'illusione, terminata in una nausea. La ricchezza? Un godimento materiale passeggiero». Di qui veniva un riconoscimento di valore all'umiltà oscura della vita quotidiana condotta dalla gente semplice, che sconta sulla sua pelle le fatiche più ingrate. E di qui derivano anche i tenui motivi di sensibilità sociale, rinvenibili ad esempio nelle pagine di La morta nel baule, del 1910: «il popolo, mentre scusa i propri difetti, dei quali spesso non è responsabile, perché derivano dall'ambiente, dall'educazione, vuole, esige nei suoi rappresentanti una integra onestà, la virtù più scrupolosa». Come nei Sette capelli, peraltro, la scrittrice si affretta a escludere dall'attualità ogni programma concretamente rinnovatore: «L'eguaglianza dei popoli verrà il giorno in cui tutti saranno istruiti e sapranno comprendere nella stessa maniera i diritti e i doveri; ma per ora, se tu cerchi di sollevare alla tua altezza chi è da meno di te, egli farà subito valere i suoi diritti, e si riderà dei doveri». Figlia di una nobildonna tortonese, moglie di un ufficiale di carriera, vissuta fra gli agi, la Invernizio appare estranea agli spiriti populistici che caratterizzarono l'altro maggior protagonista del feuilletonismo nostrano, il napoletano Francesco Mastriani. Piuttosto che dal romanticismo sociale alla Sue essa ripete i suoi moduli dalle vicende private di amori delittuosi, delle quali era maestro il Montepin. I romanzi inverniziani hanno per solito un'intonazione «gialla», sia pure senza intervento di organi polizieschi e giudiziari. Lo scatenarsi delle passioni più ignominiose ha alla base un movente economico, configurabile come un attentato alla proprietà altrui per fini di arricchimento ed elevazione sociale. Nondimeno, ciò che conta è una eruzione di istinti aggressivi che oltrepassano la soglia del cinismo per giungere a una gratuità delirante. I carnefici tormentano le vittime con tanto maggiore spietatezza quanto più le sanno innocentemente inermi; d'altronde costoro, appena siano in grado di farlo, le ricambiano con ferocia analoga. In questo museo permanente degli orrori soltanto il caso si assume la parte di raddrizzare i torti, offrendo l'occasione per il trionfo d'una giustizia vendicatrice. È lo stesso oltranzismo della fantasia perversa a determinare, per compenso, l'onnipresenza di un destino provvido, in sede di scioglimento dei nodi narrativi. Ma al di là della funzione rasserenante e consolatoria svolta dall'epilogo, il rapporto col pubblico si fonda sull'appello alle emozioni truci che hanno dominato il corso del racconto. Nella profluvie dei suoi rozzi romanzi la Invernizio offre un affresco di costumi tenuto su tonalità ben diverse da quelle degli scrittori che si rivolgevano alle classi colte, celebrando i fasti della nuova nazione appena uscita dall'epopea risorgimentale e avviata ottimisticamente verso nuove mete di progresso. La trascuranza assoluta della letteratura ufficiale nei confronti del fenomeno Invernizio traeva origine, certo, dal disprezzo aristocratico o meglio dal risentimento contro un'autrice che, col suo oltraggio sistematico ai canoni del bello scrivere, otteneva un consenso entusiastico da parte dei lettori popolari, assunti a interlocutori privilegiati. Ma i motivi formali prendevano sostanza dalla riprovazione per la spregiudicatezza con cui venivano messi troppo arrischiatamente in gioco i principi del perbenismo moralistico, che imponeva di non sollevare mai il velo sulle manifestazioni di perversità più pericolose per l'ordine psichico costituito. Le classi dirigenti si ritrovavano tanto più compatte in difesa delle ipocrisie convenzionali in quanto il romanticismo italiano non aveva conosciuto, almeno sino alla Scapigliatura, le venature nere e goticheggianti della narrativa ottocentesca europea; né in seguito le audacie del naturalismo ebbero un riecheggiamento adeguato presso i nostri narratori veristi. Per parte loro, gli strati subalterni potevano riconoscersi più agevolmente nell'universo di brutalità e sopraffazione dipinto dalla Invernizio, che nei favoleggiamenti decorosi e soddisfatti dei cantori dell'età umbertina. È vero che nei feuilletons della scrittrice non riscontravano traccia delle loro ragioni di protesta e di crescente irrequietudine; è vero anche che ne venivano cullati nella fiducia in un provvidenzialismo miracolistico; ma almeno vedevano convalidata la loro esperienza di vita con il peso assegnato, nelle relazioni interpersonali, a una somma di fattori negativi che nessuna autorità pubblica appariva in grado di controllare. Si è già accennato che, se fosse per poliziotti e magistrati, le atrocità pullulanti nella narrativa inverniziana resterebbero di norma impunite. In questa società disgregata e caotica, lo Stato non è che una figura di assenza. Ma anche la famiglia, luogo deputato dell'integrità umana, versa in condizioni allarmanti. La narratrice partecipa della preoccupazione, così diffusa fra gli intellettuali postunitari, di fronte alla crisi del modello patriarcale di istituzione domestica, determinata dall'avvento dell'urbanesimo capitalistico. Non per nulla la sua opera è ambientata in prevalenza su sfondi cittadini, tra Torino e Firenze, curiosamente camuffate entrambe per far loro rivestire il ruolo della Parigi più torbida e misteriosa. Agli occhi della Invernizio il collasso del patriarcato arcaico si traduce in uno sfacelo generale di quei valori virili che da sempre hanno sorretto l'organizzazione della civiltà. E mentre il maschio si rivela ormai inetto ad addossarsi le responsabilità che gli competono, il sesso femminile libera tutte le sue potenzialità positive e negative. Angelica martire o mostro satanico, vergine laboriosa o maestra di dissolutezze, la donna egemonizza sempre il suo compagno, riducendolo alla parte sbiadita del succubo. L'atteggiamento non è dissimile, in fondo, da quello dei romanzi giovanili verghiani, pur tanto più contristati e arrovellati. Ma quanto a lei, la Invernizio procede senza troppe complicazioni a un mutamento di prospettive, nel rapporto fra i sessi, abbracciando l'ottica della femminilità. Dopo l'Unità anche in Italia, soprattutto nell'area settentrionale, si era acceso un dibattito sulla condizione della donna. Vi partecipava una leva di scrittrici numerosa come non mai in passato, dalla Serao a Neera, dalla marchesa Colombi a Emma, a Regina di Luanto; e avevano cominciato a farsi avanti le pioniere dell'emancipazione, come Anna Maria Mozzoni, autrice di violenti atti d'accusa contro i pregiudizi filistei e le arretratezze interessate per cui la donna era assieme «l'esclusa della società» e «la serva della famiglia». La Invernizio si sentiva dunque incoraggiata nella tendenza a un superdonnismo che le assicurava un colloquio larghissimo con le lettrici di base. Solo che la sua esaltazione delle risorse femminili, come non aveva alcun contenuto critico, così non recava alcuna proposta di valori alternativi. Va tenuto conto che le sue eroine supermalvagie smentivano proficuamente la mitologia arcadica della femminilità coltivata da tanta parte della nostra letteratura ottocentesca. Ma su tali figure sopravvenivano subito quelle dal cuore intemerato; e costoro, pur con le loro maggiori doti di iniziativa rispetto alle consorelle tradizionali, non si discostavano dalla parte di tutrici del focolare domestico. La donna, per la Invernizio, deve subentrare all'uomo in un'opera tesa a revitalizzare l'istituto familiare, non certo a spegnerlo; la sua vocazione si esplica nei servigi e sacrifizi resi all'eterno bambino, di cui è nello stesso tempo figlia e madre. Su questa via ridiventava plausibile il recupero dei valori etici e religiosi più stabiliti: la superdonna per eccellenza è Maria Santissima, verso cui la Invernizio, frequentatrice abituale di una delle chiese-bene di Torino, la Consolata, provava devozione particolare. Nel Trionfo dell'Araba leggiamo un encomio mariano dagli accenti eloquenti: «Maria è la creatura sublime chiamata alla redenzione dell'universo, che ha servito e serve come anello di congiunzione fra l'umanità e Dio. Maria è una potenza morale che personifica la giustizia e l'ordine, la pace, virtù proprie di tutti gli stati, di tutte le condizioni di vita. Maria è la vergine semplice, umile, pura, arricchita di tutti i celesti tesori, benedetta ed invocata anche dai più scettici e il suo nome è una guida, un ammaestramento, un impulso al bene, un'aspirazione ad alti e santi ideali». La scrittrice punta insomma non su un rinnovamento dei ruoli sessuali ma su una loro redistribuzione: attribuisce alla donna una serie di caratteri considerati tipici se non esclusivi della maschilità, così da far risultare più ricco l'essere femminile — che però continua ad ispirarsi a ideali passatisti. Una forma di femminismo sì, ma di destra, adatta a incontrare gli stati d'animo di larghe masse di donne del popolo e della piccola borghesia, desiderose di veder riconosciuta la loro dignità, senza per questo fuoruscire dalla carriera sicura di angelo del focolare: cioè evitando di impegnarsi sui problemi di un inserimento attivo nella vita sociale, in qualità di lavoratrici e non solo di casalinghe. I sette capelli d'oro della Fata Gusmara iperbolizza queste idee guida, sistemandole nell'assetto di un apologo esemplare. Nel passaggio dal livello appendicistico a quello della fiaba infantile, rimane inalterata l'immagine dell'uomo conteso tra due figure di femminilità, l'una tentatrice mondana l'altra redentrice spirituale; assume però maggior evidenza il fatto che la partita si gioca tutta fra le contendenti antagoniste. La vincitrice ha tanto più merito giacché ha saputo battere l'avversaria sul suo terreno, superandola in accortezza e combattività. Quanto all'uomo, sballottato fra avvenimenti di cui non capisce il senso, dovrà essere tenuto per mano sinché compia l'entrata nell'età adulta. Ma infine anche egli arriverà allo stadio della piena consapevolezza morale, ottenendone il premio migliore: il godimento dell'amore di una donna, quella che lo ha già scelto e ha deciso maternamente tutto per lui.
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