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Emilio De Marchi Vecchie cadenze e nuove IntraText CT - Lettura del testo |
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IL CANTO DELLA PIETÀ
Essa diceva il suo dolor. La voce Scaturiva dal cor come un gorgoglio D'acque interrotte, che fan specchio al piede D'una pallida Niobe di marmo. Anch'essa nata era di carne viva La bella donna e quel suo cuor di sasso Avea pur gorgheggiato entro la festa Degli usignoli, quando april dischiude L'anima ai fiori ed escono i profumi Dalle selve com'onda pia d'incenso Verso un gran dio.
È allor che si diffonde La giovinezza per il mondo e voce La natura non ha che non diventi Armonia sulle corde d'un pensiero Innamorato. Il cor, come rosata Conchiglia tolta ai ceruli misteri Dell'onda, emana un mistico frastuono, Che vien da un'invisibile e ritorna A una sponda invisibile, tra cui Non anco rugge la tempesta umana. E mi dicea come morì travolta Dalla sterile vita in un'angoscia D'oltraggiate speranze, invan stringendo Nella man l'ombra dei fuggenti sogni Fatti quasi rimorsi. E non bagnava Il suo mesto parlar stilla di pianto, Ch'è pur sì dolce a chi racconta i mali: Ma gli occhi aperti e cristallini tutta Rinfrangean la mestizia del deserto, Ove più non ritorna ombra di bella Cosa passata e sol vi regna il nulla Che ripensa sè stesso.
Allor si ruppe La pietà del mio cor: e col mio pianto Lei piangendo e le gelide di marmo Piccole mani accarezzando, e tutta Spirando su di lei l'anima accesa: - Ch'io senta, dissi, oh ch'io per te ritrovi Il tuo dolor, oh ch'io per te la piena Versi del pianto mio sulle tue mani A riscaldarle: e la mia mano ardente Ti cerchi il cor fatto di pietra e un fiato Passi della pietà che mi distrugge Per le rigide labbra. A desolate Rovine è vita il pio pensier dell'uomo, Che le penetra spesso, onde par quasi Ch'escan le storie più lontane e torni La voce delle cose. Io so che a qualche Simulacro sepolto la carezza D'un amoroso artefice ha potuto La bellezza ridar d'una divina Luce scomparsa e l'immortal sorriso Che fu delizia già del mondo. O estinta Ove scenda la mia che ti carezzi Spiritual pietà, di fibra in fibra Trascorrerà la vita, delle spine Risentirai la punta e colar sangue Vedrò dalle tue carni e gli occhi pregni Farsi di pianto e trasalir le membra Entro i soavi spasimi - soavi Se ci fan questa vita anche una volta Ritrovar sul cammin della speranza. - Nulla può - mi rispose - a un corpo morto Pietrificato in un dolor eterno Dar vita e forza, non s'altri lo ponga Nelle fiamme del sol. In me già spenta È la memoria d'ogni antico sogno E giace il desiderio in un oscuro Angolo come spada irrugginita: Lascia ch'io posi qui sul mio sepolcro Statua dolente di me stessa morta, In fin che il tempo colla lenta ingiuria poco a poco il mio nome cancelli Dalla pietra e la gialla edera stringa Del mio destin la bruna urna caduta.
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Così dicendo, aprì gli occhi solenni, Che parver vuoti d'ogni idea e fece Infine al fondo a me tutta palese L'infinita tristezza. Un senso oscuro Quasi di morte allor mi assalse e curvo Sopra i ginocchi, al suo rigido corpo Appoggiato, intonai l'inno del pianto, A cui dal sen delle dolenti cose Mille voci risposero piangendo. Un fremito mandò scossa la selva Pei rami infranti e dei rapiti fiori Si querelò sul margine il cespuglio Delle rose di maggio. In un lamento Singhiozzando la tortora proruppe Dall'alto nido e raccontò l'angoscia Dei rotti amori. E fin dentro le grotte Del cavo tufo risonò la lenta Storia d'oscure lagrime stillanti, Di cui le ortiche pasconsi e s'imbeve L'orrida spina. Dai meandri, in cui S'appiatta il verme, un susurrìo di duoli
Venne a narrar come si soffra indarno Di vita fin nell'ultime radici Poi che una legge di dolor governa I sostegni del mondo e sol si pasce Di sè stessa natura. Ecco non una In braccio al vento trema arida foglia Senza dolor, non sfiorasi una siepe, Ma quando autunno misero sparpaglia Per le fredde campagne quasi un sciame D'anime stanche, stridono i viali Che le vedon fuggir e lunghe stendono A lor le braccia gli alberi morenti Sopra i bianchi crepuscoli.
Più triste Sarìa di quest'uman gregge la sorte Nella valle del duol ove non fosse Della pietà la lagrimosa fonte A ristorar le forze inaridite. Forse a rimedio d'immutabil sorte E d'inconsulto error questa nel coro Ci pose un dio di lagrime sorgente, Che sovra i mali ampia trabocca e spegne Di molti mali il furibondo orgoglio. Sgorga la fonte e qual si apre al ristoro Della rugiada un fior consunto, un fiore Torna così di pallida speranza Sulla tomba dell'anima e diffonde Il non morto profumo. Essa è divina E vien da noi questa bontà del pianto, Che benedice alle morenti cose E le morte consacra. Ai colpi acerbi Della forza che strugge, una gentile Forza che sana contrappone e tragge Dall'ingiuria l'amor. Ove non fosse, Nido di serpi il mondo ed esecrata Sorte sarìa la vita e combattuta Ragion l'amor come tra i ciechi armenti; Ma la pietà che stilla e che ti avvolge Di lagrime in un tiepido lavacro Ti fa più bella pensierosa e santa, Alta ti posa sull'altar del duolo Quasi raggiante, e in te fissarsi è luce Al lontan pellegrin ch'erra smarrito Per la sassosa valle e che già teme D'essere morto o faticosamente Conduce il peso dell'inutil vita.
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Un vermiglio color corse le guancie, La man che ghiaccia resistea si sciolse In un tiepor di calde rose al sole; Si schiusero le labbra e fatto indarno Argine all'onda che le gonfia il petto, Proruppe il pianto vincitor dei mali.
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